Il libro di Angelo Caputo è molto più che una pregevole ed approfondita analisi, sistematica e, per molti aspetti, inedita, del tema del vizio di motivazione rilevabile in sede di giudizio di legittimità, nel solco dell’art. 606, comma primo, lett. e), del codice di procedura penale.
Per meglio dire, la sua riflessione ha certamente questi caratteri, che già la renderebbero un punto di riferimento per qualsiasi lettore attento, che intenda seguire l’elaborazione di anni di studio sulla funzione della Corte di cassazione nel sindacato della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali e verificarne gli approdi attuali, ma si distingue nel panorama dottrinario ancor più per altri pregi.
Il pensiero dell’Autore, infatti, è anzitutto uno studio appassionato sul ruolo della Cassazione nel nostro assetto ordinamentale e costituzionale e dichiara manifestamente un legame forte con la Corte, saldatosi sin dai tempi dell’impegno come magistrato addetto all’ufficio del Massimario e del Ruolo – nevralgico per la funzione nomofilattica – e che ha trovato piena fioritura con le attuali funzioni svolte, di consigliere penale e di componente delle Sezioni Unite.
Questa vicinanza quasi “affettiva” con la Cassazione si coglie nella tensione emotiva dei passaggi dedicati ad indagare la sua funzione principale ed ultima, individuata nella finalità nomofilattica, attraverso un viaggio nell’architettura costituzionale, ricco di spunti dottrinari e nutrito dai riferimenti alla giurisprudenza della Consulta; tale finalità costituisce, secondo la Prefazione al libro curata da Giorgio Lattanzi, anche la chiave prospettica ineludibile entro cui sono tutelati i diritti dei ricorrenti nel giudizio di legittimità.
Ed è proprio questo il modello interpretativo dell’opera, che punta ad esaltare le ragioni e la scelta costituente di fare della Cassazione l’organo giurisdizionale cui sono assegnati il controllo in iure della decisione impugnata e la funzione di uniformizzazione della giurisprudenza - di renderla, in tal modo, il cuore pulsante della nomofilachia - pur con la piena consapevolezza dell’inevitabile e delicato bilanciamento di tale preminente ruolo con le finalità lato sensu riconducibili allo ius litigatoris; tanto più nella situazione di “assedio” in cui si trova da almeno un decennio la Cassazione, oberata da un numero esorbitante di ricorsi, che potrebbero finire per svilirne il senso e l’indirizzo più profondo del suo esistere nel disegno ordinamentale voluto dalla Costituzione.
Un libro “importante”, insomma, che affonda saldamente le proprie radici nell’analisi storico-giuridica e nel passato, per tracciare l’attuale ed il futuro volto del giudizio di legittimità, rilanciato da quella che l’Autore indica come una vera e propria rinascita, di cui, negli ultimi anni, si è resa protagonista la funzione di nomofilachia affidata alla Cassazione, in coincidenza con la progressiva perdita di centralità delle fonti normative legislative, sopraffatte dalla complessa interazione con le fonti europee e con il diritto giurisprudenziale proveniente dalle Corti sovranazionali, che ha reso ancor più evidente ed indispensabile il ruolo della Corte di garante di una “nuova certezza del diritto”, declinata necessariamente come aspirazione dinamica e non più come approdo statico di derivazione ottocentesca.
L’Autore ricorda - nel denso capitolo primo, dedicato all’inquadramento della Corte di cassazione nel sistema costituzionale - le parole attualissime di Pino Borrè, affidate ad un saggio del 1992, che evocavano già allora una «nomofilachia che è un “farsi”, un procedimento che tende all’unità ma attraverso il confronto con le diversità, non più avvertite come negatività da rimuovere ma come momenti fisiologici del percorso da compiere».
La funzione nomofilattica cui principalmente aspira la Cassazione diviene, così, il modello più moderno di legalità penale.
Da questa profondità di visuale si dipana il rapporto, cui l’Autore dedica estrema attenzione, tra sindacato sulla violazione di legge, in cui si concretizza la funzione nomofilattica (e che, potremmo dire, è costituzionalmente “necessario”), e sindacato sul vizio di motivazione (costituzionalmente “possibile” a condizione di non sterilizzare – anche di fatto – il primo), confermando la coerenza costituzionale (nel prisma dell’art. 111 della Carta fondamentale) della tesi consolidata nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il vizio di motivazione è riconducibile alla nozione di violazione di legge solo se si risolve in un vizio di motivazione mancante o apparente.
La struttura complessa dell’elaborazione di Angelo Caputo – viceversa, mai complicata nella lettura – non deve tuttavia far pensare ad un’opera di valore prevalentemente dottrinario, pur avendone la ricchezza di riflessione.
Il suo saggio dedicato al vizio di motivazione nel giudizio penale di legittimità ha una grande valenza pratica, come evidenzia Giorgio Lattanzi: induce il lettore, che sia anche “operatore” nel processo di cassazione, ad una rigorosa ed amplissima analisi degli arresti giurisprudenziali formatisi negli anni, via via che si sono susseguite svolte normative o sollecitazioni delle corti europee, e lo conduce per mano a formare la propria opzione interpretativa.
E così, dall’esame della “nuova” lett. e) dell’art. 606 del codice di rito, che – si sottolinea nel volume - non ha modificato la fisionomia fondamentale del giudizio di legittimità e non ha “trascinato” la Corte di cassazione sul terreno del sindacato di merito, si giunge a ripercorrere le diverse tipologie fenomeniche del vizio di motivazione, con un’impostazione di fondo unitaria, volta a mantenere un serrato dialogo tra giurisprudenza di legittimità e dottrina, come ad esempio nei paragrafi dedicati all’analisi dei canoni giurisprudenziali e legali di valutazione della prova nella rinnovazione dell’istruzione dibattimentale collegata al “ribaltamento” in appello della sentenza di primo grado; o, ancora, come nella parte dedicata alla regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio a confronto con il vizio di manifesta illogicità della motivazione.
L’analisi acquista, così, un particolare valore scientifico, senza smarrire la sicura utilità anche per gli operatori.
E ciò è evidente proprio nel quinto capitolo dedicato al vizio logico (in cui sono inseriti i due temi portati poc’anzi ad esempio), che si apre con una approfondita trattazione del ragionamento probatorio, sviluppata sul piano storico del passaggio dal “sillogismo perfetto” alla logica del probabile e, al tempo stesso, in un’ottica di “critica pratica”, dando atto dell’interazione tra riflessioni dottrinali e analisi della giurisprudenza.
Ancora di grande utilità pratica, ma al tempo stesso di ampio respiro esegetico, è l’agile capitolo conclusivo, che tira le fila del discorso sul vizio di motivazione, ribadendo il discrimen tra legittimità e merito e restituendo la corretta immagine di una distinzione di compiti e funzioni, tra Cassazione e giudici chiamati a decidere della res iudicanda “in fatto”, che costituisce uno dei punti di emersione di quella cultura dell’uguaglianza delle funzioni che deve permeare la giurisdizione, cui – è evidente - si ispira fortemente Angelo Caputo nel corso dell’opera.
Tracciare la giusta linea di confine tra legittimità e merito diventa, così, strumento di garanzia interna dell’indipendenza della magistratura.
E' il rifiuto di posizioni “di supremazia” decisionale della Corte di legittimità, che apre lo sguardo sul vizio di motivazione in un orizzonte ben più profondo di quello consueto.
Si coglie così, dall’inizio alla fine, il significato costituzionale dell’obbligo di motivazione, sotto molteplici profili e, tra tutti, si sottolinea la sua funzionalità ad assicurare che soggetti investiti del potere giurisdizionale rendano conto del proprio operato alla fonte dalla quale deriva la loro investitura, nell’interesse del singolo e della collettività (è questa l’essenziale prospettiva del paragrafo d’esordio). Si respira la strumentalità dell’obbligo di motivazione rispetto all’attuazione del principio di legalità, di quello di imparzialità del giudice, di quello del “giusto processo” e, in sostanza, è svelata nitidamente dall’Autore la valenza dell’obbligo di motivazione per compiere il nostro “modello costituzionale” di giustizia.