Ci sono libri che scorrono veloci e meritano d’esser sottolineati; capita di prendere subito appunti, ma non si riesce lo stesso a stare al passo con i collegamenti - troppi e rapidi - che solo la mente sa fare. Smarrimento e nel contempo disincantata soddisfazione: è quel che si prova consultando il volume che raccoglie gli editoriali di Franco Fedeli, un «giornalista in uniforme», «un intellettuale senza divisa»[1].
Il libro aiuta a comprendere (nel duplice senso, posseduto dal verbo, di capire e di circoscrivere) un periodo lungo venticinque anni della nostra storia repubblicana. Anni pesanti, profondamente differenti tra loro, analizzati con il linguaggio di allora, senza intermediari. Esce infatti un quadro disegnato da un protagonista diretto che non si accontenta di stereotipate parole di plastica (ad es. “anni di piombo”) e mal sopporta il termine “microcriminalità”[2], dimostra di conoscere piuttosto bene un’arte preziosa per ogni autore, addirittura fondamentale per ogni giornalista, quella cioè di buttare via, piano piano, il superfluo, tenendo l’essenziale.
Così lo stile diventa sobrio e pulito. Niente fronzoli, niente arzigogoli: tutto risulta nitido come nei corsivi di Mario Melloni che si firmava Fortebraccio; i suoi memorabili trafiletti - comparsi sul quotidiano l’Unità tra il 1967 e il 1982[3] - sono modelli di giornalismo intelligente e critico. Colgono le debolezze e l’arroganza di “lor signori”; in fondo, anche Fedeli si occupa degli stessi fenomeni, degli stessi personaggi, pur su di un diverso versante, però con la medesima lucidità e uguale coraggio.
Inoltre, la lettura del volume torna utile per compiere un’operazione contraddittoria e ambigua: si tratta di misurare la distanza tra l’epoca alla quale risale la stragrande maggioranza degli editoriali (suddivisi in tre periodi: 1973-1976, 1977-1995, 1995-1997)[4] e l’attuale fase di corrosione delle conquiste di allora[5]; poi, al contrario, va osservata la vicinanza sempre col medesimo tempo e la strisciante, drammatica, «perenne emergenza»[6].
Di solito ci si domanda: cosa avrebbe scritto l’Autore per inquadrare i problemi contemporanei? Inutile porsi una domanda del genere, le risposte ci sono già nelle righe (e tra le righe) degli articoli, basta saperle cercare, riannodando - con pazienza - il filo che le lega ai nostri giorni.
Ecco di seguito pochi esempi, in ordine sparso. A partire dal sistema penitenziario che «vede oggi il caos e la violenza più inaudita scatenarsi negli istituti di pena dove oltre trentamila detenuti si pigiano in uno spazio appena sufficiente per 22 mila»[7]: nel 2024 è cambiata solo e drammaticamente l’entità del sovraffollamento, in estremo aumento al pari dei suicidi[8].
«La tortura non paga»[9]: il titolo immediatamente denuncia l’imbarbarimento dei metodi (definiti cileni) per combattere il terrorismo che squadernano la continuità con le iniziative degli sbirri di scelbiana memoria[10]. Fedeli - consapevole che in certi casi l’obbedienza non è una virtù, addirittura rappresenta un crimine[11] - sembra anticipare il paradigma della responsabilità per catena del comando sancito a chiare lettere dall’art. 33 Statuto Corte penale internazionale (se ingiusti gli ordini, siano essi di un governo o di un superiore gerarchico o militare, non vanno eseguiti e nessuno può esserne esonerato quanto a responsabilità penale). Dopo aver constatato il silenzio della stampa (forse per non turbare i benpensanti, forse per non andare controcorrente) evidenzia l’ancor più sintomatico mancato intervento governativo[12]. Sono parole calibrate che pesano come macigni: non aggredite dall’usura del tempo offrono anzi un puntello, forte e implacabile, alle preoccupazioni manifestate, verso la fine dello scorso anno, dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e riversate nella decisione 1483/H46-18[13].
Si passa, infine, all’«Europa delle polizie», allo sfruttamento politico del terrorismo per favorire uno spazio giuridico europeo con una polizia dotata di uno schedario unificato. Una manovra complessa e pericolosa in quanto potrebbe «avallare semplici restrizioni dell’esercizio delle libertà del cittadino europeo a beneficio di una sicurezza che non si sa bene in che cosa dovrebbe consistere». Di nuovo le espressioni paiono impeccabili e non resta che effettuare un semplice rinvio a pagina 208 del volume.
Il libro, in sostanza, interessa gli addetti ai lavori, i giuristi e gli storici, i sostenitori della giustizia tradizionale e i fautori dell’abolizionismo financo nella versione più estesa (abolizionismo penale), insomma tutti quanti. Ed è in grado di attraversare le generazioni. Chi quegli anni li ha vissuti ha forse la necessità di rafforzare (non di condividere) la memoria, aggiungendo magari qualche particolare smarritosi negli anfratti dell’oblio. Chi non c’era, e vuole imparare a conoscerli quegli anni, può iniziare a farlo proprio partendo dagli editoriali di Franco Fedeli, affiancati (è un timido suggerimento) dall’esame della documentazione fotografica dell’epoca, dalle foto, molte non tutte, in bianco e nero.
Bisogna però silenziare le notifiche e dedicare un tempo consapevole, non interrotto da sterili distrazioni: così emerge la potenza della scrittura di un intellettuale antifascista che tra l’altro fece la Resistenza, attivamente.
E questa sua scelta di vita da sola spiega molte cose, specie la capacità di disegnare la linea dell’orizzonte per le questioni che ruotano intorno alla Stato di diritto, all’uso proporzionato della forza in una società democratica, alla gestione dell’ordine pubblico. In un momento in cui tutto pare sfuggente e offuscato, e non si addicono le rigide distinzioni pasoliniane in stile Valle Giulia, discusse e discutibili[14], rimane impellente la necessità di affrontare i problemi, nessuno escluso, come Fedeli sapeva fare: ovvero “con ostinato rigore”.
Non si intendono qui richiamare le radici, probabilmente leonardesche, di questo motto. Conta invece la sua presenza sulle tessere del Comitato di Liberazione Nazionale della Liguria e la sua incisione, a mo’ di titolo, sulla lastra che, in via XX settembre a Genova, ricorda la resa delle truppe tedesche nell’aprile 1945 e i nomi dei partigiani caduti per la libertà.
[1] Così il titolo del contributo di A. Mazzei nel volume in commento (v. p. 13 ss.). Hanno inoltre collaborato alla ricerca sfociata nella raccolta degli scritti Angela Boggioni Fedeli, Nicola Labanca, Marco Scipolo e Michele Turazza. L’editore di Polizia e democrazia ha concesso la riproduzione degli editoriali (redatti da Fedeli tra il 1995 e il 1997).
[3] Vedi Facce da schiaffi. Corsivi al vetriolo di un comunista impenitente, a cura di F. Battaglia e Benvenuto, Bur-Rizzoli, 2009. Fortebraccio fu il solo scrittore, secondo Enzo Biagi, capace di cogliere il ridicolo con garbo e ironia, un'ironia che era marchio di fabbrica del suo piglio di moralista e polemista partigiano. I ritratti di Agnelli (l'avvocato Basetta), Spadolini (coverboy della politica) esprimono un giornalismo crudele a volte, sempre caustico e dolorosamente divertente. Tra le tante raccolte dei corsivi di Fortebraccio, cfr. specialmente quelli editi nel 1970 e curati da P. Spriano, per Editori Riuniti.
[4] L’antologia degli scritti di Fedeli si snoda infatti in una parte prima, quella degli anni di Ordine pubblico, prosegue con una parte seconda riguardante «Un progetto ambizioso: “Nuova polizia e riforma dello Stato”», concludendosi con la parte terza dedicata a «L’ultima impresa: “Polizia e democrazia”».
[5] Un’«altra epoca, …un’altra Italia. … anni di progresso. L’Italia conobbe allora l’unica vera stagione riformatrice della sua storia: lo statuto dei diritti dei lavoratori, il nuovo processo del lavoro, la riforma carceraria, la riforma del diritto di famiglia, le leggi sul divorzio e sull’aborto, la riforma sanitaria. Oggi viviamo invece una fase di regressione politica, intellettuale e morale in tema di democrazia e di garanzia dei diritti umani. È un momento di crisi sia per il diritto che per i diritti»: testualmente L. Ferrajoli, Crisi del diritto e dei diritti nell’età della globalizzazione, 20 novembre 2023, su questa Rivista.
[6] Cfr., ad es., S. Moccia, Perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Edizioni scientifiche italiane, 2000.
[7] La pesante eredità dell’81, p. 233; cfr. anche il successivo Sul fronte delle carceri, p. 239 ss.
[8] Si rinvia, in particolare, al documento congiunto sottoscritto, il 20 giugno di quest’anno, dall’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, dall’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale “G.D. Pisapia”, dall’Associazione Italiana dei Costituzionalisti e al comunicato Non possiamo tacere, non vogliamo restare inerti dell’Associazione Antigone, di Magistratura Democratica e dell’Unione Camere Penali italiane, 26 febbraio, 2024, in questa Rivista.
[10] A. Bernardi, La riforma della polizia. Smilitarizzazione e sindacato, Einaudi, 1979, cap. I dedicato alla polizia intesa come «strumento di oppressione al servizio della classe dominante» (p. 3 ss.).
[11] «Ricordiamoci (e ricordiamolo a chi di dovere) che proprio l’articolo 66, quarto comma, della legge di riforma della pubblica sicurezza, prevede esplicitamente il rifiuto da parte del dipendente, di eseguire un ordine che costituisce reato» (p. 237).
[12] «Che ha fatto il Ministro Rognoni che gode fama di essere una persona per bene? È mai possibile che le notizie giunte alla nostra redazione non abbiano sfiorato il Viminale? O forse è vero che nel Palazzo qualcuno sussurrò che “trattandosi di terroristi ogni metodo è lecito”?» (p. 237).
[13] Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, nella riunione del 7 dicembre 202,3 ha rilevato gli inadempimenti italiani rispetto a quanto chiesto da Corte eur. dir. uomo, sent. 7 aprile 2015 Cestaro c. Italia (violazione dell’art. 3 Cedu per l’irruzione nelle scuole Pertini e Diaz, Genova luglio 2001. La Corte di Strasburgo, oltre alle misure individuali, aveva imposto l’inserimento del reato di tortura nella legislazione italiana per giungere a punizioni effettive. L’Italia, dal canto suo, ha sì adottato nel 2017 la legge n. 110, ma il testo in questione mal si allinea alle fonti europee e internazionali; i recenti disegni di legge, poi, per eliminare/modificare il reato hanno allarmato il Comitato dei Ministri che, nel ribadire l’obbligo degli Stati, ex art. 46 Cedu, di dare esecuzione alle sentenze della Corte, ha reputato le informazioni fornite inadeguate alla chiusura del caso Cestaro. Infine, alle autorità italiane si domanda «un chiaro messaggio, di alto livello politico, alle forze dell’ordine sulla politica di tolleranza zero» nei casi di tortura e maltrattamenti in strutture detentive. Vengono suggerite pure alcune misure (la sospensione dal servizio durante lo svolgimento delle indagini e il licenziamento in caso di condanna per episodi di tortura). Sull’argomento, v. G. Battarino, Il reato di tortura: concretezza dei fatti, necessità della fattispecie. Nota a Tribunale di Siena, n. 211/2023 del 9 marzo 2023, 12 dicembre 2023, in questa Rivista.
[14] In proposito, v. Genova città delle svolte. Ma non siamo più la polizia di Valle Giulia. Intervista a Vincenzo Canterini, in M. Zinola, Ripensare la polizia. Ci siamo scoperti diversi da come pensavamo di essere…, Frilli editori, 2003, p. 137 ss. “Simpatizzare” o meno coi poliziotti non aiuta a inquadrare la storia (di ieri, di oggi); con onestà intellettuale, e nell’intento di ricostruire i fatti controversi, non può scordarsi che quelle stesse forze di polizia, con le quali gli studenti “fecero a botte” a Valle Giulia (per parafrasare di nuovo Pasolini) si mostrarono capaci pochi mesi dopo di sparare ad altezza d’uomo sui braccianti (Avola, 2 dicembre 1968) durante le manifestazioni per il rinnovo del contratto.