Questo numero di Questione giustizia è dedicato al Consiglio superiore della magistratura. Le ragioni della scelta dipendono non solo e non tanto dal fatto contingente che nell’anno 2018 scade il quadriennio dell’attuale consiliatura e si terranno perciò le elezioni per il rinnovo del Consiglio, ma soprattutto dalla coincidenza di due anniversari fondamentali nella storia della Repubblica, che cadono entrambi nello stesso anno 2018 ed interessano il Consiglio superiore. Mi riferisco ai settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, che ha dato al Consiglio superiore il rango di organo costituzionale disegnandone i lineamenti, ed ai sessant’anni dalla emanazione della legge 24 marzo 1958, n. 195, che, sia pure con grave ritardo, istituì il Consiglio nella veste giuridica che conosciamo dando finalmente attuazione al dettato costituzionale.
È appena il caso di avvertire che il Consiglio superiore della magistratura concepito dai Costituenti ha ben poco a che spartire con l’omonimo organismo istituito dalla legge 14 luglio 1907, n. 511 (poi ripetutamente modificata in epoca fascista), che per larghi tratti della sua esistenza non fu di nomina elettiva ed esplicava prevalentemente funzioni consultive per il Ministro della giustizia. Nell’impianto costituzionale il Consiglio superiore è parte di un più ampio disegno, che vede nella magistratura il garante fondamentale dello stato di diritto e ne assicura l’indipendenza come condizione essenziale perché essa possa svolgere la funzione di amministrare la giustizia in nome del popolo.
Se i giudici – tutti e ciascuno – sono soggetti soltanto alla legge, come enuncia il secondo comma dell’art. 101 della Costituzione, occorre garantirne l’indipendenza da ogni potere, pubblico o privato, che ne potrebbe condizionare l’operato; ed è appunto per questo che il primo comma del successivo art. 104 solennemente proclama l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere. Non solo l’indipendenza – si badi – ma anche l’autonomia, perché l’indipendenza funzionale del magistrato non potrebbe davvero realizzarsi pienamente se il modo in cui concretamente si esplica la sua attività negli uffici giudiziari e le sue pur legittime aspettative di vita personale e professionale dipendessero da scelte e disposizioni provenienti da altri poteri. Nasce da questa consapevolezza l’esigenza di autogoverno della magistratura, che lo stesso citato art. 104 della Costituzione ha inteso soddisfare mediante l’istituzione del Consiglio superiore, facendone il baluardo imprescindibile dell’indipendenza dell’ordine giudiziario.
L’indipendenza non è però sinonimo di separatezza, e tanto meno di incomunicabilità con gli altri apparati dello Stato e con la società civile. Di questo i Costituenti erano ben consapevoli, e ciò spiega la scelta d’introdurre all’interno dell’organo di autogoverno della magistratura una componente minoritaria cd. laica: professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati con almeno quindici anni di attività, eletti dal Parlamento in seduta comune.
La qualifica professionale dei componenti laici attesta la loro appartenenza a quei diversi settori del mondo giuridico, l’accademia ed il foro, che con la magistratura debbono costantemente dialogare perché, al pari di essa, sono indispensabili al buon funzionamento della giustizia. La loro partecipazione al governo dei magistrati esprime la necessità che il corpo giudiziario non si chiuda in se stesso ma sia invece aperto anche ad uno sguardo esterno, non però estraneo.
La nomina parlamentare dei componenti laici, in una logica che per certi versi richiama quella che ha ispirato la composizione della Corte costituzionale, testimonia della valenza politica (nel senso più lato e più alto del termine) del Consiglio superiore, che infatti è certamente chiamato ad esprimere un proprio indirizzo politico in materia giudiziaria, come lucidamente dimostra Gaetano Silvestri nello scritto a sua firma su questo stesso numero della Rivista. L’esercizio della giurisdizione è una delle funzioni essenziali di qualsiasi società umana, ed il modo in cui questa funzione è organizzata e gestita non è mai riducibile ad una dimensione meramente tecnico-amministrativa, perché coinvolge scelte che, pur trovando nella Carta costituzionale gli essenziali criteri di orientamento, sono sempre in qualche misura espressione del programma ideale di chi le compie. Basta por mente, per non fare che un esempio, ai criteri di formazione delle tabelle degli uffici giudiziari ed a come si esplica il ruolo del dirigente, nel rispetto dei principi costituzionali di precostituzione del giudice naturale, di subordinazione del giudice soltanto alla legge e di buon funzionamento dell’amministrazione, per intendere immediatamente quante e quali diverse opzioni si diano in questo campo e quanto esse possano dipendere dal diverso approccio ideale di chi ha il compito di decidere.
Nei termini in cui la Costituzione lo ha disegnato, il Consiglio superiore si presenta dunque innegabilmente come un modello assai appezzabile di equilibrio tra esigenze diverse ed, in definitiva, come un efficace strumento di garanzia dell’autonomia ed indipendenza dell’ordine giudiziario. Nel panorama internazionale esso ha contribuito alla diffusa convinzione che la magistratura italiana sia tra quelle che godono di un maggior tasso d’indipendenza rispetto agli altri poteri dello Stato, e credo si possa dire che per molti anni i magistrati italiani, pur non facendo mai mancare le loro critiche al modo di funzionamento dell’organo di autogoverno, ne sono stati intimamente persuasi.
Ho però l’impressione che negli ultimi decenni qualcosa sia mutato e che l’insoddisfazione per il modo di essere e di operare del Consiglio superiore sia andata man mano crescendo sin quasi a rischiare forme di vera e propria delegittimazione. Vi hanno probabilmente concorso anzitutto fattori esterni. Nel contesto di generale contrapposizione tra mondo politico e mondo giudiziario, che ha caratterizzato la stagione detta di “tangentopoli” ed i cui echi non sono ancora affatto sopiti, ha preso piede nell’opinione pubblica l’idea che il Consiglio superiore fosse troppo politicizzato, che costituisse uno degli strumenti mediante i quali la magistratura tendeva ad ampliare il proprio potere a scapito delle istituzioni rappresentative e che il suo operato rispondesse a logiche di tipo corporativo.
L’accusa di politicizzazione mi è sempre parsa assai poco fondata. Che l’organo di autogoverno della magistratura abbia, nel settore di sua competenza, anche una valenza lato sensu politica lo si è già ricordato, ed è insito nella sua stessa funzione. È poi francamente paradossale che questa accusa sia spesso venuta proprio da ambienti politici in cui si sosteneva la necessità di modificare il rapporto numerico tra membri laici e membri togati del Consiglio incrementando la componente dell’organo di provenienza politica. L’autogoverno è a fondamento dell’autonomia della magistratura, voluta dalla Costituzione, e non si comprende come il Consiglio superiore possa essere un organo di autogoverno dei magistrati se composto in maggioranza da non magistrati designati dal Parlamento. Non può certo escludersi che anche nei magistrati facenti parte del Consiglio superiore, come in qualsiasi altra categoria professionale, si manifestino talvolta spinte corporative, che in quanto tali vanno certamente combattute, ma non le si deve confondere con l’esercizio della funzione di tutela dell’indipendenza della magistratura che è a fondamento dell’autogoverno.
L’accusa di politicizzazione ha però anche un significato diverso, che tocca aspetti interni al mondo stesso della magistratura. Alludo a quel fenomeno, comunemente definito con valenza spregiativa “correntismo”, che solo alla lontana si ricollega all’agone politico generale ed è insito invece nella politica associativa dei magistrati. La contesa per il potere tra le diverse correnti associative troverebbe nel Consiglio superiore il proprio terreno di elezione e ne condizionerebbe pesantemente le scelte.
In questa accusa c’è del vero: sarebbe ipocrisia negare che non di rado le correnti della magistratura associata hanno assunto il carattere di vere e proprie cordate tese a favorire i propri aderenti mediante logiche di scambio poco commendevoli. Da questo peccato il Consiglio superiore non è andato esente. Ma non si deve buttare via il bambino con l’acqua sporca. Proprio perché il modo in cui si organizza e si dirige il funzionamento della giustizia, come già sottolineato, non è affatto neutro, ma esprime un mondo di valori ed un insieme di opzioni ideali in cui ciascuno di noi si riconosce, è naturale che intorno a quei valori ed in vista di quelle opzioni si raggruppino coloro che li condividono, ed è opportuno che ciò avvenga in modo trasparente così che ognuno possa consentire o dissentire dalle linee programmatiche espresse da un determinato gruppo. Rinunciare a questa possibilità e pretendere che l’autogoverno della magistratura sia affidato alla somma di scelte meramente individuali di magistrati concepiti come monadi non comunicanti più ancora che un’utopia appare un’ipocrisia. Non sono le correnti il male assoluto; il male è la loro degenerazione, il loro trasformarsi – quando accade – da luogo di condivisione di progetti e di ideali in gruppi di gestione del potere e di reciproco supporto degli aderenti sia nell’ambito associativo sia in quello consiliare. È questo che va combattuto, sapendo che, per fortuna, non sempre è così e che occorre saper distinguere contrastando la pigrizia mentale di chi pone sempre tutto e tutti sullo stesso piano.
Ma, se non m’inganno, la disaffezione verso il Consiglio superiore sta crescendo nel corpo stesso della magistratura anche sotto un altro profilo. Lo si guarda talvolta con un senso di diffusa diffidenza e di sostanziale estraneità, se non addirittura di fastidio. È come se tra l’organo di autogoverno e la base della magistratura (o almeno una parte di essa) si stesse scavando un solco, che per alcuni versi ricorda quello sempre più evidente che oggi allontana i cittadini dalla classe politica, che pure dovrebbe rappresentarli e che viene invece percepita come una casta separata e privilegiata. Forse ciò è espressione di un fenomeno più generale di crisi che in questa fase storica attraversano le classi dirigenti di tutti i Paesi del mondo occidentale, ma in un ambiente ristretto e professionalmente qualificato, quale è quello dei magistrati, la tendenza assume un carattere singolare. Ed è una distorsione grave quella che si produce se il magistrato medio vede nel Consiglio superiore non tanto la garanzia della propria indipendenza e l’espressione e dell’autogoverno del corpo giudiziario di cui egli stesso fa parte ed al cui buon funzionamento concorre, quanto piuttosto un vertice burocratico che vagamente lo opprime, che lo controlla e dal quale all’occorrenza deve magari anche difendersi.
Si capisce che di queste distorsioni lo stesso Consiglio superiore porta una quota di responsabilità. Il rischio di una progressiva burocratizzazione della funzione giudiziaria, cui pure in parte si ricollega l’atteggiamento psicologico del magistrato medio cui prima alludevo, è stato certamente accresciuto dall’approccio, del pari talvolta alquanto burocratico, col quale il Consiglio superiore ha affrontato molti aspetti del governo della magistratura. Senza poter entrare qui in dettagli, va detto che non è facile trovare il giusto punto di equilibrio tra la rigorosa predeterminazione delle regole ed il pur indispensabile esercizio della discrezionalità. Ho l’impressione che, talvolta, un eccesso di regole e di criteri formali abbia nuociuto all’effettiva trasparenza delle scelte compiute dal Consiglio finendo per oscurarne le motivazioni. Un certo numero di regole ovviamente occorre, ma non tali e tante da impedire che i rappresentanti di un corpo elettorale ristretto, quale quello dei magistrati, esercitino responsabilmente e coscientemente la discrezionalità che gli elettori hanno loro confidata, rendendone conto in piena trasparenza.
Il dovere di rendere conto del modo in cui si esercita la discrezionalità, contrapposto ad una pretesa applicazione meccanica di criteri burocraticamente stabiliti, è appunto uno dei principali fili conduttori degli scritti ospitati da questo numero della Rivista. Ed è giusto che lo sia, perché è proprio con questo filo che bisogna cercare di ricostruire un legame forte tra i magistrati italiani e l’organo di autogoverno, facendo sì che essi tornino a sentire il Consiglio superiore come espressione di loro stessi, pur nelle diverse e legittime articolazioni ideali, e si sentano a propria volta pienamente responsabili delle scelte che compiono nell’eleggerne i componenti.
È null’altro che un esercizio di democrazia; e la democrazia, si sa, spesso è faticosa e frustrante, ma sarebbe un guaio doverne fare a meno.
Renato Rordorf
Febbraio 2018