Il Tribunale di Roma lo scorso gennaio ha accolto il ricorso di un cittadino pachistano «sprovvisto di accoglienza e di alcun tipo di supporto», respinto alla frontiera slovena da parte dell’autorità di pubblica sicurezza italiana. Ha ritenuto sufficientemente provato il suo racconto delle modalità di «riammissione» informale in territorio sloveno, poi in quello croato ed infine bosniaco, ad opera di agenti di polizia in borghese, con l’omissione di ogni formalizzazione della sua richiesta di asilo orale, l’induzione alla firma di documenti e con successivo rosario di violenze d’ogni genere subite ad opera delle polizie di tali Stati. Il provvedimento è stato fondato, tra l’altro, sulle «informazioni …elaborate …sulla base dei dati forniti …dall’UNHCR [ed] altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale», così come previsto dall’art. art.8 co.3 dlgs. 25/08[1] (Amnesty International, IPSIA-ACLI, ICS e BVMN, ASGI, report del dipartimento di stato degli Stati Uniti, Human Rights Watch) nonché su un precedente comunitario specifico, riferito ad una riammissione in Grecia[2] (in esecuzione di un accordo bilaterale con quello Stato analogo a quello sottoscritto dall’Italia con la Slovenia) e sulle dichiarazioni del Ministero degli Interni che in risposta a una interrogazione ha riconosciuto che «procedure informali» sono eseguite «anche qualora sia manifestata l’intenzione di chiedere la protezione internazionale».
In sede di riesame il Tribunale di Roma in composizione collegiale ha revocato il provvedimento negando il diritto a vedere esaminata la domanda in Italia, ritenendo non provati la richiesta orale di asilo nel territorio italiano e l’accompagnamento alla frontiera senza alcuna considerazione delle fonti di conoscenza esterne al fascicolo processuale, agevolmente disponibili per chiunque e di assoluta obbligatoria valutazione da parte del giudice in forza dell’art. 8 D.Lgs. n. 25 del 2008 relativo al dovere di cooperazione istruttoria incombente sul giudice, che costituisce il cardine del sistema della prova a base dell'accertamento giudiziale delle domande di protezione internazionale.
La cifra che connota la decisione di revoca rispecchia una concezione del processo civile strutturato rigorosamente sul confronto logico formale delle tesi e degli oneri di prova che astrae da quanto non è scritto nel fascicolo, dove il giudice è un mero regolatore del flusso dialogico che conduce alla sintesi finale del giudizio. Il processo è agito come luogo separato dal contesto sociale esterno, perché questo varrebbe a garantirne il corretto funzionamento. Meccanismi molto spesso inconsciamente recepiti ed è proprio questo che spiega la frequente discrasia nei provvedimenti fra le declinazioni anche forbite di principi costituzionali e l’eccentricità delle decisioni rispetto a quegli stessi principi.
Matilde Betti ha ricordato recentemente che circa la metà delle pendenze di un Tribunale medio sono costituite da procedimenti del giudice tutelare e della sezione della protezione internazionale, relativi a diritti fondamentali della persona, in «… rapporti, non di parti autonome e uguali ma di parti in relazione asimmetriche», così che «il giudice che decide in queste materia non deve solo conoscere il diritto ... ma prima deve essere capace di comprendere il fatto, il rapporto, la relazione in modo completo e privo di quei preconcetti inconsapevoli che lo guidano nella comprensione dei fatti da decidere», con una capacità di «empatia cognitiva o intellettuale» consistente «nella capacità umana priva di valenza emotiva di comprendere i desideri, le emozioni e i sentimenti dell’altro». Procedimento cognitivo «particolarmente utile nelle decisioni in materia di protezione internazionale, dove la differenza e l’alterità del richiedente è massima e dove – conseguentemente – è altissimo il rischio nel giudicante di inconsapevoli preconcetti e fraintendimenti»[3]. Una modalità di cognizione che guida il giudice nella ricerca del fatto sottoposto al suo giudizio, ancorché estraneo alla sua esperienza diretta, perché è solo nella conoscenza dei fatti della vita destinati ad essere incisi dalla propria decisione che egli può trovare la luce idonea a trarre i principi astratti declamati nelle Carte dei Diritti.
Questa consapevolezza è da sempre parte del patrimonio culturale di Magistratura democratica e del suo impegno di politica della giurisdizione ed è in questa prospettiva che abbiamo organizzato già nel marzo scorso un momento di riflessione fra magistrati, avvocati, giornalisti, operatori di ONG e agenzie umanitarie sulle vicende reali di donne ed uomini che cercano di raggiungere il continente europeo attraverso la rotta balcanica, esistenze che si muovono tra contrapposte azioni di solidarietà e soprusi, strumentalizzazioni e violenze in loro danno[4]. E ancora in questa prospettiva della conoscenza dei fatti della realtà che ci occuperemo della tragedia epocale delle traversate della speranza e della disperazione nel nostro Mediterraneo nel convegno, organizzato in collaborazione con l’A.S.G.I. e che si terrà nei giorni 1 e 2 ottobre a Reggio Calabria dal titolo Un mare di vergogna[5], che chiunque fosse interessato a partecipare potrà seguire di persona o su piattaforma Zoom, al link https://zoom.us/j/93118375869.
Il punto di vista è naturalmente quello di un’associazione di magistrati: proveremo a misurarci con l’intrico di norme penali, civili ed amministrative, di diritto sostanziale e processuale, di rango primario e secondario, internazionale, costituzionale ed ordinario che orbitano intorno alle operazioni di soccorso in alto mare e a tracciare punti cardinali che orientino nei conflitti fra la norma incriminatrice del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art.12 T.U. sull’immigrazione), da un lato e gli obblighi che discendono da quelle fonti internazionali e sovraordinate oltre che alcune norme cardine dei sistemi penali europei, prima fra tutte quella che scrimina le azioni compiute per stato di necessità, dall’altro.
Allargando, però, il confronto a chi, per professione o per passione civile, ha indagato sugli inferni dei luoghi di provenienza dei migranti e degli Stati cui abbiamo appaltato il controllo dei flussi e a chi in prima persona si è adoperato per salvare uomini, donne e bambini dai flutti.
L’evento non sarà quindi strutturato come un “convegno per giuristi”, sarà un incontro “per magistrati”, giuristi e non giuristi ovvero mosso dall’intento di un dialogante scambio di conoscenze fra chi lavora all’interno dei Palazzi di Giustizia e chi vi accede per domandare tutela, fra chi è chiamato per funzione a “dire” il diritto e chi agisce quotidianamente i diritti nei mille luoghi in cui essi sono negati od offesi. Un accesso ai fatti di realtà per una magistratura culturalmente orientata dai principi costituzionali e volta a maturate la empatia cognitiva che dovrebbe orientare l’agire di un giudice imparziale sì rispetto alle parti del suo giudizio, ma non neutrale rispetto ai valori in gioco.
[1] Con disposizione riferita all’esame di richiesta asilo da parte delle commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, ma pacificamente applicabile anche nei procedimenti davanti all’Autorità Giudiziaria.
[2] Corte EDU causa Sharifi e Altri c. Italia E Grecia del 21 ottobre 2014.
[3] https://www.questionegiustizia.it/articolo/quali-riforme-per-una-giustizia-civile-in-cambiamento
[4] https://www.magistraturademocratica.it/articolo/in-mezzo-al-fango-e-alla-neve-la-rotta-balcanica-fuori-e-dentro-i-tribunali
[5] https://www.magistraturademocratica.it/articolo/un-mare-di-vergogna