Una prospettiva innovativa fra universale e radicamento territoriale
Michel de Montaigne sosteneva che l’attività della caccia è più importante della selvaggina. In sintesi, voleva affermare che il percorso è più importante del risultato.
Le conseguenze di tale assunto sono infinite. Senza voler scomodare altri straordinari autori, è opportuno citare Eupalinos o l’architetto in cui in particolare Paul Valéry muove dall’esperienza poietica per giungere alla conoscenza completa di se stessi e, successivamente, alla piena realizzazione del proprio potenziale.
Questi elementi, posti a premessa del nostro ragionamento, rivelano al lettore il presupposto di carattere epistemologico sotteso alle osservazioni che ci sentiamo di proporre in merito alle forme di interdipendenza che legano il percorso – evolutivo, senza dubbio – di costruzione di identità professionale e culturale al percorso – altrettanto evolutivo – di costruzione di uno spazio entro cui si generano e con cui si forgiano significati dotati di senso per una comunità di individui. Ciò appare particolarmente pregnante, come prospettiva di analisi e di ragionamento, in tempi caratterizzati da un continuo sconfinamento oltre ed attraverso il perimetro che tradizionalmente è segnato dalla distinzione fra saperi, quadri di riferimento normativi, forme di razionalità.
In tale prospettiva, dunque, si proietta la valorizzazione degli spazi di giustizia, a partire dai palazzi di giustizia, che quegli spazi in ogni caso non esauriscono.[1]
Si propone qui di ragionare di spazi di giustizia in una ottica orientata da una epistemologia di carattere genetico – la conoscenza si costruisce in loco e si declina nelle forme che assumono un significato per gli attori che partecipano a questo processo di costruzione – e orientata verso una politica istituzionale avente come target non tanto le strutture, quanto le modalità con cui le strutture, intervenendo in un contesto culturale e territoriale, generano percorsi di costruzione di un senso.
Questo significa ampliare la visuale che solitamente si adotta quando si ragiona di investimenti strutturali in materia di edilizia giudiziaria o in materia di design di spazi virtuali funzionali allo svolgimento di parti o fasi endo-procedimentali – udienze, document delivering, ecc.
Prendere sul serio la prospettiva evolutiva, invece che quella strutturale, comporta una serie di cambi di passo e di sguardo.
Il primo cambio di passo attiene al fatto che, per quanto si immagini di potere catturare lo status quo raggiunto (un obiettivo raggiunto) con misure standardizzate ed esprimibili su base macro, l’informazione che è contenuta in questa rappresentazione macro-sistemica non è sufficiente per conoscere i meccanismi e soprattutto i fattori di carattere intenzionale-cognitivo-emotivo che sono linfa e nutrimento di qualsiasi comportamento. Questi fattori vanno visti in contesto.
Si tratterebbe allora di scendere al livello del singolo attore rischiando di perdere la visione di insieme? Riteniamo di no. Si tratta invece di vedere in che modo le persone, nella loro “identità situata”, interpretano e costruiscono significati attraverso il loro “essere nel ruolo”[2] e, per questa via, danno vita a processi di carattere dinamico – di cambiamento. Tali processi, a livello macro, danno adito a risultati misurabili, i quali possono essere capiti e compresi soltanto a livello meso – fra l’attore e il contesto nel quale opera.
Il secondo cambio di passo riguarda la modalità di pensare lo spazio. Lo spazio non sarebbe, conseguentemente, una dimensione esogena parametrizzata. Lo spazio è piuttosto da intendersi come spazializzazione e ri(de)confinamento degli spazi. Non è tanto il tratto oggettivo e materiale che ci interessa, quanto il modo in cui lo spazio diventa materia ritualizzata. Uno spazio di una aula di udienza non è solo uno spazio largo dieci metri, lungo quindici e alto tre. Questi sono dati strutturali che ci servono per prendere decisioni di allocazione di risorse. Ma dal punto di vista delle politiche del cambiamento lo spazio è l’insieme delle possibili azioni che le persone pensano di potere o non potere compiere, che sanno che saranno compiute anche da altri, e che altri saranno in grado di recepire e concepire come portatrici di un significato.
Insomma, lo spazio non può essere pensato senza tenere in conto anche la variabile della ritualità.
Se così è, vi è una terza faccia del cambio di passo che qui suggeriamo. Si tratta della riconsiderazione della nozione identitaria. Per evitare che vi sia uno scollamento fra le traiettorie del cambiamento e le traiettorie dello sviluppo identitario – in cosa le persone si identificano, e soprattutto in che modo esse costruiscono un nesso carico di significato - fra il percorso di cambiamento e la propria riqualificazione professionale, a volte la scoperta di potenzialità talentuose, capacità, inclinazioni, latenti per tanto tempo, occorre ristabilire un rapporto di dialogo. Gli autori suggeriscono che questo possa avvenire attraverso percorsi strutturati e metodologicamente fondati di progettazione e monitoraggio partecipati.
Il lettore troverà in questo contributo tre aspetti innovativi.
Il primo riguarda l’approccio realmente interdisciplinare, teso a coniugare chiavi di lettura di carattere sociologico, con quelle di carattere più propriamente giuridico ed ordinamentale, per trovare un raccordo su aspetti di tipo storico culturale.
Il secondo elemento di innovazione consiste nel fatto che, invece di pensare gli spazi di giustizia a partire dalla dotazione di risorse assegnate – come si vorrebbe se ci si attenesse alla sola osservazione sul piano della allocazione di spesa pubblica – gli autori suggeriscono di integrare l’aspetto endowment (dotazione di risorse) con il ciclo di creazione, validazione, condivisione e radicamento di conoscenze e di saperi che attengono strettamente a come quegli spazi acquisiscono un significato per chi vi opera, per chi li pensa e li realizza, per chi li vive, dall’esterno e dall’interno. Il terzo tratto innovativo si connette con la prospettiva che si vuole qui suggerire.
Le esperienze di costruzione dell’edilizia giudiziaria sono esperienze di costruzione identitaria, non solo e non soltanto a livello individuale – per le persone – ma anche e soprattutto per i territori. Per questo guardare al connubio fra principi generali e radicamento territoriale, fra architettura di valori e vita pratica dalla prospettiva offerta dai palazzi di giustizia significa riconoscere la positività che sussiste nel pieno riconoscimento della dimensione territorio senza venire meno ai principi dello stato di diritto. Anzi, dando a questi occhi per vedere e anima per respirare.
Dare forma allo sguardo
Lo spazio è una categoria così fondamentale da risultare spesso un implicito dato come premessa a qualsiasi ragionamento che si voglia dispiegare su un piano epistemologico, funzionale o sistemico. Nello spazio si svolgono funzioni. I sistemi delimitano spazi denotando una omogeneità del fare al loro interno che, per definizione, sic et simpliciter, costituisce barriera e limite per ciò che quel sistema non è.
È così che la categoria dello spazio, così come quella del tempo, possono essere non solo parametrizzate, ma anche più generalmente trattate sulla base di indicatori di carattere numerico. In fondo lo spazio si misura in unità di misura standard.
Il tempo nello stesso modo trova una sua rappresentazione scandita di segmenti fino al pulviscolo che compone la traiettoria che va in un attimo mai riducibile allo zero assoluto da un punto a ad un punto b in forme collettivamente accettate e storicamente fabbricate, come il calendario, le ore del giorno.
La relazione fra il linguaggio matematico e le categorie spazio-temporali è poi oggetto di una tradizione filosofica scientifica che ci proietta alle radici della storica della cultura.
La tentazione di utilizzare dunque la metrica quantitativa spazio-temporale per inquadrare il valore che una azione collettiva – sia essa istituzionale, sia essa diffusa nella società – è forte. Tanto più lo diventa quando si necessita di avere un piano di discorso che sia il più possibile universale e il meno possibile conflittuale. Come è stato già sottolineato nella letteratura degli ultimi venti anni il successo dell’approccio quantitativo all’interno delle politiche di promozione della qualità istituzionale – dallo sviluppo della governance alle politiche di costruzione della capacità amministrativa – è certamente connesso, fra gli altri fattori concomitanti, con la latente, più o meno tematizzata sulla agenda delle politiche pubbliche, domanda di oggettivizzazione capace di rendere possibile il raffreddamento delle arene decisionali polarizzate ed aiutare altresì gli esercizi di carattere regolativo che trovano nel pivot del monitoraggio uno dei più forti e legittimanti strumenti di radicamento e consolidamento.[3]
Questo ha come conseguenza il fatto che la dotazione di risorse – fra le quali sia le risorse di carattere umano, sia le risorse di carattere tecnologico o strutturale sono valutate – è interpretata sulla base di una metrica che la mette in correlazione con il linguaggio numerico e quindi la connette al quantum dello spazio e al quantum del tempo. Così, ad esempio, con meno ore di funzionamento si valuta performante un sistema che risponde alle stesse domande di un target spazio-funzionale dato. Ponderare domanda ed offerta di servizi significa riportarne la rappresentazione ad una relazione leggibile in via oggettiva, dunque non arbitraria, fra un ambito – dunque uno spazio – e il tempo impiegato perché una organizzazione dispieghi, in quell’ambito, l’insieme di procedure e azioni che costruiscono e costituiscono la catena di collegamento fra domanda ed offerta.
Per quanto astratte queste considerazioni possano apparire, esse risultano invece di una straordinaria attualità nel momento in cui le si pensa in relazione con la allocazione delle risorse di carattere spaziale e con la modalità con la quale si pensa e poi si mette in opera la governance di quelle stesse.
Nel mondo della giustizia il tema è divenuto vieppiù centrale non solo per via della delicatissima ed urgente questione della inadeguata allocazione di risorse – a partire dagli spazi – che connota il nostro paese nello snodo di esecuzione carceraria della pena. Si tratta più in generale di una tematica che rimette al centro e obbliga a ripensare quale forma assuma nei fatti la azione pubblica, soprattutto laddove essa diviene un intervento in quello spazio individuale che è l’horto absconditus dell’essere con se stessi, primum ineludibile dello sviluppo umano e sociale.
La traduzione in termini quantitativi del valore della risorsa è andata insieme con l’inquadramento della stessa in una razionalità normante e strutturante di carattere manageriale e gestionale. Un passo culturale che va visto con positività, in quanto ha permesso di aprire un varco in un paradigma fortemente centrato su una nozione di qualità della giustizia internalista – così volendo indicare quella forma di normatività che si costruisce facendo riferimento a parametri e valori che sono interni ad un sistema e che in quel sistema esauriscono la loro ratio ma anche il loro potenziale evolutivo.[4] L’integrazione di una grammatica di carattere quantitativo nel mondo della parola e del rito giuridico-giudiziario ha comportato due innovazioni che, riteniamo, vadano appieno valorizzate in una prospettiva futura.
La prima riguarda la possibilità di pensare e, dunque, di decidere, delle risorse date nella amministrazione della giustizia con un linguaggio capace di travalicare i confini. Non si è trattato soltanto di travalicare confini territoriali, ma anche – e forse con più alta salienza politico-istituzionale – confini di carattere temporale e di carattere intenzionale-comportamentale.
In altri termini la prima innovazione comportata dal “managerial turn” ha consistito nella stessa possibilità data – prima non esistente – di pensare in una ottica di comparabilità storica fra momenti diversi, t0, t1, tn del funzionamento degli uffici giudiziari e, così facendo, di osservare l’ufficio giudiziario anche con uno sguardo diacronico. Un potenziale innovativo, dunque, che ha il vantaggio di premiare la continuità del linguaggio e, quindi, anche della memoria ovvero della metrica trans-temporale e trans-generazionale con cui valutare investimenti, strategie, azioni.
La seconda innovazione attiene al fatto che proprio la svolta di carattere manageriale e quantitativa è andata di concerto – de facto, senza alcuna forma teleologica pregressa – con la esponenziale applicazione di forme di dematerializzazione e di digitalizzazione, soprattutto a partire dalla gestione del documentale.
Purtuttavia, riconoscendo appieno la preziosa ed oggi ineludibile apertura migliorativa e il salto di qualità di politica istituzionale che dati, data-driven governance e razionalità manageriale hanno portato nella amministrazione della giustizia, gli spazi di giustizia e la tensione architetturale – in senso sia strutturale, sia funzionale – che attraversa oggi il settore proprio con particolare attenzione al Sud del paese necessitano di una visione e di una metodologia capaci di dire di più.
Di recente Eliana de Caro ha voluto sottolineare come lo spazio sia l’ambito nel quale si costruisce la “normalità”. Si potrebbe operazionalizzare questa frase mostrandone tutto il portato euristico. È infatti in relazione allo spazio che si tratteggiano percorsi usuali, abitudini, le cosiddette rules of thumb che permettono di semplificare le traiettorie capaci di condurre un attore da un problema ad una soluzione, da una fase numero 1 a una fase numero 2 di un processo o di una procedura, le diverse declinazioni dell’agire possibile, ancorché non determinato in modo uniforme.
Prendiamo una piazza. L’esperienza recentemente vissuta dell’impatto delle misure di contrasto alla diffusione della SARS – COVID-19 ha aperto squarci nelle modalità con cui eravamo abituati a vivere la spazialità delle città. Abbiamo visto piazze vuole e strade deserte dove lo sguardo poteva volgere ovunque senza incontrare de facto forme già orientate dalla abitudine storicamente creata di prevedere un range di opzioni di comportamento capaci di generare un significato. Per recarsi in un luogo, per attraversare passando da un portico all’altro, per sedersi e sostare, ognuna di queste azioni orientate per obiettivo era anche definita in parte dalle modalità normali – ossia così ricorrenti da essere la regola e da dettare anche una qualche forma di prescrizione sociale – di muoversi. Riflettere su questo significa prendere sul serio quanto la spazialità – come correttamente ricorda Antoine Garapon – è intrisa di cultura.[5]
È quantomai importante oggi riaffermare lo spazio nella sua interazione con la dimensione rituale e la produzione di valore all’interno del sistema giustizia. Non si intende riferirsi solo al rito del processo. Si vuole qui considerare il ventaglio delle opzioni che sono suscettibili di essere considerare legittime e legittimamente auspicabili in situazioni tipizzate in cui viene de facto classificato l’agire collettivo istituzionale.
Vi è dunque una ritualità, se così intesa, che travalica i confini della celebrazione, per arrivare a lambire – con Durkheim – le fonti stesse dell’ordine sociale e che si esplica nel fatto che in determinati luoghi le sequenze di azioni che vengono compiute sono fissate nella memoria collettiva ed è proprio in quanto così strutturate che esse determinano la creazione di un valore. Il nesso fra ritualità e simbologia, quindi, è molto significativo per la legittimazione di quelle forme dell’agire istituzionale che incidono sulla vita delle persone ridefinendo prerogative, libertà e doveri.
È ciò che accade entrando in palazzi istituzionali. È ciò che accade rappresentando nel linguaggio cinematografico una esperienza di interazione con il diritto e la giustizia. È ciò che accade quando un attore del sistema giustizia indossa la toga uscendo dalla singolarità soggettiva e “diventando” ruolo/funzione carica di simbolico valore e di forza normante il ventaglio di interazioni legittime per il solo fatto di avere appunto indossato la toga[6]. L’osservazione partecipante di un “rito” come quello di una udienza pubblica in remoto apre squarci di riflessione capaci di darci il segno di ciò che ai percorsi di trasformazione che si sono attuati nel medio periodo in dipendenza dalla disponibilità della tecnologia digitale di cui vale la pena tenere conto in una prospettiva modulare ed integrativa. La dimensione della ritualità ha la grande capacità di organizzare le azioni collettive conferendo a queste una dimensione di durevolezza e di trans-soggettività che hanno cittadinanza propria nel mondo della giustizia. [7]
Proprio la comparazione culturale, infatti, permette di affermare quanto forte sia la domanda di ritualità per potere riconoscere alle figure (nel senso di funzionalità con una propria profilatura organizzativa e professionale) e ai saperi che “fanno la giustizia” una dotazione normativamente significativa di potere. Si accetta che vi sia una decisione dirimente di un organo terzo perché è terzo e perché – premessa secondaria corollario ma rafforzativa della prima – tale terzietà è reificata in una serie di ritualità che sono cristallizzate in simboli: “ancor prima che ci fossero delle leggi, un giudice, un palazzo di giustizia, c’era un rituale. Cos’è dunque un processo? È innanzitutto un rituale. […] un repertorio di gesti, parole, formule, luoghi consacrati”. I frame degli atti, la distribuzione dei casi su base randomizzata, la salvaguardia dei file su piattaforme accessibili da attori remoti, la valutazione della qualità del servizio sulla base di tempi e costi – insieme alle risorse umane materiali e cognitive – richiedono ai sistemi giudiziari di cambiare il paradigma funzionale e, in questo modo, una trasformazione dei modelli di interazione tra professionisti.
Sono molte le novità esperienziali di cui è reservoir oggi la memoria del sistema. I professionisti che non necessariamente devono spostarsi dalla loro sede per partecipare ad una – o ad alcune parti della – sequenza di udienze fissate all’interno di un processo, la lettura e la trattazione dei documenti che in digitale sono veicolati attraverso il processo civile telematico, l’accelerazione inattesa della cosiddetta “tiappizzazione” ossia del passaggio dei documenti che sono associati ai procedimenti penali da un supporto materiale cartaceo ad un supporto dematerializzato per via della digitalizzazione, l’esperienza di lavorare in modo collaborativo a distanza su uno stesso documento, l’esperienza di avvalersi della piattaforma “Teams” per svolgere sessioni di formazione: l’elenco potrebbe di molto essere arricchito tenendo conto dei diversi settori della giustizia e dei diversi profili di professionalità e ruoli che, ciascuno per le proprie prerogative, sono stati attraversati dalla onda tellurica della iper-connettività e della accelerata dematerializzazione (e remotizzazione) che ha scosso il sistema giustizia.
Inaspettatamente, lo spostamento spaziale dalla fisicità del palazzo alla virtualità delle piattaforme ha permesso di svolgere un inedito esperimento mentale. Mutando la spazialità cosa cambia nella modalità con cui la giustizia si fa in contesto? Abbiamo così evinto una euristica diffusa ancorché in fase di sistematizzazione anche grazie all’operato delle politiche di monitoraggio avviate durante e soprattutto a valle della fase più acuta della emergenza pandemica dal Dipartimento per l’organizzazione giudiziaria i servizi e il personale, dall’Ispettorato del Ministero della Giustizia e dall’Organismo indipendente di valutazione, sulle dinamiche che vengono a modificarsi con la despazializzazione o meglio la ri-spazializzazione ibrida.
Fra queste almeno tre meritano una attenzione. La prima riguarda la dinamica di interazione fra cancellerie e istanze giudicanti in particolare per quanto attiene la necessità di ripensare ad un’operatività organizzata su base di gruppi di lavoro, invece che sulla base di una sequenza lineare. Una logica appieno integrata nella visione dell’ufficio per il processo che deve e dovrà sempre più declinarsi e riflettersi nella modalità con la quale sono allocati gli spazi. La seconda riguarda il senso di appropriatezza del ruolo rispetto al luogo. Se per tutto il corso della modernità abbiamo considerato che lo svolgimento di un ruolo professionale integrato in un settore pubblico fosse legato ad un luogo, dove si entra e dove si svolgono determinate funzioni secondo mansionari cadenzati e definiti anche in relazione ai corridoi che segnano i percorsi e le traiettorie del fare quotidiano – sovente irriflesso – oggi il binomio spazio ruolo risente di una importante ed inedita divaricazione che ci ha permesso di vedere dentro a quella interfaccia – fare versus essere in un luogo – quello che Franco Cassano definirebbe come il mai esaurito generare di senso. È in relazione allo spazio nel quale ci si siede ogni giorno che si generano micro-prassi abitudinarie che sostanziano l’esserci. La particella “ci” addiviene così fortemente indicizzata alla materialità o alla immaterialità. L’esserci si qualifica per metriche diverse di qualità a seconda di dove si verifica e si dà, come fatto nel mondo, per dirla con Heidegger.
Una esperienza che parla di comunità di prassi
Se queste osservazioni possono apparire molto astratte, le riflessioni di seguito proposte intendono portare il ragionamento a termini contestualizzati ed operativi, suggerendo una bussola per orientare sul piano culturale quegli interventi di carattere infrastrutturale che soprattutto toccheranno il nostro Sud. Il Sud perché? Perché se ne parla spesso senza avere un’attenzione capillare ai dati, perché esistono criticità strutturali dettate anche dalla morfologia dei territori che rende complesso l’accesso allo spazio di giustizia in senso ampio, perché esiste un pregresso storico culturale nel quale il récit, per usare un termine caro a Paul Ricoer, è prevalentemente connesso con la questione del contrasto all’illecito, quando invece il paradigma da cui partire per rilanciare la Giustizia è quello di uno spazio di possibilità, navigando il quale le persone costruiscono, in modo regolarmente e ricorsivamente sottoposto a momenti di confronto, audit, discussione e revisione, un plot, una storia di cambiamenti che abbiano due target congiunti: uno oggettivo, le infrastrutture, uno trans-soggettivo, le identità in ruolo.
Le scelte sugli spazi della Giustizia sono state negli anni particolarmente sofferte e spesso non caratterizzate da una visione programmatica e sistemica. La stessa impostazione normativa, che fino al 2015 ha demandato agli enti locali la gestione degli immobili giudiziari, dimostra come in passato l’edilizia giudiziaria non sia stata ritenuta un asset strategico.
Con specifico riferimento alle spese di funzionamento, la Legge 23 dicembre 2014, n. 190, art.1 comma 526 «Trasferimento al Ministero della Giustizia delle spese obbligatorie di cui all’art. 1 della legge 24 aprile 1941, n. 392» ha definito un deciso cambio di rotta. Tutta la materia era in precedenza regolata dalla normativa del 1941 che affidava ai Comuni la gestione degli uffici giudiziari. Si trattava, in particolare, di una gestione completamente delegata agli enti locali con obbligo di rendiconto e con rimborso annuale, peraltro non totale, da parte del Ministero della Giustizia. Con DPR del 18 agosto 2015, n. 133, è stato adottato il Regolamento sulle misure organizzative a livello centrale e periferico per l'attuazione delle disposizioni che hanno previsto il suddetto trasferimento. Il Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria, con la Direzione Generale delle Risorse, avvalendosi della delega di funzioni di cui all' art. 16, comma 4) del D.P.C.M. 84/2015 del 15 giugno 2015 - ha provveduto ad affidare ai Presidenti di Corte di Appello ed ai Procuratori Generali presso queste ultime - in qualità di funzionari delegati - la gestione dei contratti nei quali il Ministero della Giustizia è subentrato alla data del 1 settembre 2015, precedentemente stipulati dai Comuni per le sedi degli uffici giudiziari, nonché la sottoscrizione dei nuovi contratti necessari per assicurare i servizi agli uffici, tenuto conto, altresì, dei fabbisogni e delle valutazioni rappresentate dalle competenti Conferenze Permanenti.
Per garantire la necessaria continuità nell’erogazione dei servizi per il corretto funzionamento degli uffici, è stato necessario, in linea generale, gestire il subentro previsto dalla menzionata normativa nei contratti stipulati dagli enti territoriali e, quindi, prorogare gli stessi, alle medesime condizioni contrattuali fino al 30 giugno 2016.
Successivamente, si è posto, in tutta la sua gravità, il problema della gestione efficiente delle sedi giudiziarie, più di mille immobili, in gran parte obsolete e caratterizzate da scelte manutentive prive di un’ottica programmatica. Accanto alle tante sedi particolarmente datate, vi erano anche quelle in costruzione, alcune da molti anni, che dovevano essere ultimate e rese operative.
Il primo complesso che, in costruzione da circa 20 anni, è stato ultimato e gradualmente occupato dopo la riforma del 2015 è stata la Cittadella Giudiziaria di Salerno, che ha rappresentato un leading case a livello nazionale nella definizione di nuove modalità operative e programmatiche.
Le predette modifiche normative, i cui effetti si sono avuti dal settembre 2015, hanno focalizzato l’attenzione sulla necessità di responsabilizzare il Ministero della Giustizia e gli uffici giudiziari in particolare, determinando un’immanente riflessione sul sentirsi parte del processo di gestione e sulla conseguente ottimizzazione dello stesso, sia in ottica di spending review sia nella più difficile costruzione del senso di appartenenza e delle inevitabili implicazioni in tema di identità, sia ideale che fisica (per i luoghi e gli spazi di Giustizia).
La stessa istituzione, nel Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria, di una Direzione Generale delle Risorse Materiali con caratteristiche rispondenti a questa nuova impostazione proattiva nella gestione e manutenzione degli immobili, ha profondamente caratterizzato la successiva fase manageriale, conferendole uno spiccato senso programmatico.
La riforma dei modelli organizzativi e di funzionamento degli uffici giudiziari e del Ministero ha certamente connotato l’azione dell’amministrazione della giustizia.
Alla riorganizzazione del Ministero si è inteso accordare particolare attenzione, nella convinzione che solo un processo di rinnovazione delle articolazioni amministrative centrali possa adeguatamente supportare il cambiamento organizzativo e tecnologico degli uffici giudiziari e delle strutture periferiche.
Nel mondo della Giustizia, è possibile mutuare la splendida affermazione di Carnelutti «Il processo è esso stesso una pena», per comprendere quanto tutto sia caratterizzato dal percorso e quanto l’iter sia fondamentale per intuirne senso e identità.
Tutto ciò che attiene al complesso mondo giudiziario affonda le sue radici nell’importanza del rito e nel necessario riferimento ai principi. Da ciò deriva anche la consueta macchinosità delle decisioni e la poca elasticità delle relative attuazioni.
Tali caratteristiche in un gran numero di casi provocano ritardi ed inefficienze, ma in altri consentono l’adozione di scelte che dimostrano un “pensiero lungo”.
In termini di durata, la stessa caratteristica è quasi sempre mutuabile per le endemiche lungaggini dei nostri iter amministrativi e delle relative modalità operative.
Non sempre tale giudizio, in senso prospettico, si attaglia alle scelte strategiche, ma quando ciò avviene gli effetti sono chiari e le ricadute riscontrabili in ambito sociale ed economico.
Infatti, poco dopo l’entrata in vigore delle novità normative, ma con un iter iniziato nell’anno 1999, è stato ultimato e reso operativo il complesso immobiliare destinato ad ospitare gli uffici giudiziari salernitani
Il complesso delle attività che ha reso possibile la completa realizzazione dell’opera e la sua entrata in esercizio ha necessariamente comportato un’iniziale impostazione programmatica che, con la saggia definizione dei vertici istituzionali, ha favorito il pieno coinvolgimento di tutti gli attori e la piena considerazione dei fattori critici di successo, nella consapevolezza di incidere non solo sui delicati assetti professionali, ma soprattutto su quelli sociali, economici e relazionali del territorio cittadino e distrettuale.
La ricerca di un percorso che potesse garantire la già menzionata visione sistemica, ripensando i luoghi della Giustizia ed integrandoli nel tessuto urbano, ha caratterizzato l’esperienza della Cittadella Giudiziaria di Salerno sia nella fase progettuale, curata dalla David Chipperfield Architects, sia nella complessa fase attuativa che ne ha garantito la piena operatività.
L’intero progetto, ma in particolare la fase che ne ha consentito la piena operatività, ha comportato, come anticipato, un’iniziale riflessione sugli approcci e sul metodo.
Se l’approccio per processi, impostazione cartesiana per eccellenza, ha garantito il presidio delle attività e la gestione delle fasi e dei tempi, la sua naturale evoluzione ha aperto alla gestione dei sistemi complessi ed alla nuova visione manageriale delle organizzazioni, con le specifiche peculiarità del mondo della Giustizia.
Andava, pertanto, inquadrato il mondo giudiziario come un insieme complesso in cui le singole anime, quella giudicante e requirente, quella amministrativa di supporto ed organizzativa nonché quella dell’avvocatura, quale principale stakeholder e player fondamentale nelle dinamiche lavorative, potessero essere “complessivamente” considerate.
Si è cercato quindi di individuare gli elementi essenziali dell’identità del mondo giudiziario, da sempre caratterizzata dall’alta specializzazione, «Iudex peritus peritorum», dalla centralità del ruolo e dall’equidistanza, con una neutralità connaturata, espressione costante di equità. La compagine amministrativa, consapevole della già menzionata centralità, ha sempre assecondato tali assunti garantendo il mantenimento di determinati standard qualitativi.
La particolare accentuazione dei concetti di autonomia e indipendenza, soprattutto intesi nell’accezione sviluppatasi in tempi recenti, ha reso il concetto di identità più difficile da definire e da sintetizzare.
Infatti, mentre l’identità è sempre stata particolarmente avvertita tra i magistrati, appare più difficile riconoscerla in ambito amministrativo, dove la definizione dei ruoli è meno caratterizzata e la consapevolezza dello spirito di corpo meno profonda.
La poca cura degli spazi di Giustizia ha di sicuro contribuito a provocare questo ritardo, rimarcando la netta differenza tra il personale togato e quello amministrativo. La creazione di una cittadella giudiziaria, intesa come complesso immobiliare unico, ha di fatto favorito l’avvio di un processo teso a rinsaldare gli elementi identitari attraverso la condivisione di problematiche organizzative, ma anche di iniziative volte ad integrare i luoghi della Giustizia non solo nel tessuto urbano, ma anche sociale della città.
L’iniziale diffidenza, ricorrente in ogni iniziativa innovativa, ha lasciato il passo ad una piena consapevolezza dei luoghi che ha naturalmente indotto ad una «profonda soddisfazione dell’abitare» di cui parla Emmanuel Lévinas in Totalità e infinito. L’abitare diventa in tal modo, per il predetto autore, un «godimento del mondo, un soddisfarsi di esso avendone bisogno».
Da cosa deriva tale consapevolezza? Dalla competenza che si acquisisce con l’abitare e con la frequentazione dello spazio che ci circonda (La Cecla). «Tale interazione, che è talmente familiare da non essere percepita», può emergere grazie alla riflessione che ciascun occupante effettua facendo “mente locale”. È proprio questo il cambio di passo fondamentale in uno spazio di Giustizia che ogni operatore può effettuare, utilizzando lo stesso e trasformandolo sulla base dell’identità che si è costruita. Tale identità deriva da una naturale riflessione ed una profonda acquisizione dei principi e delle ritualità tipiche che fanno sentire ciascuno parte del mondo della Giustizia.
La definizione accurata di spazi di Giustizia, che conduce alla condivisione dei riti e dei principi, favorisce il processo di consapevolezza e costruisce inevitabilmente il “senso di appartenenza”. La semplicità di tale assunto è facilmente desumibile anche dalla letteratura neuroscientifica in cui si afferma che le forme basilari dell’attività cognitiva non hanno bisogno di grandi cervelli e che il surplus neurologico è solo al servizio della memoria e non dei processi del pensiero o della coscienza.[8] L’esistenza, pertanto, di un minimo comun denominatore tra noi e le forme di vita più umili ci allontana dal concetto cartesiano dell’animale-macchina e solleva importanti interrogativi etici. Anche in tale contesto, oltre che in quello organizzativo, si assiste ad un’evoluzione concettuale dei concetti cartesiani, ora per affermare la semplicità negli approcci, ora per sostenere la necessità di affrontare la meraviglia dei sistemi complessi.
Dunque, semplicità e complessità che si combinano e che sono tese a favorire la costruzione identitaria ed un percorso coerente che giunga alla definizione di nuovi spazi di legalità.
Nel suddetto percorso, il coordinamento delle attività tese alla graduale operatività del complesso immobiliare, ha avuto quale minimo comun denominatore il rispetto puntuale delle scelte progettuali, latrici di una visione aperta degli spazi, assolutamente inclusiva, pur rispettando i requisiti e le esigenze dettate in tema di sicurezza e di relativa accessibilità agli uffici ed alle aule.
Il completamento del complesso immobiliare progettato per ospitare gli uffici giudiziari salernitani e la sua piena operatività hanno imposto un approccio che tenesse contemporaneamente conto dei vari attori coinvolti e delle attività da porre in campo. La riflessione sul sistema Giustizia come sistema complesso ha consentito di comprendere che l’aumento del numero dei componenti di un determinato sistema provoca un cambiamento non solo quantitativo, ma anche qualitativo.[9] Occorreva in realtà approfondire le relazioni tra le regole micro ed i comportamenti macro per garantire celerità ed efficienza.
La visione d’insieme che ha caratterizzato le scelte è stata favorita dal ruolo e dalle funzioni della Conferenza Permanente, quale terminale delle sollecitazioni e quale organo propulsore in ottica programmatica di tutte le attività necessarie al perseguimento dell’obiettivo (la piena funzionalità dell’opera).
Tale visione ha consentito, accanto all’individuazione delle fasi e dei tempi, con la definizione di un puntuale cronoprogramma, il totale presidio delle attività.
Facendo continuo riferimento alla letteratura, viene in rilievo un framework concettuale che suggerisce la presenza di una costante interazione e influenza e di un continuo scambio di informazioni tra gli attori organizzativi a livello individuale, le interdipendenze e le costanti interazioni con gli enti coinvolti, favorendo l’attivazione di processi di apprendimento e di innovazione. Conseguentemente, ciò che è emerso con particolare frequenza è il necessario confronto con i megatrend in relazione ai servizi da assicurare ed alle attività necessarie da intraprendere. Il confronto è stato caratterizzato dall’individuazione delle migliori condizioni volte ad assicurare la presenza degli elementi essenziali per garantire un’occupazione ottimale ed una familiarità con il complesso immobiliare (La Cecla, Mente Locale). Lo stesso David Chipperfield, progettista della Cittadella Giudiziaria ha asserito che «l’architetto, servendosi dei mezzi architettonici più appropriati, deve produrre un’interpretazione del programma e del contesto tale da dotare ciascun edificio di un’identità originale e familiare allo stesso tempo». A tale scopo, sono stati attentamente esaminati anche i cosiddetti “segnali deboli”.
L’organizzazione di riunioni periodiche e sistematiche per affrontare l’evoluzione delle fasi relative all’occupazione degli spazi ha garantito la profonda conoscenza degli stessi e delle relative criticità, ma anche il presidio costante delle impressioni avvertite, del fiume carsico delle sensazioni dei nuovi abitanti, nonché delle scelte dei singoli uffici che gradualmente occupavano la cittadella giudiziaria, ha favorito la condivisione degli aspetti organizzativi. I processi di apprendimento si attivano, infatti, grazie all’interazione tra gli attori e le loro funzioni, l’apprendimento, quindi, può essere opportunamente considerato come un processo collettivo di riflessione e azione caratterizzato dal confronto, dalla ricerca di feedback, dalla sperimentazione, dalla riflessione sui risultati e dalla discussione circa gli errori o i risultati inaspettati che scaturiscono dalle azioni.
Del resto, come sagacemente affermato da Johnjoe McFadden «l’unico modo di acquisire conoscenze certe è tramite l’esperienza e l’osservazione». [10]
La scelta di elementi olistici e interdisciplinari ha consentito un confronto con altri campi del sapere. Proprio la semplicità nell’approccio alla complessità ha caratterizzato anche nel ventesimo secolo lo sviluppo delle arti nella cultura occidentale[11]. Pensiamo all’irrompere del caso nei quadri di Jackson Pollock, alla musica minimalista di John Cage ed al “less is more” di Mies van der Rohe.
Proprio ripensando al predetto autore e ad una delle opere architettoniche più rappresentative, il Seagram Building di New York, uno dei massimi esempi di estetica del Funzionalismo, si può declinare la tendenza alla sottrazione, al meno che diventa più nella ricerca di soluzioni semplici ed eleganti.
Il richiamo a tale tendenza è sicuramente presente nelle scelte delle linee della Cittadella Giudiziaria e nella semplicità delle sue forme. Tali elementi sono inequivocabili nelle corti esterne, nella loro immediata e diretta fruibilità e nelle interazioni che favoriscono tra gli uffici e gli utenti interni ed esterni. Tali scelte hanno consentito, proprio in base agli approcci evocati, di affrontare la complessità dei ruoli e la ridefinizione dell’identità.
Ecco che il concetto di semplicità torna nelle forme e negli approcci per affrontare le meraviglie della complessità[12], favorendo l’occupazione comune degli spazi nel rispetto della ritualità e dei principi, in cui l’apertura alle aree cittadine non rende la realtà giudiziaria avulsa rispetto alle dinamiche urbane.
Tale impostazione ha favorito la celere ed efficiente definizione dei servizi (fotovoltaico, utenze, pulizie, custodia, sicurezza, traslochi, arredi interni ed esterni ecc.) in una visione sistemica e diacronica, pensando proprio al complesso immobiliare in ottica evolutiva, con occupazione graduale e con feedback continui da parte dei singoli occupanti, per rimodulare gli approcci e ridefinire le scelte.
In tale ottica, anche le scelte finanziarie sono state attentamente vagliate, definendo opportunamente i fabbisogni e adottando le opzioni economicamente più vantaggiose.
I continui richiami alle illustri testimonianze del passato hanno sistematicamente suggerito costanti rendicontazioni, sia in termini di spesa che di risultato. Una straordinaria guida in tal senso, oltre che per l’ispirazione democratica, è attribuibile ai greci, che ai tempi di Pericle resero l’uso del denaro qualcosa di molto simile all’arte[13].
Infatti, il denaro pubblico ed il relativo uso fu informato a principi ispirati ad alcune leggi elementari e ad una buona dose di etica e di estetica. Funzionale a tale ispirazione è la necessaria rendicontazione, che ad Atene, per le opere più importanti, è stata incisa con tratto nitido sul marmo e nel nostro caso è stata continuamente rappresentata in uno spazio appositamente dedicato sul sito internet istituzionale.
Ciò ha consentito il dialogo con gli attori interni, ma anche con quegli attori esterni continuamente coinvolti nei processi decisionali e nelle scelte strategiche.
Spazi di giustizia: una proposta di metodo per il Sud del Paese
Le considerazioni sinora fatte coniugano una visione di carattere astratto e generale con il portato di una esperienza sul territorio e per il territorio. Mantenendo questo binomio – fra astrattezza dei principi e universalità delle metriche di valutazione della qualità, da un lato, e contestualità dei significati che vanno via via prendendo gli spazi di giustizia in fieri in uso e in ripensamento, dall’altro lato – si propone qui un modus operandi che copre non solo la architettura del palazzo di giustizia, ma anche la più ampia – e necessaria – prospettiva del creare una spazialità nella quale comportamenti di appropriatezza e di rispondenza alle domande di servizi e di funzionalità siano capaci di generare un senso di collettività e di coralità condivisi. Come si vedrà si dà una specificità ulteriore rispetto a quanto sinora elaborato in materia di qualità degli spazi. Tale specificità attiene al rapporto che la spazialità della giustizia intesa come spazio dei procedimenti e dei rituali endo-procedimentali intrattiene con la spazialità del territorio.
Si parte dunque da un presupposto. Fare uno spazio è fare spazio. Significa radicare il qui e l’ora nella prospettiva della sostenibilità, della trans-soggettività, della leggibilità e della comunicabilità. Un “qui ed ora” che non deve essere dunque idiosincratico. Per fare questo occorre volgere lo sguardo all’uso e alla spazialità vissuta, non soltanto al modello astratto, ancorché la modellistica ci aiuti e ci sia preziosa per fare valutazione fra plessi, situazioni, momenti temporali nello stesso plesso.
Il momento del fare lo spazio – nel senso appena evocato – è un momento taumaturgico e demiurgico al contempo per un territorio. Guardando a sé stesso con uno sguardo che non può che farsi poliedrico e tenere insieme diverse istanze, esigenze, competenze, prospettiche, il fare lo spazio o il rifare lo spazio significa fermarsi, decelerare, per poi mettersi nelle condizioni di disporre di una più adeguata, intelligibile e accogliente spazialità dove la ritmica del fare con qualità, efficienza, sia possibile non come forzatura, ma con la naturalità dell’essere in quello spazio.
Se gli standard, dunque, devono darsi in modo astratto per potere valutare, le forme della costruzione e della fruizione della spazialità sono nel contesto.
Una visione, quella che si propone, che ben si attaglia sul Sud del paese, dove la criticità delle infrastrutture di mobilità, unitamente all’alto tasso di ricambio del personale che opera nelle sedi giudiziarie, in particolare quelle maggiormente disagiate, rende precaria l’interfaccia fra spazialità di giustizia e persone, siano esse le persone della cittadinanza, siano esse le persone dell’ufficio giudiziario.
Si tratta inoltre di una visione che valorizza in modo forte la ricaduta identitaria del fare la spazialità architettonica, nel senso ibrido sopra detto – materiale e virtuale. Una ricaduta identitaria che ci appare ancor più necessaria nel Sud del paese dove sovente la narrativa dominante in materia di amministrazione di giustizia è legata ad alcuni tòpoi storicamente radicati. Eppur è quantomai necessario e vitale che le comunità di prassi del mondo della giustizia si riconoscano oggi in un progetto che sia modello e vita, ossia che si declini in una progettualità del palazzo di giustizia, delle spazialità che vi sono connesse, dei nessi con il territorio circostante, con la società economica, rendendosi così attore di primo piano per e con il territorio in una vera prospettiva di rilancio e di resilienza.
Come fare dunque?
Si parta dal momento del design. La progettualità della spazialità non può darsi in vacuum. Essa deve partire non solo dalla analisi del territorio, ma pensare in una ottica di lungo periodo, come si fa un investimento non tanto su un endowment di risorse, quanto su una politica di riconciliazione fra una funzione dello Stato e la società, fra principi ordinamentali e processuali e aspettative della cittadinanza in termini di servizi e di accessi.
Essa deve nascere da una razionalità corale che abbia come base di ragionamento un “bilancio” socio-architetturale della spazialità pregressa. Tale “bilancio” andrà a coprire anche gli indotti economici della mobilità e della vita che circuitano attorno allo spazio del palazzo di giustizia. Ad oggi, dopo l’esperienza dirompente del 2020 e della attuazione delle misure di contrasto alla pandemia tale “bilancio” comprenderà anche la visione di insieme delle esperienze fatte nell’ibridare spazialità materiali e virtuali. Opportunamente sarà integrato in tale “bilancio” l’aspetto delle forme di interazione fra giudice, cancellerie, servizi tecnici e informatici, ovvero le forme di collaborazione o di silente sinergia che si sono verificate durante la fase che chiameremmo di straordinaria sperimentazione.
Se la progettazione deve nascere da un radicamento che guarda ad un orizzonte ispirato da principi universali, la realizzazione, e soprattutto l’utilizzo, della spazialità della giustizia saranno intesi come percorsi evolutivi. Questi ultimi hanno una ricaduta sul piano della ottimalità della gestione e sul piano della formazione dell’identità intesa come impegno hic et nunc nella cura dello spazio e nella cura dell’appartenenza.
Se dunque una periodica valutazione della qualità del vivere nello spazio costruito sarà necessaria – fatta con standard che siano al contempo capaci di cogliere la qualità della gestione, la efficienza, ma anche il benessere organizzativo – sarà altresì necessario istituire un set di politiche di carattere culturale intese in senso proprio. Convegni, ma anche forme più puntuali e comunque più leggere in termini di oneri organizzativi che valorizzino la creatività delle persone che si interfacciano con la spazialità in uso. Gli spazi della giustizia che non sono fruiti nei tempi di non operatività delle aule di udienza, ovvero dei servizi di cancelleria possono diventare spazi nei quali si mostra e si racconta una cittadinanza che, comprendendo anche il personale del palazzo di giustizia, si sente di appropriarsi di una spazialità di significati, ciascuno per i propri ruoli.
Un segnale ad un territorio che ha spesso dovuto declinare il rapporto fra palazzo di giustizia in una ottica di separatezza e che invece può investire su un patrimonio fiduciario nato dalla fruizione controllata, condivisa, basata su un puntuale processo di monitoraggio che è innanzitutto un mutuo conoscersi.
Nel percorso di uso delle risorse della spazialità la tecnologia può entrare appieno sia per la parte di ottimalità gestionale sia per la parte di costruzione identitaria. La tecnologia e la connettività possono rendere sostenibile l’accesso in loco a contenuti di carattere culturale altrimenti non fruibili da spazi che comunque restano perimetrati – accessi virtuali a musei, cineteche del territorio possono diventare possibili nelle sale di attesa e nei corridoi. Altrettanto possibili sono i totem di orientamento dell’utenza così come delle forme di responsiveness[14] che integrino appieno le chat bot e l’intelligenza. Un portato che il progetto del tribunale smart appieno integra nella sua essenza di poetica architettonica aumentata.
La spazialità della giustizia deve raccontare dunque una storia, lo deve fare nella progettazione e nella fruizione, tematizzando in modo esplicito il modo con cui la risorsa in dotazione diventa spazio vissuto. È solo raccontando la storia che le comunità non si perdono, con Giulia Baldelli. È solo dando rappresentazioni condivise allo spazio è possibile farne una legalità radicata nella comunità di prassi.[15]
Scegliere il Sud del paese per avviare un percorso sperimentale di spazialità, che sia ispirata a principi universale e radicata in un contesto storico e culturale, significa in fondo scegliere Itaca, il ritorno e il rinnovamento, l’azione lucida e frugale, senza eccessi, senza spazi vuoti che siano senza significati perché non utilizzati o non compresi – essendo le due cose legate. Albert Camus ricordava che la giustizia è nutrimento su terra dolorante, il vento venuto dal mare, una antica e nuova aurora.[16]
Foto: Palazzo di Giustizia di Firenze (photo credits: Sara Cocchi)
[1] Ricorda Olafur Eliasson che è l’interagire con lo spazio ciò che costruisce lo spazio (e se stessi, aggiunge n.d.a). Leggere è respirare, è divenire, Scritti di Olafur Eliasson, Milano, Marinotti, 2021.
[2] Franco La Cecla, Mente locale. Per una antropologia dell’abitare, Elèuthera, 1995.
[3] Si veda su questo Benoit Frydman, Gouverner par les normes et les indicateurs: de Hume aux rankings (con A. Van Wayenberge dir.), Bruylant, 2013.
[4] Si intende qui fare riferimento al fatto che in una visione di carattere sistemico che coniuga la auto-sussistenza dei sistemi con la differenziazione funzionale degli stessi, ogni sistema normativo avrebbe al suo interno le forme necessarie e sufficienti per assegnare valori di qualità e per modificare le azioni in vista del migliore raggiungimento di quei valori. Così, nella fattispecie qui considerata, il sistema ordinamentale della giustizia ordinaria sarebbe stato per tutta la stagione della modernità inteso come improntato ad una nozione di qualità di carattere formale e processuale. Il passaggio del paradigma dalla tutela dello Stato di diritto all’interno delle norme che assegnano formalmente e in modo tecnico valori ai comportamenti processuali e ordinamentali alla tutela insieme allo Stato di diritto in una chiave di pre-condizioni processual-ordinamentali ad un giusto processo come risposta alla domanda reale di giustizia dei cittadini e, dunque, alla qualità del servizio, ha portato all’interno del settore giustizia valori e metriche propriamente elaborate nel mondo del management. Una ibridazione di saperi di cui molto si è detto che ha permesso di aprire un varco in quella visione internalista di cui si è detto. Si veda sul punto il recente saggio di Jacques Commaille, 2021 e il più esteso saggio nella forma di volume uscito nel 2015 sulle metriche del diritto e dello Stato di diritto democratico. Si veda su questo Priban, J. 2016. On legal symbolism in symbolic legislation: a systems theoretical perspective. In: van Klink, B., van Beers, B. and Poort, L. eds. Symbolic Legislation Theory and Developments in Biolaw, Legisprudence Library Vol. 4. Springer, pp. 105-121. Ci permettiamo di rimandare anche a Daniela Piana, Judicial Accountabilities in New Europe, Farnham Ashgate, 2010 e Uguale per tutti? Bologna, il Mulino, 2015.
[5] Antoine Garapon, La despazializzazione della giustizia, Mimesis, 2021.
[6] A. Vauchez, Les jauges du juge. La justice aux prises avec la construction de sa légitimité (Réflexions postOutreau), in La qualité des décisions de justice, Etudes réunies par P. Mbongo, Colloque à Poitiers des 8 et 9 mars 2007, http://www.coe.int/t/dghl/cooperation/cepej/quality/Poitiers2007final.pdf
[7] J.-P. Jean, La qualité de la justice face aux attentes du justiciable, in L’éthique des gens de justice, actes du colloque organisé à Limoges les 19 et 20 oct. 2000, PULIM 2000 ; B. François, Les justiciables et la justice à travers les sondages d’opinion, in L. Cadiet et L. Richer (dir.), Réforme de la justice, réforme de l’Etat, PUF 2003, p. 41.
[8] Giorgio Vallortigara, Pensieri della mosca con la testa storta, Milano, Adelphi, 4a ed. 2021.
[9] Philip W. Anderson, More and different: notes from a thoughtful curmudgeon, Singapore Hackensack, New Jersey: World Scientific, 2011.
[10] Johnjoe McFadden, La vita è semplice. Come il rasoio di Occam ha liberato la scienza e modellato l’universo, Bollati Boringhieri, 2021.
[11] Paolo Legrenzi, Il superpotere della semplicità, in Il Sole 24ore, 23/01/22.
[12] Giorgio Parisi, In un volo di storni. Le meraviglie dei sistemi complessi, Rizzoli, 2021.
[13] Giovanni Marginesu, I Greci e l’arte di fare i conti, Torino, Einaudi, 2021.
[14] Il termine si vuole qui diverso da risposta perché indica in questo caso la regolare, permanente capacità e l’orientamento – dunque l’intenzione unitamente alla capacità – di assumere la domanda di giustizia come parametro di riferimento.
[15] Angela Mazzia, Alessandra Tilli, Ciclaminia e il mistero della costituzione violata, Progedit, 2021.
[16] Albert Camus, L’homme revolté, Paris, Gallimand, 1951, tr. It. L’uomo in rivolta, Milano, BUR, 2019, p. 334.
Daniela Piana, professoressa ordinaria di scienza politica nell'Università di Bologna
Raffaele Mea, dirigente, Ministero della Giustizia