1. L'universo delle istituzioni politiche, giudiziarie, professionali e l'opinione pubblica in generale sono ormai da tempo percorsi da profonde divisioni, di principio e di dettaglio, sullo spirito informatore e sulle varie disposizioni che compongono l'articolatissimo disegno di legge conferitivo al Governo di plurime deleghe, comprese quelle inerenti alla riforma dell'ordinamento giudiziario. Le aree attorno alle quali si coagulano, in una non sempre ordinata commistione, consensi e dissensi sono molteplici e non vi è giorno o sede pubblica in cui il dibattito si accenda o addirittura si infiammi con esiti che sovente frastornano anche per la ruvidezza dei toni ed il manicheismo delle posizioni.
Un utile viatico ad un esame della materia che si discosti da irrimarginabili fratture bipolari e si allontani da frementi passioni può essere costituito dalla circoscritta considerazione di alcuni, specifici ma qualificanti in termini di rilevanza, punti trattati nel provvedimento che, approvato dalla Camera dei Deputati, si accinge a far ingresso (da molti pronosticato come turbolento) nelle aule delle competenti commissioni e dell'assemblea del Senato.
Per assecondare questa prospettiva si sceglie in questo breve scritto di concentrare l'analisi su alcune, limitate questioni e di guardare ad esse, non tanto dall'angolo visuale del merito delle soluzioni offerte dal testo legislativo, quanto da quello della loro intrinseca coerenza in relazione al fine, apertamente o silenziosamente, perseguito. In altri termini, si tenterà di verificare la razionalità di particolari disposizioni prescindendo dal giudizio circa l'apprezzabilità della rispettiva sostanza o il pregio degli obiettivi politici ricercati: e ciò per indirizzare la discussione verso aspetti tecnici alla luce del carattere in sé, in ipotesi, soddisfacente e fruttuoso delle norme.
2. Il terreno prescelto riguarda l'aspramente dibattuto tema delle quadriennali valutazioni di professionalità cui nei primi 28 anni della loro carriera sono sottoposti gli appartenenti all'ordine giudiziario. Più precisamente il fuoco delle considerazioni che seguono si restringerà sugli organi, e sulla relativa composizione, competenti a pronunciarsi nella fase istruttoria-consultiva e sui metodi disponibili in tale momento di attività.
L'art. 3 lettera a) del provvedimento in commento prevede che i decreti delegati introducano la facoltà per i membri del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari distrettuali scelti tra professori universitari ed avvocati di partecipare alle discussioni e di assistere alle deliberazioni relativo all'esercizio delle competenze attribuite a tali organismi in materia di valutazioni di professionalità, riservando, tuttavia, soltanto ai professionisti forensi la facoltà di esprimere un voto unitario sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità dei magistrati in valutazione: e ciò laddove il Consiglio dell'ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni. La norma si completa dell'ulteriore disposizione secondo cui, nell'ipotesi che la componente degli avvocati intenda discostarsi dalla predetta segnalazione, vada dalla stessa richiesta una nuova determinazione del Consiglio dell'ordine.
Non pare che la norma, riguardata tanto nel suo profilo letterale quanto in quello sistematico, sia in grado di sottrarsi a non secondari appunti, soprattutto di natura logica.
In primo luogo, è difficile tacere sulla singolare eterogenesi dei fini in concreto realizzata dalla norma rispetto a quello che essa apparirebbe predicare, ossia l'apertura alla componente laica della possibilità di accedere ai santuari che racchiudono gli “interna corporis”, gli altrimenti impenetrabili fascicoli personali (espressione sinistra in tempi bellici e di captazioni informative segrete).
Sfugge, infatti, anche agli osservatori meglio disposti a favore della riforma la ragione giustificatrice di una siffatta apertura solo parziale con l'inspiegata esclusione della componente universitaria (che molto spesso include docenti che svolgono anche la professione forense). Essa potrebbe, invero, proficuamente rappresentare un metro di giudizio estraneo alle contingenze processuali ed ai temuti rapporti interpersonali potenzialmente inquinanti la serenità di giudizio (la questione è comprensibilmente ed altamente controversa) a causa di occulte, se non inconfessabili, ragioni private. Non accreditare ai docenti la capacità di estendere la loro inclusione nei Consigli giudiziari oltre la presenza e la partecipazione alle discussioni che precedono le deliberazioni in tema di professionalità si rivela un segnale di indifferenza e sfiducia nei confronti di un'intera categoria professionale ed intellettuale che, al tempo stesso, crea un circuito esclusivo di comunicazione chiuso al mondo extragiudiziario, con ciò platealmente contraddicendo l'opposto disegno ispiratore della riforma.
3. Ma anche considerata dall'angolo visuale della componente degli avvocati la norma sembra incapace di superare il vaglio dell'intima coerenza: per più di una causa.
La prima di esse risiede nella visione ordinistico-centrica del modo di intendere la fattiva partecipazione dei professionisti al sistema procedimentale di formazione delle valutazioni di professionalità dei magistrati.
Ed infatti, la struttura normativa è tale che non solo l'espressione di voto-in aperto contrasto con la personalità delle opinioni e delle posizioni manifestate dai singoli componenti del Consiglio direttivo e dei consigli giudiziari-viene concepita come unitaria, pur di fronte ad una folta presenza di avvocati nel medesimo organismo. Ma addirittura il voto non può che replicare, ove siano acquisite agli atti, le valutazioni del Consiglio territoriale relativamente ad eventuali segnalazioni positivamente o negativamente incidenti sulla valutazione professionale del singolo magistrato.
Ciò induce ragionevolmente a definire il voto unitario in questione come un voto per procura in quanto meramente riproduttivo, mediante un'unica voce, di quello già espresso dal Consiglio dell'ordine.
La grave menomazione della posizione individuale dei singoli componenti è ulteriormente esacerbata da quella che nelle intenzioni del dimentico legislatore può aver svolto il ruolo di un (goffo) correttivo, vale a dire la necessità che, per assicurare perfetta corrispondenza tra la volontà unitaria dei componenti avvocati e quella del consiglio dell'ordine destinatario delle segnalazioni, si debba pervenire ad una nuova determinazione dell'organo collegiale. Quel che l'asfittica norma non chiarisce è quale sorte avrebbe la valutazione ove il Consiglio dell'ordine insistesse nella precedente determinazione e la componente unitaria del Consiglio direttivo o di quello giudiziario perseverasse nella precedente opinione: il rischio di paralisi appare incombente.
4. La più appariscente delle diseconomie discendenti da una così caotica disposizione si coglie, infine, nella sostanzialmente tridimensionale costruzione dell'organo consultivo, composto da una categoria, quella dei magistrati, legittimata ad esprimersi individualmente su ogni materia; un'altra, quella dei professori universitari, amputata del diritto a concorrere con il proprio voto alle valutazioni di professionalità; una terza, quella degli avvocati, aggregati in improbabile unità ed ancillare alla posizione del quarto convitato di pietra, il Consiglio dell'ordine.
Si ripropone circolarmente la domanda di avvio: può la norma riformatrice reggere allo scrutinio di efficacia rispetto alla finalità (giusta o meno che fosse) cui intendeva rispondere? O ci si trova di fronte ad un arzigogolato compromesso dallo spiccato, ma inesaudito, sapore ecumenico? L'ottimismo della volontà non può che cedere il passo allo scetticismo della ragione, almeno limitatamente a questa sola porzione della riforma e senza alcun intento demolitorio generale.
5. Altre brevi considerazioni vanno svolte sul tema dei criteri destinati a guidare organi consultivi così disarticolati ed eterogenei (se non, per le ragioni prima illustrate, eterodiretti) chiamati a pronunciarsi consultivamente in materia di valutazioni di professionalità dei magistrati.
Tralasciando la disamina dei vari elementi destinati a riempire il cosiddetto fascicolo del magistrato il cui carattere di assoluta novità nel campo normativo primario o secondario è irrefutabilente avallato dall'apposita disposizione diretta ad assicurare il raccordo tra il contenuto del “nuovo” fascicolo-evidentemente soggetto all'ulteriore intervento normativo e del Consiglio Superiore della Magistratura-con la disciplina già vigente del fascicolo personale del magistrato),non può trascurarsi una pur sommaria incursione nel perimetro della nozione di “gravi anomalie” rintracciabili nella carriera dei singoli magistrati in relazione all'esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento o del giudizio: in sede di valutazione di professionalità si possono acquisire specifiche informazioni circa la ricorrenza di tali anomalie, di cui ovviamente ben potrebbe tenersi conto ad altri fini, quali il conferimento, o la conferma, di funzioni direttive o semidirettive.
Non si intende adibire questo sintetico scritto a sede di complessiva confutazione sulla ammissibilità o semplice opportunità della duplice introduzione del nuovo tipo di fascicolo personale e della varietà dei fattori che ne potranno far parte: ciò che semplicemente occorre richiamare è l'attenzione in ordine al diritto di cittadinanza in una materia da dominare in base ad un rigido principio di predeterminazione legale di un sistema parasanzionatorio (quale quello applicabile in caso di valutazione non positiva o negativa di professionalità o di preclusione al conseguimento di incarichi di particolare complessità o responsabilità) di categorie concettuali improntate necessariamente al soggettivismo definitorio.
E' ovvio il riferimento alle atipiche, perché legislativamente non tipizzate, “gravi anomalie”. Il difetto, che appare incolmabile come subito si dirà, si palesa in tutta la sua imponenza se si guarda alla assoluta carenza di un parametro di raffronto tra l'anomalia che si pretenderebbe di riscontrare in concreto ed il modello legale e speculare, applicato ad atti e provvedimenti giurisdizionale di ogni natura ed oggetto, di “normalità” intesa nel senso di assenza di anomalie).Sarebbe davvero pericoloso suggerire la preventiva accettazione di un modello predefinito di atto che ne ponga l'autore al riparo dalle conseguenze possibilmente derivantigli dalla sua adozione. Conseguenze che, nell'impianto normativo, non sembrano in alcun modo albergare, ad esempio, nella abnormi modalità di assunzione dell'atto stesso (a ciò provvedendo già, ad esempio, gli illeciti disciplinari di cui alle lettere l) e m) del n.1 dell'art 2 del d.lgs.109 del 23 febbraio 2006).
L'improvvida evanescenza (non dissimulante profili di sospetta incostituzionalità) non può certo reputarsi colmata prendendo come referenti esplicativi circostanze, quali quelle identificate negli imponderabili “sidera litis”, del tutto estranee al dominio volitivo e previsionale (tranne i casi già menzionati riconducibili a preesistente figure di infrazioni disciplinari) dell'autore dell'atto.
Non coglie nel segno la critica che una siffatta formulazione della norma sarebbe censurabile sol perché incoraggerebbe un generico ed imprecisato conformismo giudiziario (affatto concepibile in relazione a provvedimenti riflettenti apprezzamenti peculiari di puro merito): essa, infatti, non suscita approvazione per la sua intima fallacia nel definire con la dovuta accuratezza i predeterminati presupposti fondativi per la sua applicazione, vizio negativamente riverberantesi nella sua ragionevolezza e nella sua immancabile aderenza al principio di stretta legalità.
Del resto, imputare all'autore dell'atto il destino dello stesso, indebitamente accomunandoli, ripropone un metodo di ragionamento plausibilmente rigettato dalla recente sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato inammissibile il quesito referendario sulla responsabilità civile diretta degli appartenenti all'ordine giudiziario.
Elevare ad indice di valutazione (implicitamente) negativa del magistrato la sorte di suoi, magari isolati, provvedimenti in assenza di condizioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle già normativamente disciplinate può forse soddisfare un malinteso ed auspicabilmente non diffuso sentimento antagonista ma inutilmente lascia ricadere sulle spalle del singolo magistrato allarme e timore, del tutto nocivi alla sua serenità di giudizio.
6. In conclusione si rende esplicito ciò che, almeno nelle intenzioni, doveva aleggiare come inespressa premessa dello scritto: quelle che si sono elaborate costituiscono soltanto notazioni di congruità di talune, settoriali disposizioni e non mirano a decostruire in blocco e senza appello un a lungo atteso impianto normativo di difficile e travagliata fattura. L'auspicio finale è, infatti, che ci si accosti a qualsiasi discorso avente come punto di ricaduta l'ordinamento giudiziario nonché il suo inveramento anche nel funzionamento e nelle garanzie del Consiglio Superiore della Magistratura con animo libero sia dal pregiudizio politico sia dal cemento corporativo, ma, al contrario, sorretto da robuste idealità. Non altri antidoti potrebbero prospettarsi per rendere razionalmente plasmabile una altrimenti incandescente ed opinabile materia.