1. Regole anagrafiche e disciplina dell’immigrazione: un cortocircuito burocratico derivante da attività amministrativa illecita
Mentre sempre più rullano i tamburi di guerra nella contesa riguardante il diritto alla residenza anagrafica dei richiedenti asilo, si perpetuano con straordinaria tranquillità, specie presso alcune questure, prassi amministrative gravemente lesive del diritto al soggiorno degli stranieri regolarmente soggiornanti. In particolare, in violazione dell’art. 5, comma 4, TUI, accade talvolta che vengano dichiarate irricevibili per difetto di competenza le domande di rinnovo del permesso di soggiorno sulla sola base della mancanza della residenza anagrafica sul territorio provinciale, così come pure risultano illegittime, se non illecite – per le diverse e ancor più evidenti ragioni che a breve si esporranno – le prassi di quelle questure che rigettano od archiviano le domande di rinnovo del permesso di soggiorno con la motivazione della mancanza dell’iscrizione all’anagrafe presso l’indirizzo di abitazione dichiarato (iscrizione, invero, non prevista dal modulo ministeriale, né imposta dalla disciplina del rinnovo del permesso di soggiorno).
Un dirigente dell’ufficio stranieri o il suo questore potrebbero ingenuamente pensare – sebbene l’ingenuità non sia propriamente una qualità richiesta dalla loro funzione – che i contratti di affitto in Italia siano tutti fiscalmente regolari e che quindi per essere iscritto all’anagrafe della popolazione residente nel comune di abitazione allo straniero sia sufficiente farne richiesta. E in effetti così parrebbe da una prima e candida lettura dell’incipit dell’art. 6, comma 7, TUI, ove è affermato che «le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani».
Ma il vero è che – anche e soprattutto a causa di recenti norme non sempre limpide e della scarsa vocazione chiarificatrice degli uffici che a ciò sarebbero deputati – allo straniero che vive e lavora sul territorio di un comune non basterà affatto farne domanda per essere iscritto entro i due giorni lavorativi dalla domanda stessa (come pure prevederebbe la legge).
Egli dovrà infatti autocertificare dettagliatamente gli estremi del contratto di godimento dell’immobile utilizzato, indicando anche i dati relativi alla sua registrazione. Solo in alcuni comuni e non in altri verrà accettata per buona la cessione di fabbricato che lo indichi nella qualità di ospite (specie se non è familiare o non lo possa dimostrare con documenti di stato civile variamente sottoposti a pretese, talvolta giuste ma più spesso sbagliate, di verifica dell’autenticità e/o di valorizzazione). In alcuni comuni gli verrà richiesta l’autorizzazione del proprietario-locatore a prendere la residenza all’indirizzo dell’immobile locato, mentre in altri verrà invece rispettata la legge, la quale prevede che il proprietario che si ingerisce in tale scelta del conduttore (di solito per opporvisi) sia sanzionabile in via amministrativa, se non addirittura perseguibile penalmente.
Se l’interessato non dispone del passaporto in corso di validità in alcuni comuni accetteranno un diverso documento di riconoscimento valido, in altri invece no. Se ha familiari con sé (o semplicemente se li ha in qualche parte del mondo), questo solo fatto complicherà l’iscrizione oltre misura in alcuni comuni, mentre in altri no. Se nel passaporto non è indicata la città di nascita, o è indicata la provincia di nascita invece della precisa località dove è nato, in alcuni comuni gli chiederanno di cambiare il passaporto o in alternativa di aggiornare il permesso di soggiorno chiedendo alla questura o alle proprie autorità nazionali che venga modificato il dato del luogo di nascita nell’uno o nell’altro documento, in altri comuni invece no. Similmente, se nel passaporto è presente, rispetto ai dati contenuti nel permesso di soggiorno, una variante di consonante o altra pur quasi impercettibile variazione nel nome o nel cognome (dovuta ad esempio alle incertezze della traslitterazione dal cirillico al latino) l’iscrizione anagrafica sarà impedita in alcuni comuni ed in altri invece no. Sorte non migliore riceverà una donna se nel passaporto è correttamente indicato il genere femminile mentre nel permesso di soggiorno (per un non così imprevedibile errore di stampa del poligrafico) è indicata la lettera che sigla la sua appartenenza al genere maschile, pur nell’esattezza di tutti gli altri dati.
L’elenco delle possibili difficoltà di iscrizione all’anagrafe potrebbe ancora continuare, ed esso non riuscirebbe comunque a dare ragione di altre importanti questioni, tra le quali quella – di cui si tratterà nel prosieguo − della iscrivibilità all’anagrafe della popolazione residente anche degli stranieri regolarmente soggiornanti che versino però nell’ambigua condizione di persona senza fissa dimora a causa della mancanza di una stabile abitazione.
Va peraltro osservato, con un occhio insistito sulla particolare condizione dei lavoratori che abitano presso i loro datori di lavoro, che spesso sono proprio questi ultimi (timorosi, talvolta, per il fatto di avere dissimulato, in tutto o in parte, il rapporto di lavoro) a negare loro la possibilità dell'iscrizione anagrafica [1]. Altre volte l'impedimento proviene invece dal locatore o dal sub-locatore, che impone al conduttore straniero l'informalità della locazione e che non di rado affitta posti-letto sovraffollando l'immobile.
2. La mancanza di residenza anagrafica non dovrebbe impedire, se si applicasse la legge, il rinnovo del permesso di soggiorno
Immaginiamo il caso di uno straniero che, pur potendo, non si sia iscritto all’anagrafe della popolazione residente nella lussuosa casa dove abita dopo aver trovato un ottimo impiego, ad esempio come direttore di un museo.
Sebbene l'omissione di dichiarazioni anagrafiche costituisca un illecito amministrativo sanzionabile con una modesta multa [2], la mancanza della residenza anagrafica non è invece considerata pregiudizievole dalla normativa sull'immigrazione riguardo alle procedure di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno, ad eccezione del rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, che attribuisce allo straniero un'autorizzazione amministrativa al soggiorno a tempo illimitato [3].
Per il rinnovo in generale del permesso di soggiorno occorre invece rifarsi all'art. 5, comma 5, TUI, ove il rifiuto del rinnovo può avvenire solo se «mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l'ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato» [4]. E poiché tra le condizioni richieste per il regolare ingresso non può esservi ovviamente l'iscrizione anagrafica (requisito impossibile a chi varca la frontiera senza ancora avere potuto chiedere il rilascio del primo permesso di soggiorno) questa non può essere pretesa, in mancanza di altra esplicita prescrizione, nel momento del rinnovo del permesso di soggiorno.
A conferma di quanto ora osservato andrebbe anche letto l’art. 42 del regolamento di attuazione del TUI, ove è stabilito che l’iscrizione al servizio sanitario nazionale (comunque consentita per tutta la durata del permesso di soggiorno e per il periodo di attesa del suo rinnovo) [5] avviene, in mancanza di un luogo di residenza, sulla base della «effettiva dimora». Al comma 2 è poi specificato che «in mancanza di iscrizione anagrafica, per luogo di effettiva dimora si intende quello indicato nel permesso di soggiorno, fermo restando il disposto dell’articolo 6, commi 7 e 8, del testo unico (…)».
Dunque la regolarità del soggiorno non è inficiata dalla mancanza di residenza anagrafica, il cui difetto non può quindi essere ragione né di revoca del permesso di soggiorno né di diniego o di archiviazione della domanda di rinnovo.
Vero è che la presenza in Italia di stranieri regolarmente soggiornanti ma anagraficamente non residenti non è un fatto in sé positivo, innanzitutto perché dalla residenza anagrafica dipende l’accesso in concreto ad una molteplicità di diritti sociali. Sarebbe però paradossale pensare di superare questo problema generatore di diseguaglianze negando in radice il diritto di soggiorno a coloro che ne sono le prime vittime perché impediti, da una serie di disfunzioni e di cattive prassi, ad iscriversi all’anagrafe.
La pur scarsa giurisprudenza sul punto pare piuttosto netta. In particolare va al riguardo richiamata una decisione del Tar del Lazio che ha annullato un provvedimento di revoca del permesso di soggiorno motivato dalla questura con il sopravvenire di una nota del comune di Viterbo che aveva a sua volta rigettato la domanda di iscrizione anagrafica dello straniero all’indirizzo da lui indicato. Nel suo ricorso lo straniero ha però dimostrato la propria effettiva dimora a tale indirizzo ed il giudice amministrativo ha ritenuto che la vertenza anagrafica ancora pendente tra lo straniero ed il comune di Viterbo non riguardasse la diversa questione della regolarità del soggiorno, data l’estraneità della residenza anagrafica alla disciplina del soggiorno stesso [6].
3. Sui casi nei quali l’indirizzo di abitazione non coincide con una iscrizione anagrafica ancora in essere. Può uno straniero essere iscritto all’anagrafe come persona senza fissa dimora abitando un alloggio di fortuna?
Ci si aspetterebbe, ovviamente, la coincidenza dell’indirizzo dell'abitazione dichiarata al momento del rinnovo del permesso di soggiorno con l'indirizzo di iscrizione anagrafica. Può tuttavia accadere che dopo avere lasciato l'abitazione dove aveva già fissato la propria residenza anagrafica lo straniero reperisca, magari temporaneamente, un alloggio presso il quale non gli sia consentito ottenere la residenza anagrafica ma che non di meno è il suo attuale indirizzo di abitazione, che egli avrebbe l’obbligo di comunicare tempestivamente all’autorità di polizia ai sensi dell’art. 6, comma 8, TUI e che dovrebbe altresì indicare nella domanda di rinnovo del permesso di soggiorno per non formulare una falsa dichiarazione.
In tali casi la questura potrà pretendere che lo straniero si attivi, ove non l’abbia già fatto, per ottenere la coincidenza tra i due indirizzi mediante una dichiarazione di mutazione anagrafica che, da sola, se completa, esaurisce l’obbligo dichiarativo sollecitato anche nel caso in cui il comune non provveda (come invece sarebbe d’obbligo) alla tempestiva variazione nei registri anagrafici.
Ma potrebbe esservi almeno un’altra diversa e legittima ragione della non coincidenza tra l’indirizzo indicato nella domanda di rinnovo del permesso di soggiorno e quello risultante nei registri anagrafici. Lo straniero potrebbe infatti essere iscritto all’anagrafe mediante l’utilizzo dell’indirizzo solo virtuale (alla via territorialmente non esistente all’uopo istituita dal comune) riservato dalla legge 1224 del 1956 e dal dPR 223 del 1989 alle persone senza fissa dimora e/o senza tetto, tanto più che oggi, a seguito di una ben stratificata (e a tratti incoerente) modifica di tale istituto anagrafico, l’iscrizione per domiciliazione nella via virtuale all’anagrafe della popolazione residente riguarda una platea di persone ben più ampia delle sole persone materialmente prive di un tetto, consentendo l’apparente contraddizione dell’essere senza un tetto anagrafico pur disponendo di un tetto reale presso il quale esercitare la reperibilità anche ai fini di polizia [7].
Che tale esito normativo non sia ragionevole è fuor di dubbio, ma il suo superamento dovrebbe avvenire non attraverso la cancellazione dai registri di una parte piccola o grande dei residenti, ma consentendo all’anagrafe di adeguarsi alla realtà dell’effettivo abitare sul territorio comunale degli interessati, smettendo, se possibile, di introdurre ostacoli disciplinari al pieno adempimento della funzione demografica da parte del sistema anagrafico nazionale.
Lo stesso Ministero dell’interno, in una sua circolare del 18 maggio 2015, ha riconosciuto la facoltà per il cittadino straniero di essere iscritto anagraficamente alla via virtuale per persone senza fissa dimora, valutandone positivamente l’utilizzo soprattutto nei casi in cui persone titolari di protezione internazionale si trovino del tutto prive di un’abitazione. Tale circolare ha anche colto l’occasione per ricordare come la regola che per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno determina la competenza della questura del luogo di effettiva dimora non possa andare a scapito della libertà di circolazione, oltre che di residenza, del cittadino straniero regolarmente soggiornante, e specialmente del protetto internazionale [8].
Pare utile, al riguardo, segnalare un’interessante decisione del giudice amministrativo che ha dichiarato illegittimo un decreto di rigetto della istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato, motivato con riferimento alla mancanza di disponibilità di un alloggio perché detenuto solo con «clausola di destinazione turistica e temporanea» (dunque per non residenti), ritenendo invece il giudice che ciò non inficiasse il fatto della detenzione materiale di un'abitazione, in ossequio alle norme all'epoca vigenti che richiedevano la stipula del contratto di soggiorno (e dunque anche la disponibilità di un alloggio) pure ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno [9].
4. Una prassi caratterizzata da profili di più grave illiceità: il diniego del rinnovo (o dell’aggiornamento) del permesso di soggiorno per mancanza della residenza anagrafica in danno del protetto internazionale (e negli altri casi di protezione speciale)
Non da oggi, ma, sia pure con studiata intermittenza, sino almeno dall’inverno 2014/15 alcune questure (come si comprende dalla giurisprudenza che tali prassi ha puntualmente sconfessato, ma non ancora sanzionato) hanno preteso dai cittadini stranieri, inclusi i titolari di protezione internazionale, il possesso di una posizione anagrafica attuale coincidente con l’indirizzo di effettiva abitazione sul territorio della provincia. Se per le ragioni già esaminate tale richiesta è da ritenersi illegittima riguardo alla più ampia platea degli stranieri, lo è tuttavia in modo più pronunciato per i titolari di protezione internazionale, cui forse andrebbero assimilati anche i titolari dei casi di protezione speciale oggi ancora riconoscibili pur dopo l’abolizione della più favorevole disciplina della cosiddetta protezione umanitaria.
A rendere più grave l’illiceità di tali prassi sta l’ovvia considerazione che il rilascio del permesso di soggiorno ed il mantenimento della sua validità nel tempo mediante le procedure di aggiornamento o di rinnovo costituiscono le prime e più basiche modalità di adempimento del dovere di protezione gravante sullo Stato competente in base al diritto internazionale e soprattutto europeo dell’asilo [10], in adempimento del quale l’art. 23 del d.lgs n. 251 del 2007 prevede che sia rilasciato un permesso di soggiorno per asilo con validità quinquennale incondizionatamente rinnovabile (salvo il ricorrere di speciali preclusioni tassativamente previste) ai titolari dello status di rifugiato; ed un permesso di soggiorno anch’esso di validità quinquennale, rinnovabile previa verifica della permanenza delle condizioni che hanno consentito il riconoscimento della protezione sussidiaria agli altri titolari di protezione internazionale.
Il rinnovo del titolo di soggiorno dipende dunque esclusivamente dal permanere delle ragioni della protezione, non potendo trovare ostacolo nell’esame di requisiti dai quali già in pendenza della domanda di asilo il futuro rifugiato o protetto sussidiario era stato escluso, come ben ribadito dall’art. 9, comma 6 del regolamento di attuazione del TUI.
A sovrabbondante conferma di ciò può del resto invocarsi l’art. 22 del d.lgs n. 251 del 2007, ove è stabilito che ai familiari del rifugiato e del protetto sussidiario che non abbiano essi stessi diritto alla protezione è rilasciabile un permesso di soggiorno per motivi familiari ai sensi dell’art. 30 TUI, mentre quelli non ancora presenti sul territorio nazionale sono ricongiungibili al titolare di protezione internazionale ai sensi dell’art. 29-bis TUI, vale a dire, in particolare, con esenzione dai requisiti di reddito e di alloggio.
Questa nostra disciplina è solo in parte il frutto delle convinzioni del legislatore italiano, costituendo altresì il necessario, ancorché perfettibile, precipitato della disciplina convenzionale ed europea di cui va ricordata, in primo luogo, la tassatività dei casi nei quali è consentito ad uno Stato membro di revocare, di cessare o di rifiutare il rinnovo o il rilascio di un permesso di soggiorno di un rifugiato. Detti casi sono previsti dall’art. 21 e dall’art. 24 della Direttiva 26 giugno 2013, n. 32 e si hanno:
a) quando vi siano ragionevoli motivi per considerare che (l’interessato) rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato membro nel quale si trova (art. 21, comma 2);
b) quando, essendo stato condannato con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità, costituisce un pericolo per la comunità di tale Stato membro (art. 21, comma 2);
c) quando ostino al rinnovo imperiosi motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico (art. 24, comma 1).
Il sistema europeo di asilo incorpora così in sé stesso, sia pure superandola nella prospettiva di una maggiore e più ampia tutela, la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 28 luglio 1951, al cui art. 27 è fatto obbligo agli Stati di assicurare alle persone protette il rilascio «dei documenti di identità», ciò che presuppone il mantenimento dell’autorizzazione al soggiorno.
5. Sulla (relativa) inutilità della giurisprudenza di mero annullamento dei provvedimenti amministrativi che violano i diritti di soggiorno e di residenza
L’infondatezza delle prassi amministrative sin qui segnalate non solo è sembrata palese a chi scrive, ma nei lunghi anni nei quali è stata lasciata libera di manifestarsi da chi avrebbe dovuto mettere loro fine ha trovato ripetute smentite e contraria giurisprudenza; quest’ultima consolidata e numerosa, anche se non pubblicata e dunque poco conosciuta anche, in parte, a chi scrive [11].
Personalmente non mi pare tollerabile che, nel momento in cui il legislatore dell’immigrazione sta ponendo mano con energia e durezza considerevoli alla materia dell’immigrazione, alcune questure “sfoltiscano” le file dei richiedenti il rinnovo del permesso di soggiorno dichiarando irricevibili le domande mancanti di un requisito inesistente, in quanto più che saggiamente non richiesto dalla legge.
La residenza anagrafica, tra l’altro, è da tempo oggetto di una via crucis amministrativa presso gli sportelli anagrafici comunali che affligge sia i residenti di alcune grandi città – ed in primis la Capitale [12] – sia gli abitanti di alcuni comuni non grandi ma talvolta repulsivi verso i loro nuovi residenti.
Il giudice, chiamato a decidere sui provvedimenti di irricevibilità o di diniego delle domande di rinnovo del permesso di soggiorno, dovrebbe dunque considerare quanto pochi siano i casi che giungono alla sua attenzione rispetto alla ben più grande massa di coloro che hanno subito e forse ancora subiranno l’ingiustizia senza proporre ricorso, per buona fede, ignoranza, mancanza di consiglio oppure per difficoltà a reperire per tempo un buon avvocato.
Una prassi amministrativa pur gravemente illegittima non troverà certo freno in qualche decisione che, compensando le spese, restituisca dilazionata nel tempo, e solo ad alcuni una ragione costata loro attese angosciose (come si vive temendo che il proprio permesso di soggiorno sia ormai perduto?) e perdite economiche difficilmente risarcibili.
Due sono quindi le possibili vie di uscita alternative alla sempre sperabile ma poco affidabile resipiscenza del cattivo interprete istituzionale: la moltiplicazione dei ricorsi (con le connesse conseguenze ed esternalità negative, incluso il sovraccarico dei tribunali) [13], oppure una più vigorosa censura del negligente (o forse infedele) amministratore il cui illegittimo operato, danneggiando serialmente un’ampia platea, non solo produce un esteso danno sociale ma anche, di certo, un danno erariale che andrebbe segnalato e sanzionato.
Tale prospettiva, auspicabile riguardo all’illecita attività amministrativa connessa ai (mancati) rinnovi dei permessi di soggiorno dovrebbe però anche valere – si consenta qui di osservarlo per inciso – anche per quegli uffici anagrafici comunali che violano sistematicamente il diritto alla residenza anagrafica della loro utenza più fragile.
6. Alcune considerazioni sulla nuova disciplina della residenza anagrafica riguardo ai richiedenti asilo (e ai protetti internazionali)
L’art. 13 del decreto legge n. 113 del 4 ottobre 2018 ha modificato radicalmente la condizione giuridico-anagrafica dei richiedenti asilo, i quali oggi, a mio parere, non sono più legittimati all’iscrizione nei registri della popolazione residente, a meno che non fossero già titolari, al momento della richiesta di asilo, di un diverso permesso di soggiorno.
Detta norma ha infatti novellato l’art. 4 del d.lgs n. 142 del 2015, a termini del quale, ora, «il permesso di soggiorno [per richiesta di asilo] non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 e dell’art. 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286».
La scelta del legislatore – pur discutibile – è tuttavia chiara, sebbene tecnicamente abborracciata e priva dell’affermazione letterale secondo cui i richiedenti asilo non possono iscriversi all’anagrafe. D’altra parte non v’è dubbio che presso i consiglieri del Principe il possesso del permesso di soggiorno e la condizione giuridica di regolarità del soggiorno sono considerati interamente equivalenti, sicché per il legislatore storico il nuovo art. 4 d.lgs 142/2015 costituisce un’eccezione esplicita all’art. 6, comma 7, d.lgs 286/1998 [14].
Detta eccezione è del resto coerente con l’idea che non vada in alcun modo promossa l’inclusione sociale dei richiedenti asilo poiché si tratta di persone in ampia parte destinate a ricevere il diniego della domanda di protezione internazionale e dunque a perdere entro un arco temporale a dire il vero sino ad oggi piuttosto variabile (dai sei mesi a due anni) il diritto a soggiornare legalmente in Italia.
Poiché il legislatore nel caso che ci occupa fa di mestiere il Ministro degli interni, è abbastanza plausibile che la rappresentazione della realtà ora brevemente riportata (pur se inesatta sino ad oggi) costituisca anche una profezia pronunciata da chi ha, almeno in parte, il potere di realizzarla (le commissioni per il riconoscimento dello status di protezione internazionale sono infatti composte, prevalentemente, da funzionari del Ministero dell’interno, certamente preparati ma non del tutto indipendenti rispetto alle sue direttive).
Su questo “pessimismo previsionale perseguito” riguardo alla sorte giuridica dei richiedenti asilo si basa del resto, oltre che l’abolizione dell’iscrizione anagrafica, anche il programma di eliminazione o quanto meno di fortissima riduzione dei servizi culturali presso i centri di accoglienza (ad essere falciati, probabilmente, saranno soprattutto i corsi di lingua italiana), nonché la decisione di eliminare dai progetti di accoglienza l’accesso a corsi professionali specificamente previsti [15].
In modo verosimilmente coerente con la decisione di eliminare l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, l’art. 13 del decreto Legge ha anche abrogato l’art. 5-bis del d.lgs n. 142/2015, ove si disponeva che: «Il richiedente protezione internazionale ospitato nei centri [di accoglienza] è iscritto nell'anagrafe della popolazione residente ai sensi dell'articolo 5 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, ove non iscritto individualmente» [16].
Il lapalissiano ragionamento è senza dubbio quello secondo cui se il richiedente asilo non è legittimato alla residenza non lo è nemmeno nel caso, piuttosto comune, che egli dimori in un centro di accoglienza. Se questa è certamente l’evidente ratio dell’intervenuta abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs 142/2015, va tuttavia osservato come, limitandosi ad un mero intervento demolitivo, il legislatore abbia fatto venire meno una disposizione che, pur rivolgendosi esplicitamente ai soli richiedenti asilo, coinvolgeva però indirettamente ma necessariamente anche quelli che avevano ottenuto ed ancora in futuro otterranno il riconoscimento della protezione internazionale.
In effetti una volta riconosciuti rifugiati o titolari di protezione sussidiaria, gli stranieri che hanno richiesto asilo non sono esclusi nemmeno oggi dal diritto/dovere della dichiarazione anagrafica, che essi eserciteranno sulla base del possesso di un permesso di soggiorno di durata quinquennale per rifugiato o per protetto sussidiario indicando il luogo della loro effettiva dimora, il quale sarà spesso costituito, almeno nel primo periodo dopo il riconoscimento della protezione, da un centro di accoglienza.
A tali situazioni alloggiative si applicava sino a ieri l’ormai abrogato art. 5-bis, d.lgs 142/2015, il quale aveva alcuni evidenti pregi, anche se forse non da tutti apprezzati, tra cui l’esplicito rafforzamento delle responsabilità del direttore del centro riguardo alle variazioni anagrafiche in ingresso ed in uscita, nella sua qualità di responsabile della convivenza anagrafica; nonché la certezza della qualificazione del centro stesso come luogo di stabile dimora ai fini dell’iscrizione anagrafica, con la conseguente improponibilità di rinvii ed inadempienze da parte soprattutto di quegli enti gestori e di quei comuni restii a fare risultare all’anagrafe le accoglienze effettivamente realizzate.
Va tuttavia considerato come tutto ciò che l’art. 5-bis, d.lgs 142/2015 dettagliava con meritoria esplicitezza oggi lo si possa comunque ritrovare come ovvio precipitato dei princìpi e delle regole comuni in materia anagrafica.
Vero è, in particolare, che a tutt’oggi il centro di accoglienza della rete SPRAR è una convivenza anagrafica a termini dell’art. 5, dPR n. 223/1989; vero è, di conseguenza, che il suo direttore è il responsabile della convivenza anagrafica ed è tenuto a presentare tempestivamente le dichiarazioni anagrafiche riguardanti gli ospiti ammessi al centro, i quali non avrebbero diritto all’accoglienza se avessero una diversa residenza in Italia e dunque non possono che essere residenti presso il centro stesso sin dal primo giorno. Vero è, infine, che l’omissione della dichiarazione anagrafica, se è scusabile in capo ai singoli ospiti, probabilmente ignari di ciò che dispone la disciplina anagrafica, non lo è affatto né in capo all’imprenditore dell’accoglienza che ben dovrebbe conoscere le leggi correlate a tale attività [17], né in capo allo stesso ufficiale di anagrafe che sappia dell’esistenza del centro di accoglienza sul territorio del comune e non si preoccupi di verificare d’ufficio l’avvenuta iscrizione degli ospiti oppure, ancor peggio, si mostri restio all’iscrizione una volta che questa sia richiesta nei modi di legge dai diretti interessati o dal responsabile della convivenza. In tal caso la responsabilità sarà di natura disciplinare, salva restando l’eventuale azione per i danni civili [18].
7. L’esclusione (controversa) dall’iscrizione anagrafica e la tutela dei diritti dei richiedenti asilo
Un duro confronto tra alcuni sindaci ed il Ministro Salvini ha avuto inizio nei primi giorni del 2019 riguardo ai propositi dei primi di disapplicare il decreto legge n. 113 nei loro territori. Lo scontro è stato poi da alcuni stemperato deviandolo sul più composto terreno del ricorso al giudice al fine di sollevare la questione della illegittimità costituzionale per violazione dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo e per violazione del principio di eguaglianza.
Ci si è chiesti – ed è forse questa l’ipotesi fugacemente allusa da Sabino Cassese [19] − se si possa profilare un conflitto tra norme [20], o piuttosto una violazione del principio di eguaglianza, per il fatto che mentre l’art. 6, comma 7 TUI afferma il diritto alla residenza degli stranieri regolarmente residenti, il decreto Salvini la esclude solo per i richiedenti asilo nonostante essi siano titolari di un permesso di soggiorno [21].
Al riguardo l’interprete deve porsi una molteplicità di interrogativi. Mi limito ad elencarne tre: Il carattere provvisorio del permesso di soggiorno dato al richiedente asilo (nonché la circostanza che tale permesso di soggiorno sia consequenziale al divieto di refoulement) giustifica una differenziazione di effetti tale da escludere – unico caso espressamente previsto − il diritto all’iscrizione anagrafica? Quali sono in concreto i diritti il cui esercizio è impedito al richiedente asilo in conseguenza del diniego della residenza anagrafica? In definitiva, può ipotizzarsi un diritto costituzionalmente protetto del richiedente asilo alla residenza?
In tale ultimo senso è stato affermato che «consentire allo straniero l’esercizio della libertà di soggiorno, che l’art. 16 Cost. riserva ai soli cittadini, e di contro negargli la libertà di domicilio, alla prima strettamente correlata e che l’art. 14 Cost. considera libertà inviolabile di ogni persona, costituisce una palese e irragionevole discriminazione nell’esercizio e nel godimento di una libertà fondamentale, lesiva quindi degli artt. 2 e 3.1 Cost.» [22]. L’argomentazione rischia però di condurre ad esiti opposti a quelli in ordine ai quali è stata presentata in quanto, a veder bene, il diritto alla residenza non trova il suo riferimento costituzionale nell’art. 14 bensì proprio nella libertà di circolazione di cui all’art. 16 Cost., che l’autore citato riferisce ai soli cittadini, ma che invece non sembra irragionevole riferire a tutti i soggetti titolari previamente autorizzati al soggiorno in Italia, nel rispetto, o meglio, «salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità e di sicurezza». L’art. 14 Cost assume invece una nozione di domicilio – diversa da quella civilistica − da intendere come immediata estensione spaziale dell’intimità della persona (la cui abitazione, ad esempio, non potrà quindi essere perquisita al di fuori dei casi previsti dalla legge) [23]. Pertanto ad essere inviolabile, più che la libertà del domicilio, è il domicilio stesso ove non sussista una specifica giustificazione che invece ne legittimi l’invadenza.
Se dunque è vero che l’inviolabilità del domicilio è norma di libertà posta a tutela di ogni persona, pure è vero che non è su di essa che conviene poggiarsi per affermare il diritto alla residenza anagrafica, che abbiamo invece visto principalmente riconducibile all’art. 16 Cost., il cui ambito soggettivo di applicazione non può non riguardare anche gli stranieri regolarmente soggiornanti, dovendo intendersi anche in questo caso l’espressione «cittadino» utilizzata dal Costituente nel suo più universalistico senso consegnatoci dalla rivoluzione borghese e depositatosi nel linguaggio giuridico successivo. Essa è dunque riferibile a tutti i membri della comunità dei residenti nel Paese [24].
Più suggestiva è una seconda argomentazione proposta nel medesimo commento al dl n. 113 del 2018, secondo cui «lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia e il presente testo unico dispongano diversamente» (art. 2.2, d.lgs 286/1998) per cui «una volta che il diritto a soggiornare (...) non sia in discussione, non si possono discriminare gli stranieri, stabilendo, nei loro confronti, particolari limitazioni per il godimento dei diritti fondamentali della persona, riconosciuti invece ai cittadini (Corte cost., 306/2008, § 10)».
Ad essere di pregio non è qui l’affermazione del principio di eguaglianza nel godimento dei diritti civili dei cittadini italiani e stranieri regolarmente soggiornanti, certamente discendente dallo stesso art. 2 Cost., sia pure sulla base di un non facile e a tratti tortuoso itinerario interpretativo ed anche legislativo, di cui proprio l’art. 2 TUI costituisce l’esito ad oggi più evoluto [25].
L’iscrizione anagrafica non è infatti riducibile ad un diritto civile in senso stretto ma ad una posizione per certi versi assimilabile ad uno status, da cui promana una molteplicità di diritti e doveri sociali (e, ma questa è tutt’altra vicenda, politici). Il punto per noi centrale è che non pochi di tali diritti sono qualificabili come diritti fondamentali certamente spettanti anche al cittadino straniero.
In effetti, se l’art. 2 Cost. riconosce i diritti inviolabili della persona, mentre l’art. 2 TUI assicura che il godimento dei diritti fondamentali sia assicurato a tutti gli stranieri comunque presenti (e cioè privi di autorizzazione al soggiorno), a maggior ragione tali diritti devono essere riconosciuti ai richiedenti asilo, che sono titolari di un permesso di soggiorno.
Ciò vale in primo luogo per le prestazioni scolastiche intese in senso ampio, mentre anche l’iscrizione al servizio sanitario nazionale non è condizionata, come già poc’anzi ho ricordato, al possesso della residenza anagrafica, ma alla sola regolarità del soggiorno, fermo restando il diritto alle cure essenziali anche per gli irregolari, categoria di cui però i richiedenti asilo non fanno parte.
Ci sono inoltre alcuni diritti e prestazioni sociali necessariamente riconosciuti ai richiedenti asilo, a prescindere dalla loro riconducibilità alla categoria dei diritti fondamentali e/o inviolabili della persona, per la cui pratica attuazione tuttavia il welfare pubblico fa normalmente riferimento alla residenza anagrafica. Si pensi ad esempio all’inserimento dei figli negli asili e scuole materne, o alle tariffe nei trasporti agevolate rispetto ai non residenti. In altri casi, poi, la residenza anagrafica svolge un ruolo misterioso (perché non derivante dalla legge) ma effettivo, come nelle procedure di assunzione, a cui peraltro i richiedenti asilo sono legittimati sin dal compimento dei due mesi successivi alla domanda di protezione, mentre un problema è pure costituito dall’illegittimo rifiuto delle banche di aprire conti correnti a non residenti, la qual cosa può a sua volta determina problemi nel pagamento del salario − che molti datori di lavoro svolgono ormai, necessariamente, mediante bonifico – e dunque scoraggia od impedisce l’assunzione del lavoratore richiedente asilo.
Pare inoltre contraddittorio che il richiedente asilo, pur legittimato dalla legge ad assumere un impiego, possa vedersi negato l’accesso all’iscrizione al centro per l’impiego e dunque alle politiche attive del lavoro, nonché allo stato di disoccupazione, perché mancante del requisito della residenza anagrafica [26].
Sono queste più dettagliate situazioni di legittimo interesse (vera carne dei diritti di residenza in senso sociale ed economico) che danno sostanza alle proteste contro l’esclusione dei richiedenti asilo dall’iscrizione nei registri della popolazione residente; anche se, come è stato bene messo in luce da altri, esiste un prepotente quanto illecito abuso della richiesta della residenza anagrafica là dove la legge non lo prevede o addirittura lo escluderebbe [27].
Ad ogni modo, sia che si intenda sostenere l’incostituzionalità dell’esclusione del richiedente asilo dall’iscrizione nei registri della popolazione residente, sia che si voglia contrastare per altra via la sua consequenziale esclusione dai diritti sociali normalmente connessi all’iscrizione anagrafica il primo e fondamentale passo da compiere dovrebbe necessariamente muovere dalle avare ma significative parole introdotte dal decreto legge n. 113 al d.lgs n. 142 del 2015 (nuovo testo) che oggi, dopo avere sancito all’art. 4, comma 1-bis, che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo «non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica» tuttavia afferma poi al successivo art. 5, comma 3, che «l’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio».
Quest’ultima disposizione non andrebbe sminuita – come di certo ad alcuni piacerebbe - ma sottoposta ad un’interpretazione costituzionalmente orientata che, tra l’altro, comprenda nel termine «servizi» la più ampia sfera possibile dei diritti sociali di cui sono debitori e garanti sia gli enti locali che le diverse amministrazioni dello Stato, nella loro disseminazione territoriale.
Si potrebbe dunque sostenere che almeno una delle due seguenti ipotesi sia vera: che ogni norma di legge o regolamentare la quale contempla il requisito di residenza anagrafica è da leggersi nei riguardi del richiedente asilo sostituendo tale requisito con quello del suo domicilio; oppure che l’esclusione del richiedente asilo dalla residenza anagrafica è incostituzionale perché esclude in modo surrettizio e discriminatorio tale soggetto dal godimento di diritti che la stessa legge ed anche il sistema europeo dell’asilo invece mostrano di riconoscergli, o che comunque gli spettano in quanto regolarmente soggiornante in Italia.
Nel primo caso il nuovo art. 5, comma 3, d.lgs 142/2015 andrebbe dunque valorizzato – malgrado la sua genericità, o forse proprio grazie ad essa – come criterio di legittimazione a disposizione dei sindaci e di tutti gli amministratori intenzionati a tutelare davvero i diritti dei richiedenti asilo, ma anche come “criterio di costrizione” anche nei riguardi dei sindaci stessi (dato che proprio da una parte consistente di loro è venuto l’input politico all’esclusione dei richiedenti asilo dall’anagrafe dei residenti) utilizzabile in sede giurisdizionale contro la negazione diretta od obliqua dei diritti sociali. Nel secondo caso, invece, per sostenere l’incostituzionalità dell’esclusione dei richiedenti asilo dalla residenza anagrafica andrebbe dimostrata, in premessa, l’inidoneità dell’art. 5, comma 3, d.lgs n. 142/2015 a costituire norma di efficace sostituzione del requisito di domicilio al requisito di residenza anagrafica, ad esempio sostenendone il tratto meramente declamatorio e/o la sua soccombenza di fronte alle disposizioni di pari rango o di altre discipline che invece continuano a richiedere il requisito della residenza anagrafica per l’accesso ai benefici di volta in volta previsti.
Le due prospettive peraltro, proprio perché teoricamente alternative, sono certamente cumulabili sul piano pratico, offrendo un doppio binario (domanda in via principale e sua alternativa in via subordinata) di tutela al richiedente asilo escluso da un servizio o da una prestazione sociale [28].
Ad esempio, potrebbe ragionevolmente sostenersi che il requisito di residenza anagrafica previsto dall’art. 11, d.lgs n. 150/2015 in materia di accesso alle politiche ed ai servizi per il lavoro debba oggi intendersi surrogato dal requisito di effettivo domicilio del richiedente asilo proprio in forza del nuovo art. 5, comma 3, d.lgs 142/2015. Ma nel caso in cui la surrogazione della residenza tramite il domicilio non dovesse trovare l’approvazione dell’interprete, allora dovrebbe essere rilevata l’incostituzionalità della norma abrogatrice della residenza per i richiedenti asilo (o meglio del combinato disposto tra l’art. 11, d.lgs n. 150/2015 e l’art. 4, comma 1-bis, d.lgs 142/2015) in quanto impedisce al richiedente asilo autorizzato al lavoro (in forza di una disciplina nazionale che recepisce sul punto il diritto derivato europeo in materia di asilo) di accedere a servizi che spettano alla generalità delle persone autorizzate al lavoro.
[1] Seppure il conduttore straniero volesse rendere la dichiarazione anagrafica nonostante il dissenso del datore di lavoro convivente o del locatore (con la sicura prospettiva di essere licenziato in tronco, o cacciato dall'appartamento, o peggio ancora) si troverebbe di fronte ad un banale ma dirimente ostacolo procedimentale. Infatti, il modulo ministeriale da compilare al momento della dichiarazione anagrafica prevede che il dichiarante vi indichi i dati anagrafici delle persone già iscritte all'anagrafe presso la medesima sua abitazione. Tali persone sono certamente interessate al procedimento di iscrizione anagrafica dello straniero loro conduttore od ospite; e dunque l'ufficiale di anagrafe dovrebbe far pervenire loro comunicazione del procedimento perché possano eventualmente intervenirvi per far valere i loro interessi (su tale punto sembra esservi unanime opinione degli operatori. Cfr., per tutti, G. Pizzo, Controinteressati nelle procedure anagrafiche, in Lo stato civile italiano, 2014, 5, pp. 26 ss. N. Corvino, Le occupazioni abusive e i risvolti anagrafici, in I servizi demografici, 2014, 6, p. 19; L. Palmieri e R. Minardi, Speciale anagrafe. La nullità dell'iscrizione anagrafica in immobili occupati abusivamente. prima parte. I principi generali, in I servizi demografici, 2014, 9, p. 49), ma in via di fatto è diffusa negli uffici la prassi di far constare il loro preventivo assenso.
[2] Detta sanzione, non superiore nel massimo a circa 200 euro, è prevista dall'art. 11 della legge n. 1228/1954.
[3] A termini dell'art. 16, comma 2, lett. c) del dPR n. 394/1999, ove il riferimento è tout court alla residenza (intesa però come residenza anagrafica dall'Amministrazione dell'Interno). Quanto al più specifico obbligo di rinnovare all'ufficiale di anagrafe la dichiarazione di dimora abituale nel comune, entro 60 giorni dal rinnovo del permesso di soggiorno di cui all'art. 7 del dPR n. 223/1989 (regolamento anagrafico), si tratta certamente di un onere che, se inadempiuto, può condurre alla cancellazione anagrafica ma non certo alla revoca del permesso di soggiorno od al diniego del suo rinnovo.
[4] La norma attenua nelle successive parole tale severa prescrizione facendo «salvo quanto previsto dall'art. 22, comma 9 e sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio e che non si tratti di irregolarità amministrative sanabili». Viene inoltre disposto che «nell'adottare il provvedimento di rifiuto del rilascio, di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, ai sensi dell'articolo 29, si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato e dell'esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d'origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale».
[5] Agli stranieri privi di autorizzazione al soggiorno è comunque assicurato l’accesso alle prestazioni di cura essenziali senza però che possano iscriversi al Ssn.
[6] Tar Lazio, 19 luglio 2012, in http://www.immigrazione.biz/sentenza.php?id=1785, nonché http://www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-e-asilo/2012/agosto/tar-lazio-iscr-anagr.pdf, entrambi verificati il 1° gennaio 2019.
[7] Sul punto sia consentito rinviare a P. Morozzo della Rocca, I luoghi della persona e le persone senza luogo, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2017, pp. 39 ss.
[8] Circolare del 18 maggio 2015, proveniente dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, a firma del Capo Dipartimento
[9] Tar Emilia-Romagna, Bologna, 25 ottobre 2006, n. 2818.
[10] Tanto più riguardo ad un Paese che non sembra avere assicurato quel più articolato livello della protezione pur auspicato dal diritto internazionale e da quello dell’Unione in materia di adeguate politiche di protezione sociale, del lavoro e della casa.
[11] Giurisprudenza che, a conoscenza di chi scrive, si concentra sul Lazio perché è proprio presso la Questura di Roma che le prassi qui stigmatizzate hanno avuto prevalentemente sviluppo, come del resto evidenziato dalla stessa circolare del Ministero dell’interno del 18 maggio 2015 citata in precedenza. Tra le decisioni che l’autore ha avuto occasione di leggere si segnalano le seguenti, tutte favorevoli ai titolari di protezione internazionale ricorrenti contro il decreto di irricevibilità della loro domanda di rinnovo del permesso di soggiorno per la mancanza di un indirizzo di residenza anagrafica: Trib. Roma, 4 novembre 2016, r.g. n. 39273/2015; Trib. Roma, 12 gennaio 2017, n. 873; Trib. Roma, 27 marzo 2017, n. 6356; Trib. Roma, 5 luglio 2017, n 14102.
[12] Sul caso di Roma sia consentito il rinvio a P. Morozzo della Rocca, I luoghi della persona e le persone senza luogo, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2017, pp.77 ss.
[13] I Tar ed il Consiglio di Stato per i rinnovi dei soggiorni in generale, le sezioni specializzate presso il Tribunale civile sede di Corte d’Appello per i permessi di soggiorno aventi invece titolo nell’asilo o nel diritto all’unità familiare.
[14] Abilmente si è tentato di fare leva sulla rozzezza dell’espressione per negarle il significato che tuttavia, purtroppo, mi pare resti piuttosto palese. Mi riferisco, principalmente, al contributo di D. Consoli e N. Zorzella, L’iscrizione anagrafica e l'accesso ai servizi territoriali dei richiedenti asilo ai tempi del salvinismo, in questa Rivista on-line, postato in data 8 gennaio 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/l-iscrizione-anagrafica-e-l-accesso-ai-servizi-territoriali-dei-richiedenti-asilo-ai-tempi-del-salvinismo_08-01-2019.php.
[15] L’art. 12 del dl n. 113/2018 ha infatti pure abrogato l’art. 22, comma 3 del d.lgs n. 115/2015, ove era sino ad oggi disposto che «I richiedenti, che usufruiscono delle misure di accoglienza erogate ai sensi dell'articolo 14, possono frequentare corsi di formazione professionale, eventualmente previsti dal programma dell'ente locale dedicato all'accoglienza del richiedente».
[16] Continuava la norma ora abrogata disponendo altresì:
«2. È fatto obbligo al responsabile della convivenza di dare comunicazione della variazione della convivenza al competente ufficio di anagrafe entro venti giorni dalla data in cui si sono verificati i fatti. 3. La comunicazione, da parte del responsabile della convivenza anagrafica, della revoca delle misure di accoglienza o dell'allontanamento non giustificato del richiedente protezione internazionale costituisce motivo di cancellazione anagrafica con effetto immediato, fermo restando il diritto di essere nuovamente iscritto ai sensi del comma 1».
[17] Sul versante anagrafico dovrebbe trovare applicazione nei riguardi del responsabile della convivenza negligente la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’art. 11 della legge n. 1228/1954, moltiplicata per il numero degli ospiti non segnalati. Sul versante dei rapporti con l’Amministrazione appaltante non v’è dubbio che l’omissione anagrafica costituisca inadempimento dei doveri prestazionali dell’appaltatore.
[18] È stata posta la questione dell’esistenza o meno di un diritto a conservare la posizione anagrafica già acquisita sotto il vigore della precedente disciplina da parte dei richiedenti asilo che ad oggi non siano ancora riconosciuti ma nemmeno definitivamente denegati (ad esempio perché ricorrenti). Si tratta indubbiamente di una platea solo temporaneamente presente nei registri anagrafici della popolazione residente per la quale sarebbe per lo meno azzardato procedere in automatico alla cancellazione dai registri anagrafici proprio in ragione del principio di irretroattività della legge. La lettera della norma [«Il permesso di soggiorno (ndr: per richiesta di asilo) non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica»] porta l’interprete a ritenere che il legislatore abbia voluto impedire “solo” le nuove iscrizioni anagrafiche dei richiedenti asilo, senza intervenire sulle posizioni anagrafiche già esistenti.
[19] Su Il Mattino del 3 gennaio 2019.
[20] Che però personalmente riterrei escluso, in quanto il nuovo testo dell’art. 4 d.lgs 142/2015 ad opera del dl n. 113/2018 è norma sia speciale che successiva rispetto all’art. 6, comma 7 TUI, che pertanto non viene affatto abrogato ma solo limitato nella sua applicazione.
[21] In tal senso, infatti, vedi il comunicato Asgi del 5 gennaio 2019, https://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/pieno-appoggio-alle-iniziative-per-tutelare-il-diritto-alliscrizione-anagrafica-dei-richiedenti-asilo/
[22] Così S. Curreri, Prime considerazioni sui profili d’incostituzionalità del decreto legge n. 113/2018 (c.d. ‘decreto sicurezza’), in Federalismi.it, 2018, 22, p. 11.
[23] Per tutti, R. Bin e G. Petruzzella, Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2017, pp. 459 ss. Vero è che dell’art. 14 Cost. è fatta anche una lettura, soprattutto civilistica, che collega la norma al più ampio ambito della vita privata e familiare nei suoi aspetti dinamici. Ma tale lettura, approcciata talvolta dai civilisti, incluso l’autore di queste pagine, si connette al tema della residenza anagrafica solo marginalmente, senza poter invadere il campo occupato dall’art. 16 Cost. Sul punto cfr. L. Lenti, Diritto di famiglia e servizi sociali, Giappichelli, Torino, 2016, pp. 101 ss., e più specificamente P. Morozzo della Rocca, I luoghi della persona e le persone senza luogo, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2017, pp. 34 ss.
[24] Sottolinea l’appartenenza del diritto soggettivo all’iscrizione anagrafica del residente, all’ambito delle libertà garantite dall’art. 16 Cost., R. Mucci, I servizi anagrafici e dello stato civile, in Trattato di diritto amministrativo (a cura di) S. Cassese, Diritto amministrativo speciale, Tomo 1, Giuffrè, Milano 2003, pp. 93 ss. Va tuttavia osservata la diretta sussumibilità nell'ambito delle libertà di cui all'art. 16 Cost già della residenza nella sua conformazione civilistica, di cui la disciplina anagrafica è estensione amministrativa, benché, come nota E. Rossi, Anagrafe della popolazione, Enc. Dir., Agg. I, Giuffrè, Milano, 1997, p. 78, sia indubbio «il sempre maggiore rilievo pubblicistico che il concetto di residenza è venuto ad assumere, a fronte della tradizionale conformazione civilistica della nozione».
[25] Sul punto, al netto di ben più vasta letteratura, si rinvia a P. Bonetti, I principi, i diritti e i doveri, le politiche migratorie, in B. Nascimbene (a cura di), Diritto degli stranieri, Cedam, Padova, 2004, pp. 144 ss., nonché a R. Bonini, La condizione di reciprocità nei rapporti di diritto privato dello straniero, in P. Morozzo della Rocca, Immigrazione, asilo e cittadinanza, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2015, pp. 315 ss.
[26] Sull’accesso a tali misure dei richiedenti asilo, prima del dl n. 113/2018, si veda la Comunicazione n. 6202 del 23 maggio 2018 dell’Agenzia nazionale politiche attive del lavoro.
[27] Mi riferisco alla puntualissima ricognizione svolta da D. Consoli e N. Zorzella, L’iscrizione, cit., nella seconda parte del loro scritto.
[28] Il richiedente asilo che voglia agire per il riconoscimento del diritto alla residenza anagrafica potrà farlo ricorrendo al giudice ordinario individuato nel tribunale territorialmente competente e non presso la sezione specializzata del tribunale sede della Corte d’appello. In senso diverso, tuttavia, E. Santoro, In direzione ostinata e contraria. Parere sull'iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo alla luce del Decreto Salvini, in L’altro diritto, gennaio 2019, http://www.altrodiritto.unifi.it/adirmigranti/parere-decreto-salvini.htm