Magistratura democratica
Diritti senza confini

Storie vere. L’inevitabile ambiguità all’esame del giudice dell’asilo

di Barbara Sorgoni
professore associato, Dipartimento di Culture, politica e società, Università di Torino
La necessità di dotarsi di strumenti per comprendere a fondo le storie di altri mondi richiede un nuovo impegno formativo multidisciplinare

L’Unhcr riconosce i margini di discrezione che sono consentiti ai decisori nella valutazione delle evidenze. Ciò nonostante, la valutazione della credibilità non deve essere una lotteria tra gli stati membri dell’UE o all’interno dei sistemi nazionali d’asilo dei singoli stati. La valutazione della credibilità non può basarsi sull’approccio soggettivo, gli assunti, le impressioni o l’intuizione di un singolo decisore

Unhcr 2013, p. 251

 

1. Il progetto Credo e il criterio della credibilità

Il brano riportato in epigrafe appare all’interno di una delle ricerche del progetto Credo [1] dedicate alla valutazione della credibilità nella procedura di protezione internazionale [2]. Pubblicate nel 2013, queste intendono colmare un vuoto da tempo segnalato in numerosi studi di diritto internazionale: nonostante i pochi lavori disponibili mostrino una percentuale molto alta di dinieghi basata sulla non credibilità dei richiedenti asilo (dal 48 al 90 per cento), mancava un corpus di criteri che potesse orientare il processo decisionale in relazione alla valutazione della credibilità stessa. Che un insieme chiaro di principi condivisi fosse necessario e urgente è dimostrato dal fatto che domande di asilo tra loro simili approdano ad esiti differenti, sia se valutate in Stati diversi sia all’interno dello stesso sistema statale (Byrne, 2007). Questo genere di analisi sulla variabilità degli esiti del giudizio di credibilità sconta la difficoltà di confrontare prima ancora che le differenti valutazioni di credibilità, gli stessi racconti e storie che sono sempre tutte diverse se analizzate con attenzione. Sebbene il passo riportato critichi quelle decisioni fondate su opinioni o credenze soggettive del decisore, lo stesso si apre con un esplicito riconoscimento dell’inevitabile margine di discrezionalità implicito nelle procedure di determinazione della protezione internazionale. È dentro questo spazio, tra una certa ineliminabile dose di discrezionalità e una soggettività dannosa per l’equità della procedura, che si colloca il problema della valutazione della credibilità della domanda di asilo.

In questo contributo intendo innanzitutto riportare alcune questioni sollevate dal progetto intorno al tema della credibilità. Nel secondo paragrafo mi concentro sulle insidiose particolarità del diritto d’asilo, mostrando perché le stesse caratteristiche della procedura possano produrre ad ogni stadio fraintendimenti che inducono a considerare il racconto non credibile. Nel terzo ed ultimo paragrafo mi concentro sulla questione della plausibilità mostrando come e quando aumenti il rischio di scivolare nella soggettività del decisore.

Se il progetto Credo definisce la procedura di riconoscimento della protezione internazionale «un’area giuridica arcana e altamente specializzata» dalla natura unica (Iarlj, 2013, p. 11), questo è dovuto essenzialmente al ruolo preponderante giocato dalla credibilità. Una categoria ambigua − «quasi-legale» la definisce Sweeney (2007) − radicata nella testimonianza orale di vittime di violenza estrema, a sua volta il tipo di evidenza meno credibile e più facilmente screditabile (Byrne, 2007). E se le informazioni sui Paesi e le società di origine (COI) possono controbilanciare la natura elusiva delle narrazioni, il decisore si trova solitamente tra due opposti − «un database contro una testimonianza personale» (Noll, 2005, p. 4) − senza poter attingere a documentazione specifica (che spesso manca) né, come in altri casi, poter chiedere chiarimenti alle autorità del Paese di provenienza del richiedente. In altri termini nel diritto d’asilo, ai decisori vengono richiesti sforzi e soprattutto competenze differenti da quelle utilizzabili in casi che riguardano soggetti nazionali, sebbene i decisori stessi non possano formarsi idee e convinzioni in merito se non in analogia con esperienze a loro familiari (Ibid.).

La valutazione della dichiarazione dei richiedenti asilo non è certo questione recente, ma il peso maggiore che il criterio sembra avere assunto nel tempo e la sua ricezione ufficiale all’interno delle Direttive europee [3], uniti all’assenza di linee guida a livello internazionale su come interpretare e applicare tale criterio, giustifica l’obiettivo di Credo di armonizzare a livello UE le interpretazioni del concetto di credibilità e al contempo limitarne l’uso scorretto.

A tal fine, la pubblicazione sulla definizione di standard comuni (Iarlj, 2013) scoraggia adozioni vaghe del termine, concentrando piuttosto l’attenzione sull’insieme dei fatti presenti e passati allegati dal richiedente; questi stessi devono essere valutati in relazione alla loro coerenza interna (verificando se appaiono discrepanti rispetto ad altre prove fornite dal richiedente) ed esterna (se in linea con le informazioni sul Paese o con il parere di un esperto). Viene inoltre specificato come, nel caso della coerenza interna, il decisore debba tenere in considerazione la totalità dei fatti presentati evitando di basare il giudizio su singoli eventi; mentre nel caso della coerenza esterna si raccomanda di valutare informazioni aggiornate sul Paese ed eventuali altre prove documentali da acquisire autonomamente. Al termine del progetto Credo, nel 2015, viene organizzata una tavola rotonda tra decisori, giudici, avvocati, studiosi e rappresentanti di ong del settore, al fine di discutere criticamente le pubblicazioni scaturite dal progetto stesso (Unhcr, 2015) [4]. In quel contesto emergono alcune questioni, due delle quali particolarmente rilevanti in questa sede.

La prima è la valutazione dell’«attendibilità generale» o personale del richiedente [Direttiva 2004/83/EC, art. 4, par. 5, lett. e)] che molti ritengono da eliminare: la maggioranza dei partecipanti sostiene infatti che la valutazione debba riguardare la credibilità del racconto (dei fatti narrati o altrimenti dimostrati dal richiedente) e non essere confusa con una ricerca della verità. Sebbene quest’ultima sia direttamente collegata all’accertamento dell’«attendibilità generale» del richiedente prevista dalla Direttiva, è ritenuta fuorviante dai partecipanti alla discussione. Il giudizio di credibilità è uno strumento probatorio, non di valutazione della meritevolezza della persona; deve vertere sulle singole circostanze di fatto allegate che possono esser ritenute dimostrate in tutto, ma anche in parte. Inoltre, il sospetto potrebbe emergere per questioni generate dalla stessa meccanica della procedura di asilo, come si vedrà nel prossimo paragrafo.

La seconda questione sollevata durante la tavola rotonda riguarda l’ultimo dei 5 criteri di credibilità stilati dal rapporto redatto dal progetto (Unhcr, 2013): la plausibilità. Mentre gli altri criteri riguardano la precisione dei dettagli e la valutazione della coerenza (consistency) del racconto con quanto raccontato dal richiedente, quanto espresso dagli esperti consultati e quanto reperibile dalle COI, l’evidenza empirica mostra come il criterio della plausibilità sia tra tutti quello più frequentemente basato su credenze soggettive, stereotipi o intuizioni personali dei decisori. Nell’ultimo paragrafo offrirò alcuni esempi di questo problema.

2. Sull’attendibilità personale del richiedente asilo e la natura ambigua del racconto

È condiviso nel diritto d’asilo il riconoscimento delle insidie giocate dalla memoria nella produzione del racconto di persecuzione. Le pubblicazioni Credo citano un’ampia bibliografia che attinge al diritto ma anche a psicologia, neurobiologia e antropologia, mostrando come versioni differenti della storia prodotte da uno stesso richiedente possano dipendere da molti fattori (tra cui il lungo lasso di tempo intercorso tra diverse interviste, il sostegno psicologico ricevuto, la presenza di traumi, una migliore comprensione dei criteri da soddisfare, e la s-fiducia nell’interprete) che non hanno necessariamente a che fare con la menzogna [5]. Maurizio Veglio (2017a, 2017b) ha articolato la complessità del tema miscelando con rigore diversi apporti disciplinari con i casi concreti che come avvocato ha potuto incontrare. Altre ricerche contribuiscono a mostrare quanti siano i fattori che ingenerano sospetto quando si valuta l’attendibilità personale a partire dalla sola testimonianza orale. Esperti di analisi del discorso hanno da tempo sfatato il mito dell’intervista come mezzo per accedere al mondo interiore dell’intervistato: durante l’intervista, soprattutto se di tipo istituzionale, l’intervistato tende a sovrapporre l’intervistatore con l’istituzione che rappresenta, necessariamente interpretandone le intenzioni e plasmando le proprie risposte di conseguenza. Basandosi sulla linguistica, l’antropologa Eastmond (2007) ha analizzato la relazione tra realtà, esperienza e rappresentazione per i richiedenti asilo distinguendo tra vita vissuta (flusso degli eventi), vita esperita (percezione e interpretazione degli eventi basate sul proprio vissuto e sul bagaglio culturale), e vita narrata (come esperienza e interpretazione sono proposte in specifici contesti). Fattori di natura storica, relazionale, sociale e culturale intervengono a plasmare ciascuno dei tre momenti riducendone la complessità e imponendo, in particolare alla narrazione, un ordine e una coerenza che la realtà non possiede.

Altri studi hanno sottolineato la relazione di potere fortemente asimmetrica dei contesti istituzionali in cui sono prodotte le storie di asilo, dove la posta in gioco è altissima. Si tratta, inevitabilmente, di un processo segnato da disuguaglianza narrativa e simbolica su cosa rende un testo accettabile, nel quale le possibilità di esito positivo non dipendono solo dai fatti narrati, quanto dalla capacità persuasiva del narratore (Cabot, 2011). Il fatto che codici culturali ed espressivi ritenuti appropriati in contesti decisionali occidentali non siano noti a chi deve narrare lì la propria storia (perché non fanno parte della sua esperienza o bagaglio culturale) rende il lavoro della cooperazione nell’intervista particolarmente scivoloso, quando non impossibile. E adottare i propri canoni culturali (o rimanere intrappolate nel terrore) può addirittura essere fatale, come quando un diniego viene fondato sull’inattendibilità della richiedente che, nel raccontare la propria esperienza di stupro e tortura, non mostra alcuna emozione [6].

Infine, una decisione basata principalmente sulla valutazione del “racconto” del richiedente asilo è potenzialmente ingiusta quando si tratti di ricorso nel quale il giudice non intenda ascoltare di nuovo il ricorrente, basandosi sul verbale dell’audizione. La linguistica antropologica ha mostrato che nessuna trascrizione, per quanto completa, può riportare ogni parola proferita nello scambio comunicativo. Soprattutto nei casi in cui un solo decisore deve contemporaneamente porre le domande, ascoltare e trascrivere le risposte, questi opererà una selezione spesso inconsapevole di quanto ascolta finendo per trascrivere ciò che ha meglio compreso, che sente più vicino alle proprie convinzioni, o che meglio conosce (Grillo, 2016). A ben guardare però, questa selezione non è operata sulle parole del richiedente asilo, bensì su quelle che l’interprete ha scelto di tradurre nel modo che a sua volta ritiene utile, dunque già interpretando (Tipton, 2008). Se la procedura attraversa più stadi, alla fine si valuterà la credibilità/attendibilità di una storia narrata ad altri a distanza anche di molto tempo, parzialmente tradotta da interpreti diversi e ancora selettivamente trascritta da differenti decisori, ma trattata come se si stessero valutando le parole del richiedente asilo. In questo senso, Blommaert (2011) ha suggerito di concepire la storia dei richiedenti asilo piuttosto come una (lunga) «traiettoria testuale» rimodellata da differenti soggetti nei vari passaggi, e sulla quale i richiedenti asilo finiscono nel tempo per perdere il controllo.

3. Plausibilità del racconto o soggettività del decisore?

Se la natura intrinsecamente dinamica della comunicazione non agevola l’uniformità procedurale solitamente ricercata dal diritto, nell’asilo in particolare la difficoltà culturale affrontata dai richiedenti per orientarsi tra criteri e modalità di valutazione non familiari va di pari passo con quella incontrata dai decisori nel provare a restituire senso a universi culturali, mondi di significato e forme di conoscenza della realtà radicalmente altre. La difficoltà di comprendere «sottili questioni culturali, di genere, di comportamento e linguistiche» evidenziata dal progetto (Iarlj, 2013, p. 19), si assomma alle necessariamente personali idee di «verità», o di cosa sia «normale» e dunque plausibile per i decisori. Nel caso di un giudice che conferma il diniego ritenendo «privo di credibilità» il fatto che tre oppositori politici siano portati in carcere invece che essere eliminati sul posto, che li si trattenga nella stessa cella senza dividerli e che infine se ne lasci in vita solo uno (la richiedente), emerge una visione normativa della violenza politica che segue uno schema basato sulle conoscenze personali del giudice ma è poi assunto come universale. E se la richiedente − che circostanzia i motivi per cui non può fornire i particolari di un viaggio di fuga organizzato da altri − viene ritenuta inattendibile perché, spiega la commissione territoriale, «se una persona intende organizzare la mia fuga credo che abbia avuto un progetto e dei riferimenti per farmi andare via dal paese e credo che mi avrebbe informato di quello che avrei dovuto affrontare», in casi come questi incontriamo ipotesi fondate su esperienze familiari ai decisori (organizzare un viaggio) assunte come modello per misurare la plausibilità di qualsiasi «viaggio» (Sorgoni, 2011).

Poiché il problema della lontananza dei mondi culturali tra richiedenti e decisori/avvocati è ciò che maggiormente interviene a creare incomprensioni e a rendere non plausibile un racconto (Good, 2007), il riconoscimento di questo nesso dovrebbe indurre a prestare particolare attenzione − in termini di raccolta di informazioni specifiche o pareri esperti − proprio a quegli elementi che suonano maggiormente estranei, meno familiari. Invece la letteratura sembra indicare piuttosto il contrario: più i racconti appaiono esotici e lontani dall’orizzonte culturale o di conoscenza dei decisori, maggiore è la probabilità di un giudizio negativo. È il caso della stregoneria, dove con maggiore evidenza troviamo decisioni negative fondate sulle opinioni soggettive del decisore. Un recente lavoro comparativo su 176 decisioni in cinque Paesi anglofoni, riporta 154 decisioni negative fondate sulla non credibilità, mentre le ventidue positive considerano altri aspetti della domanda escludendo la stregoneria (Dehm, Millbank, 2019).

Eppure la stregoneria fa parte della vita quotidiana di milioni di persone in Africa, Nepal, India, Indonesia, Papua Nuova Guinea e America centrale, ed è ricordata in almeno 3 Linee guida dell’Unhcr. Il termine ha origine in Europa e si è imposto nel periodo coloniale nel tentativo di classificare e comprendere cosmologie e forme di conoscenza radicalmente altre, riducendo varietà e complessità a credenze primitive e illogiche; è dunque un termine impreciso e fuorviante, comprendendo credenze e pratiche collegate a poteri sovrannaturali, che cambiano a seconda delle società ma anche nel tempo. La letteratura antropologica descrive la «stregoneria» come un processo dinamico e in evoluzione, capace di adattarsi ai mutamenti sociali ed anzi in crescita di fronte all’esacerbarsi dell’ineguaglianza economica e di potere della modernità: un modo di conoscere e agire all’interno di contesti sociali in rapido mutamento (Comaroff, Comaroff, 2000). E pur emergendo di frequente all’interno dei legami di parentela, la stregoneria è uno strumento di regolazione dei rapporti sociali che ha sempre una dimensione pubblica e spesso politica, strutturando le relazioni tra gli individui all’interno della comunità più ampia (Geschiere, 1995).

Questo ampio corpus di conoscenze prodotte da tempo, nonché l’attenzione internazionale verso l’acuirsi recente di violenze e persecuzioni legate alla stregoneria, non sembrano però ancora informare le decisioni di asilo. È dunque questo tema che, più di ogni altro, «espone il diritto d’asilo a pesanti sconfitte» (Dehm, Millbank, 2019, p. 204), venendo solitamente eclissato, respinto nella categoria delle false credenze personali, risolto in questioni familiari di tipo economico. O, più semplicemente, bollato come non plausibile, in questo caso sostituendo una credenza pubblica e condivisa, capace di perseguitare, rinchiudere o mettere sommariamente a morte [7], con la conoscenza soggettiva e scientificamente fondata del decisore occidentale nel cui mondo «la stregoneria non esiste».

Bibliografia

R. Beneduce, The Moral Economy of Lying: Subjectcraft, Narrative Capital, and Uncertainty in the Politics of Asylum, Medical Anthropology, 34 (6), pp. 551-571, 2015.

R. Byrne, Assessing Testimonial Evidence in Asylum Proceedings, International Journal of Refugee Law, 19, pp. 609-638, 2007.

J. Blommaert, Investigating narrative inequality: African asylum seekers’ stories in Belgium, Discourse & Society, 12 (4), pp. 413-449, 2001.

H. Cabot, Rendere un rifugiato riconoscibile: performance, narrazione e intestualizzazione in una Ong Ateniese. Lares LXXVII (1), pp. 113-134, 2011.

G. Coffey, The Credibility of Credibility Evidence at the Refugee Review Tribunal, International Journal of Refugee Law, 15 (3), pp. 377-417, 2003.

J. Comaroff and J.L. Comaroff, Occult economies and the violence of abstraction: Notes from the South African postcolony. American Ethnologist 26, pp. 279-303, 2000.

S. Dehm, J. Millbank, Witchcraft Accusations as Gendered Persecution in Refugee Law, Social & Legal Studies, 28 (2), pp. 202–226, 2019.

M. Eastmond, Stories as Lived Experiences: Narratives in Forced Migration Research, Journal of Refugee Studies, 20 (2), pp. 248-64, 2007.

P. Geschiere, Sorcellerie et politique en Afrique, Paris, Karthala, 1995.

A. Good, Anthropology and expertise in the asylum courts, Abingdon-New York, Routledge-Cavendish, 2007.

R. Grillo, Anthropologists Engaged with the Law (and Lawyers), Antropologia Pubblica,2(2), pp. 3-24, 2016.

G. Noll (a cura di), Proof, Evidentiary Assessment and Credibility in Asylum Procedures, Leiden: Martinus Nijhoff, 2005.

B. Sorgoni, Storie dati e prove. Il ruolo della credibilità nelle narrazioni di richiesta di asilo, ParoleChiave, 46, pp. 115-33, 2011.

J.A. Sweeney, Credibility, Proof and Refugee Law, International Journal of Refugee Law, 21 (4), pp. 700-726, 2009.

R. Tipton, Reflexivity and the Social Construction of Identity in Interpreter−Mediated Asylum Interviews, The Translator 14 (1), pp. 1-19, 2008.

M. Veglio, Vite a rendere, in Fondazione Migrantes (a cura di) Il diritto d’asilo. Report 2017, Todi: Tau editrice, pp. 109-43, 2017a.

M. Veglio, Uomini tradotti. Prove di dialogo con i richiedenti asilo, Diritto, Immigrazione e cittadinanza, fasc. 2, 2017b.



[1] Co-finanziato dal Fondo europeo per i rifugiati, il progetto è implementato da Hungarian Helsinki Committee (Hhc), Unhcr, International Association of Refugee Law Judges (Iarly) e Asylum Aid.

[2] Unhcr, 2013, Beyond Proof: Credibility Assessment in EU Asylum Systems, Full Report, 2013, http://www.refworld.org/docid/519b1fb54.html;

Hhc, Credibility Assessment in Asylum Procedures, Training Manual1, 2013, http://www.refworld.org/docid/5253bd9a4.html;

Iarly, Assessment of Credibility in Refugee and Subsidiary Protection claims under the EU Qualification Directive-Judicial criteria and standards, 2013, http://www.iarlj.org/general/images/stories/Credo/Credo_Paper_March2013−rev1.pdf

[3] «Qualora taluni aspetti delle dichiarazioni del richiedente non siano suffragati da prove documentali o di altro tipo, la loro conferma non è comunque necessaria se sono soddisfatte le seguenti condizioni: a) il richiedente ha compiuto sinceri sforzi per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una spiegazione soddisfacente dell'eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso di cui si dispone; […]; e) è accertato che il richiedente è in generale attendibile» (Direttiva 2004/83/EC, art. 4, par. 5).

[4] Unhcr, Credibility Assessment in Asylum Procedures Expert Roundtable (Budapest, 14-15 January 2015), 2015, https://www.refworld.org/pdfid/554c9aba4.pdf.

[5] In analogia con quanto verificato dai tribunali internazionali per crimini contro l’umanità (Byrne, 2007). Non affronto qui la questione della menzogna come strategia resa necessaria dalle stesse politiche migratorie che non consentono alcun ingresso legale ad ampie categorie di persone (migranti economici, sfollati per motivi climatici o per danni da sviluppo); cfr. Beneduce, 2015.

[6] La letteratura riporta anche casi opposti in cui espressioni di disperazione durante l’intervista vengono, al contrario, considerate “eccessive” o “teatrali” e dunque indici di inattendibilità generale.

[7] Circa 1000 persone, tra cui molti oppositori politici, perseguitate perché accusate di stregoneria dall’ex dittatore gambiano Yahya Jammeh nel solo 2009; 425 morti in Tanzania solo nel 2015 secondo lo US State Department.

03/06/2019
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