1. Il costituzionalismo moderno, fondato su una concezione ascendente del potere – a differenza dei regimi assolutistici precedenti – richiede la correlazione necessaria tra potere e responsabilità. La comune investitura popolare, diretta o indiretta, di tutti i poteri dello Stato pone il problema di individuare i meccanismi opportuni per far sì che tutti i soggetti che esercitano potere, a qualsiasi titolo, rispondano del loro operato al popolo, sede politica e ideale della sovranità, Democrazia e responsabilità procedono così di pari passo, anche se la dottrina liberale dello Stato di diritto impone che siano salvaguardate le libertà e tutelati i diritti dei cittadini mediante un’applicazione imparziale di leggi generali a tutti i destinatari, secondo le regole attuative del principio di eguaglianza formale.
Ben prima dell’avvento del c.d. Stato costituzionale è sorto il problema della conciliabilità della democrazia politica, basata – se non altro per ragioni pratiche – sul principio di maggioranza e il principio di eguaglianza formale, ben espresso dalla formula che si legge nelle aule dei tribunali: “la legge è uguale per tutti”. Già il vecchio Montesquieu aveva messo in guardia dalla possibilità che la legge, pur, in ipotesi, non tirannica in sé, fosse applicata tirannicamente da quella stessa maggioranza che l’ha creata. Per evitare questa degenerazione, gli illuministi auspicavano che i giudici fossero indipendenti, ma che dovessero attenersi a criteri interpretativi strettamente letteralistici, possibili solo se le leggi fossero state poche e chiare. L’applicazione concreta più rigorosa di tale orientamento si ebbe con l’istituto, di origine giacobina, del référé legislatif, che trovò continuazione sostanziale nell’ostilità di Napoleone Bonaparte verso l’opera interpretativa di giudici e dottrina giuridica.
Al di là della controversia storica – che in questa sede non è possibile affrontare – si deve mettere in rilievo l’estrema attualità della problematica generale sottesa alle diverse soluzioni adottate in varie epoche in Europa, e non solo. Leggiamo continuamente polemiche – di alto livello scientifico o di basso profilo politico – contro la “creatività” dell’interpretazione. L’attacco viene sferrato su due versanti: la carenza di legittimazione democratica dei giudici, che si permettono di manipolare, e spesso tradire, il dettato legislativo e l’erosione della certezza del diritto, garanzia irrinunciabile dei cittadini nei confronti dell’arbitrio di chi è chiamato ad applicare le leggi, strumento essenziale di stabilizzazione dei rapporti economici e sociali.
Non si può negare che il problema esista e assuma talvolta toni di estrema gravità. Tuttavia alcuni indirizzi, teorici e politici, recenti sembrano non distinguere tra fisiologia e patologia del sistema, considerando inevitabile e prevalente la seconda, con la conseguenza di ritornare alla mitica interpretazione esclusivamente letterale delle disposizioni, anche se lo stesso art. 12 delle preleggi, pur concepito in epoca di dittatura totalitaria, considera l’interpretazione letterale solo un primo stadio, non l’unico, del processo ermeneutico. Gli appunti critici – e le conseguenti proposte – non si limitano ai giudici comuni, ma coinvolgono anche la Corte costituzionale, rea di ergersi a legislatore, con le sue sentenze additive e di incoraggiare i giudici ad interpretare le leggi in conformità ai princìpi costituzionali.
Dal fronte opposto si replica che un margine di creatività è insito nella stessa attività di interpretare e che intaccare l’indipendenza dei giudici, soprattutto nella loro funzione interpretativa delle leggi, non significa ripristinare le corrette regole dello Stato di diritto, ma, al contrario, piegare quest’ultimo alle pretese del potere politico, che non si accontenta della predisposizione normativa, ma pretende pure di vincolare l’attività interpretativa. Il che rappresenterebbe una clamorosa violazione del principio della separazione dei poteri.
Si tratta di una di quelle controversie epocali destinate a trascinarsi per secoli. Forse una ragionevole via d’uscita si trova in quel circuito di autonomia, responsabilizzazione, e insieme di collegamento alla sovranità popolare, che fu tracciato dai nostri Padri costituenti e successivamente imitato, con diverse varianti, da molti altri Paesi, man mano che si svincolavano dal peso di regimi autoritari o si affrancavano dai condizionamenti di una tradizione burocratica della giurisdizione, che ne faceva inevitabilmente strumenti del potere politico, al di la delle buone o cattive intenzioni dei singoli magistrati.
La soluzione trovata, dopo vent’anni di dittatura fascista e secoli di sottomissione al potere politico, fu quella, come sappiamo, dell’inserimento dell’ordine giudiziario nel complesso sistema di pesi e contrappesi della Repubblica, in modo da evitare, nello stesso tempo, l’isolamento e la subordinazione.
L’innovazione fu tanto sconvolgente per la mentalità tradizionale che le forze politiche dominanti - uno dei cui maggiori esponenti definì la Costituzione una trappola! – che per dieci anni non si diede per nulla attuazione alle norme costituzionali sul CSM e nel 1958, nell’epoca del “disgelo” costituzionale, si tentò di neutralizzare la sua genuina funzione condizionando la scelta degli argomenti da trattare ad una richiesta del Ministro della giustizia. Solo dopo l’intervento della Corte costituzionale, che eliminò questa assurda limitazione, si poté avviare l’attività di una giurisdizione finalmente liberata dalla cappa della politica politicante.
Quando si discute di questi argomenti non bisognerebbe dimenticare che per alcuni decenni il collegamento virtuoso tra giudici comuni e Corte costituzionale ha dato una spinta potente allo svecchiamento del nostro ordinamento giuridico e al suo adeguamento ai princìpi costituzionali. Va di moda ormai rileggere retrospettivamente la storia repubblicana della magistratura italiana in chiave di corporativismo, politicizzazione spicciola e scandali di vario tipo. Si tratta di una lettura ideologica, se non volgarmente faziosa. Dobbiamo molto a quei coraggiosi giovani magistrati che presero sul serio la Costituzione, considerandola, sul piano teorico e pratico, higher law, con tutte le conseguenze che ne derivavano. Ho avuto l’onore di sedere per quattro anni accanto ad uno di loro, Alessandro Pizzorusso, il primo ad elaborare una dottrina giuridica di alto profilo sul sistema italiano di garanzia dell’indipendenza della magistratura. Lo stesso Pizzorusso tuttavia riteneva che le guarentigie della magistratura potessero esplicare al meglio le loro potenzialità positive, e non tradursi in privilegi corporativi, se si fosse radicalmente abolita la “carriera” dei magistrati. Mi ricordava, con il suo sorriso bonario, che negli anni delle prime battaglie per legare la legge alla Costituzione, lui ed i suoi colleghi più attivi venivano bersagliati da burberi e perentori inviti di “stare al loro posto”. La storia si ripete e anche stavolta da dramma tende a trasformarsi in farsa.
Purtroppo gli ideali di quei magistrati si sono realizzati solo in parte. Così come ha stentato a nascere “l’uomo nuovo”, ha stentato a nascere il “magistrato nuovo” e lo scalpitare carrieristico – segnalato criticamente sin dall’inizio del secolo scorso - attenuato dopo la legge Breganze, fu sostituito dalla corsa agli uffici direttivi, la quale, in uno con la degenerazione clientelare delle correnti, ha obliterato un recente passato di fedeltà attiva alla Costituzione e posto le premesse per una drammatica delegittimazione della magistratura, che rischia oggi di travolgere la democrazia costituzionale nel suo punto più delicato, sensibile e di difficile conservazione: l’equilibrio tra sovranità popolare e attuazione dei princìpi costituzionali di libertà ed eguaglianza. Anche di recente è stato rilevato che le democrazie contemporanee sono “fragili”, in assenza di strumenti di tutela di princìpi di lungo periodo, perché in balia di momentanee maggioranze politiche, che, come osservava Jefferson due secoli addietro, possono essere più tiranniche di un monarca.
Nulla può sostituire un ethos dei magistrati, che devono rifiutare il coinvolgimento nella politica politicante e non seguire le sirene del carrierismo. Perché questi auspici non rimangano solo buone intenzioni, o peggio pie illusioni, è necessario che i giunti istituzionali con la politica svolgano le funzioni che sono state immaginate per loro dai Padri costituenti: Presidenza del CSM del Capo dello Stato e presenza di membri “laici” nello stesso organo sono destinati ai delicati e difficili compiti di combattere eventuali derive corporativistiche e isolazionistiche della magistratura e, nello stesso tempo, contribuire a “saldare” quest’ultima all’indirizzo politico costituzionale degli organi di garanzia, che deve essere distinto, ma non confliggente, con quello parlamentare di maggioranza, che sorregge lo sviluppo dei programmi di governo.
2. La sovranità popolare prevista dalla Costituzione italiana non si identifica con quella che, alcuni decenni addietro, venne definita “democrazia totalitaria”, tanto è vero che l’art. 1, secondo comma, testualmente recita: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
I princìpi costituzionali sono intangibili per lo stesso popolo sovrano, figuriamoci per i suoi rappresentanti! A garanzia di questo limite fondamentale del potere maggioritario sono preposti i giudici comuni e la Corte costituzionale per un verso e il Presidente della Repubblica per l’altro. Per quanto riguarda i giudici, questo aspetto della rigidità costituzionale accentua la loro doppia responsabilità: verso le parti e verso l’ordinamento.
Nei confronti delle parti il giudice deve ovviamente essere imparziale. Meno ovvi sono gli strumenti di garanzia della sua indipendenza, interna ed esterna, senza la quale l’imparzialità resta affidata soltanto alla retta coscienza dei singoli. Poiché il diritto ha la funzione, tra l’altro, di puntellare la debolezza umana, l’indipendenza serve a dare più forza al giudice nei confronti di eventuali e probabili pressioni costrittive, giacché le controversie giudiziarie toccano spesso interessi organizzati, economici sociali e politici, che dispongono di mezzi intimidatori e corruttivi particolarmente efficaci. Un giudice istituzionalmente protetto e adeguatamente remunerato è messo nelle condizioni migliori per difendere la sua virtù. Se poi traligna ugualmente, dovrà essere adeguatamente sanzionato.
Nei confronti dell’ordinamento, la responsabilità del magistrato trova la sua espressione giuridica sul doppio binario dell’interpretazione conforme a Costituzione e del potere di sollevare questione di legittimità costituzionale di fronte al giudice delle leggi. Quest’ultimo profilo di responsabilità grava congiuntamente su giudici comuni e Corte costituzionale, ma riguarda anche l’Avvocatura, definita giustamente ponte di collegamento tra società civile e istituzioni e pertanto primo e più sensibile rilevatore del grado di immanenza dei princìpi costituzionali in tutte le pieghe della società. La sensibilità costituzionalistica di tutti questi soggetti è il motore che fa avanzare l’ordinamento giuridico nel suo complesso verso le grandi finalità incorporate nei princìpi costituzionali. Sia che intendiamo questa sensibilità maggiormente in senso progressivo o difensivo, tocca ai magistrati e agli avvocati un compito cruciale per la conservazione e lo sviluppo della nostra civiltà giuridica. Un esempio recente di come questo circuito abbia funzionato si può rinvenire nella eliminazione di alcune leggi ad personam, che – al di là delle contingenze specifiche che le avevano originate – avrebbero indebolito l’attuazione del principio di eguaglianza e creato pericolosi precedenti. Non possiamo escludere che la magistratura italiana, e la stessa Corte costituzionale, vengano chiamate, nel prossimo futuro, a prove simili. Quando, con enfasi retorica, si dice che la magistratura è “bastione della legalità” si deve intendere in primo luogo “della legalità costituzionale”.
La responsabilizzazione dei magistrati include naturalmente la responsabilità civile, poiché agli stessi si applica l’art. 28 Cost., come ha affermato la Corte costituzionale. Il giudice delle leggi ha sottolineato tuttavia che, senza adeguate cautele, la dilatazione di questo tipo di responsabilità può nuocere all’indipendenza dei giudici, i quali – non lo si dimentichi! – hanno sempre a che fare, per la natura del loro ufficio, con res dubiae, dove spesso l’esattezza della decisione cede il posto alla semplice plausibilità. Sono sempre stato convinto – e lo continuo a ripetere – che un giudice troppo preoccupato delle conseguenze patrimoniali, per sé e per la sua famiglia, delle sue pronunce non è un giudice davvero indipendente. Sarebbe forte la tentazione di adagiarsi sul conformismo giurisprudenziale e potrebbe anche sorgere la tendenza, più o meno consapevole, a dar ragione alla parte da cui potrebbe aspettarsi maggiori fastidi. So bene che ciò non dovrebbe accadere, ma, come dicevo prima, il diritto deve tener conto dell’umana debolezza.
3. Per salvaguardare l’impianto complessivo della magistratura disegnato dalla Carta fondamentale è indispensabile che la stessa mantenga la sua natura e struttura di potere diffuso, come ha ripetutamente affermato la Corte costituzionale, specie nella giurisprudenza riguardante i conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato. Ciò significa, com’è noto, che in ogni giudice, o p.m., risiede idealmente tutto intero il potere giudiziario, che non si condensa pertanto negli organi di vertice, sia che si tratti del CSM, sia che si tratti della Corte di cassazione. Questo orientamento interpretativo deve essere posto in stretta correlazione con l’art. 107, terzo comma, Cost. («I magistrati si distinguono fra di loro solo per diversità di funzioni»), che si riferisce ai singoli componenti dell’ordine giudiziario. È escluso pertanto che sia costituzionalmente compatibile un potere giudiziario monolitico e gerarchizzato, che sarebbe maggiormente suscettibile di colorarsi politicamente, ponendosi al fianco di un partito o movimento politico, oppure di esprimere un proprio, autonomo indirizzo politico in contrasto o in concorrenza con quello parlamentare-governativo. Altra cosa è invece l’indirizzo politico-costituzionale (nel senso a suo tempo chiarito da Paolo Barile), alla cui formazione la magistratura partecipa in varie forme assieme agli altri organi di garanzia. In una struttura gerarchica e verticale sarebbe più facile, e comodo, ad un magistrato occultare la propria responsabilità, assorbita dall’insieme integrato e omologato del potere.
Se questa è la conformazione costituzionale del potere giudiziario, sono da ritenere inaccettabili le proposte di sostituire, alla presidenza del CSM, il Capo dello Stato con il Presidente della Corte di cassazione. Si verificherebbe il capovolgimento dell’attuale sistema di garanzie di indipendenza dell’ordine giudiziario. Le degenerazioni correntizie, e gli scandali conseguenti, sarebbero poca cosa in confronto ad una magistratura verticistica e autoreferenziale, in grado di “contrattare”, in quanto soggetto unitario, con il potere politico. Se l’obiettivo è quello di riportare i giudici nei loro limiti naturali, il rischio dell’eterogenesi dei fini è molto forte.
Sembra pure da scartare ogni inclinazione del sistema elettorale del CSM verso criteri maggioritari. L’ultima riforma è un ibrido che risente della preoccupazione di accontentare troppe richieste contraddittorie, incluso un pizzico di sorteggio. Vedremo come opererà il prossimo Consiglio, i cui componenti togati sono stati eletti di recente. Commentando a caldo, non mi sembra però che sia cambiato molto dal punto di vista del potere condizionante delle correnti organizzate. Queste ultime, si badi bene, non sono un male in sé, ma solo se si trasformano in agenzie clientelari al servizio degli interessi di singoli magistrati o di gruppi di pressione, come purtroppo è avvenuto negli ultimi decenni. Anche su questo versante, con riforme elettorali maggioritarie, si rischia l’eterogenesi dei fini, giacché i sistemi maggioritari servono per assicurare maggioranze stabili, compatte e durature all’interno dell’organo collegiale da eleggere. Esattamente il contrario di quanto è necessario per il CSM, che in tal modo diverrebbe proprio quel “parlamentino”, che oggi viene deprecato da più parti.
4. Si sente ripetere in questi mesi che il PNRR richiede, tra l’altro, un ammodernamento delle nostre istituzioni giudiziarie, per rispondere meglio alle esigenze della società civile, specie sotto il profilo dei rapporti economici. Nessuno può negare oggi che la lunghezza eccessiva dei processi civili e penali sia un intollerabile fardello, specie per i cittadini più dinamici sul piano lavorativo e imprenditoriale e per tutti coloro, colpevoli o innocenti, che vengono in contatto con quella macchina infernale che si usa chiamare giustizia penale. Ben vengano quindi riforme incisive che sveltiscano i procedimenti e diano un senso alla famosa osservazione che non vi è peggiore ingiustizia della tardiva giustizia.
Detto questo, occorre tenere a mente che il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) si riferisce, sempre e comunque, al giusto processo, di cui al primo comma della stessa norma costituzionale. Non sarebbe pertanto accettabile che, per esigenze di celerità, si sacrificassero le intangibili garanzie processuali delle parti. Si potrebbe completare l’antico detto prima citato aggiungendo all’aggettivo “tardiva” quello di “frettolosa”.
Partendo dai gravi e numerosi mali dell’amministrazione della giustizia in Italia, la c.d. riforma Cartabia introduce plurime innovazioni in materie civilistiche, penalistiche, processualistiche e ordinamentali. Si sono levate immediatamente voci di consenso e di dissenso. È troppo presto e mi mancano le competenze e le esperienze necessarie per formulare giudizi su singoli argomenti delle varie branche del diritto investite dall’intervento legislativo. Mi limito a mettere in guardia dal trionfalismo preventivo, che sarebbe, ora come ora, prematuro e ingiustificato; sento però di dover parimenti pregare i commentatori di rifuggire dal “benaltrismo”, vecchio vizio italiano, talora nutrito da sincero perfezionismo, talaltra da furbo conservatorismo mascherato.
I punti di compromesso troppo artificiosi non reggeranno all’urto della realtà, mentre altri si mostreranno proficui passi in avanti: Per questa elementare constatazione di esperienza sarebbe bene evitare proclami enfatici, laudativi o apocalittici, e sostituirli con una verifica empirica dell’impatto concreto delle novità sulla prassi giudiziaria quotidiana, senza dimenticare che ogni riforma deve camminare sulle gambe di risorse, umane e materiali, adeguate. Non si tratta certo di una riforma di cui si possa dire “senza oneri per l’erario”.
Se invece si seguissero le spinte di opposti o concorrenti corporativismi (di magistrati o di avvocati), se si desse ascolto agli esponenti di quello che ironicamente è stato definito “garantismo peloso” di corrotti e corruttori o, al contrario, ci si facesse trascinare da slogan demagogici di magistrati e politici “giustizieri”, non si andrebbe da nessuna parte. Ci si potrebbe augurare, come massima conquista, di non regredire ad una giustizia di regime, che tale sarebbe anche se coperta da ondate emotive di consenso popolare.