Per la libertà di movimento
Le migrazioni creano conflitto perché sovvertono l’ordine dei privilegi di “razza”, di genere e di classe sostenuti dalla matrice coloniale dei confini, con il loro portato di morte. La libertà di movimento, all’interno e oltre l’Europa, è una prospettiva politica necessaria perché libertà e democrazia non siano il privilegio di una parte guadagnato al prezzo di migliaia di vite. L’abrogazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, l’abolizione della detenzione amministrativa e il riconoscimento della cittadinanza a chi nasce o cresce in Europa sono tre proposte concrete per la libertà di movimento, e per il futuro dell’Europa.
Nei giorni in cui scrivo queste note, circolano in rete e sui media le immagini della guardia costiera libica che, il 4 aprile, ha aperto il fuoco durante un’operazione della nave umanitaria “Mare Ionio”, al fine di intimidire i volontari e ostacolare il soccorso di un’imbarcazione di naufraghi e di alcuni migranti che si erano tuffati in mare dalla motovedetta di costruzione italiana per sfuggire alla cattura e alla deportazione in Libia[1].
Sono immagini impressionanti, che testimoniano della violenza dei confini e di una lotta nella quale donne e uomini migranti mettono in gioco la posta altissima della propria vita contro un apparato di militarizzazione del tutto asimmetrico e sproporzionato, sostenuti da alleati che vengono a loro volta criminalizzati, come è accaduto per le molte Ong finite sotto processo. Allo stesso tempo, penso che siano immagini che ci parlano dell’urgenza di capovolgere la prospettiva, per affermare che la liberta di movimento delle e dei migranti non è illusoria ma è, invece, un’aspirazione necessaria: l’unico orizzonte possibile per la costruzione di un’Europa dove libertà e democrazia siano un patrimonio collettivo, a meno che non si voglia spacciare per libertà il privilegio di una parte guadagnato al prezzo di migliaia di vite. La libertà non è un computo a somma zero: o è liberazione di tutte e tutti, o non è.
D’altro canto, era questa diversa prospettiva che aveva nutrito il progetto di una rinnovata cittadinanza europea, e che aveva assunto proprio la libertà di movimento nello spazio europeo a suo punto di forza: per i cittadini, è vero, ma che aspirava a una progressiva inclusione e allargamento[2]. Mi pare che questa libertà si sia rapidamente ridotta da aspirazione costituente a dispositivo di governo della circolazione, funzionale a gerarchizzare i movimenti umani. L’ambizione di superare i confini della vecchia Europa, a cominciare dall’allargamento a Est del 2004 e da quelli seguiti in successione, è stata immediatamente ridimensionata attraverso la fortificazione dei confini ancora più esterni e l’imposizione di regimi di circolazione a geometria ineguale sia per i migranti che per i cittadini stessi, distinti, questi ultimi, tra “produttivi” e “improduttivi”. Di quell’ambizione rivolta a Est e ai Balcani, rimangano oggi le immagini poco edificanti dei rifugiati ammassati da anni sul confine tra la Polonia e la Bielorussia, dei muri metallici costruiti da Orbán tra Ungheria e Serbia, dei respingimenti e delle morti per assideramento sulla rotta balcanica, dei campi di contenimento per richiedenti asilo allestiti sulle isole delle Egeo e mai smantellati dopo la crisi dei confini del 2015, nonché di quelli esternalizzati in Turchia dopo la sigla con l’Unione europea del patto per fermare i migranti, nel 2016.
Una volta smentita dai fatti la paura dell’invasione, che aveva nutrito la “Fortezza Europa” a cavallo tra gli anni novanta e duemila, questa è stata poco a poco sostituita dall’ossessione per i cd. “movimenti secondari” non autorizzati interni all’Europa, gestiti attraverso le maglie del “regolamento Dublino”, da un lato, e l’utilizzo dei rifugiati come arma di negoziazione tra gli Stati nazionali e l’Europa, dall’altro. La strategia seguita è stata quella di illegalizzare i movimenti dei migranti ben prima che essi raggiungano i confini dell’Europa: sigillando la rotta del Mediterraneo centrale con l’accordo tra Italia e Libia nel 2017 e, più di recente, tra Italia e Tunisia; rafforzando la cooperazione tra le polizie di Spagna, Marocco e Senegal per fermare la rotta di Gibilterra e quella verso le Canarie; imponendo la criminalizzazione dei passaggi di frontiera non autorizzati ai Paesi del Sahel; e così via.
Si tratta di una strategia che ha costi altissimi in termini di vite. Negli ultimi dieci anni sono state quasi 30.000 le vittime dei confini nel Mediterraneo[3], alle quali andrebbero aggiunte le morti sulla rotte delle Canarie e nel canale della Manica, i dispersi nel deserto del Sahara, le torture dei campi di contenimento in Libia, le incarcerazioni e le deportazioni nel deserto in Tunisia, le violenze della polizia a Ceuta e Melilla, secondo un elenco che potrebbe continuare a lungo.
I confini, come ci dice il filosofo camerunense Achille Mbembe[4], sono diventati luoghi dove la violenza organizzata suddivide le «specie e varietà dell’umano» secondo classi diverse di «computabilità del rischio». In un mondo dove essere vivi o sopravvivere «coincide sempre più con la capacità di muoversi», la distinzione tra chi “conta” e chi “non conta” è determinata dalla differenza tra chi può attraversare i confini in sicurezza e chi può farlo solo a determinate, limitatissime condizioni, assumendo su di sé il rischio della morte che viene gestita istituzionalmente come un rischio sociale e politico calcolato.
Eppure, proprio la gestione dei profughi ucraini nel 2022 ha dimostrato che la libertà di movimento è una scelta politicamente possibile: a 15 mesi dall’aggressione russa, erano oltre 5 milioni le persone titolari di protezione temporanea che avevano potuto attraversare i confini dell’Europa senza rimanere imprigionate nelle maglie del regolamento Dublino[5]. Un numero cinque volte maggiore a quello dei rifugiati della “lunga estate delle migrazioni” del 2015, la quale era stata allarmisticamente indicata come la più grave crisi di profughi mai registrata dalla Seconda guerra mondiale[6]. Nonostante questo precedente positivo, non sembra che le istituzioni europee e nazionali abbiano fatto proprio qualsivoglia cambio di prospettiva o identificato vie di cambiamento radicale. Il nuovo Patto sulle migrazioni e sull’asilo[7], sul quale il Parlamento europeo ha raggiunto l’accordo politico a dicembre 2023, non fa altro che ratificare e inasprire le direttrici già intraprese: rafforzando le misure di selezione, respingimento e rimpatrio dei richiedenti asilo, a scapito della tutela dei diritti; incrementando a dismisura le tecnologie di controllo sia ai confini esterni che a quelli interni; spacciando per solidarietà tra Stati la dislocazione nei diversi Paesi di chi viene riconosciuto come rifugiato.
Sul piano delle politiche nazionali, la proposta (mai realizzata) del Regno Unito di delocalizzare i rifugiati verso il Ruanda ha inaugurato la nuova tendenza dell’esternalizzazione delle procedure di asilo. Il recente protocollo siglato dall’Italia con l’Albania, che consente di valutare le domande di asilo in territorio albanese, riqualifica la nozione di “territorio nazionale” attraverso una finzione giuridica che equipara le zone demaniali albanesi alle zone di frontiera italiane. Il progetto, che prevede un imponente investimento organizzativo per gestire il numero massimo di 3000 richiedenti asilo contemporaneamente presenti sul territorio albanese, fa apparire oggi l’Albania molto più lontana di quel 7 marzo 1991, quando, in un solo giorno, 27.000 profughi albanesi sbarcarono e furono accolti a Bari. Un numero, quest’ultimo, molto vicino a quello delle vittime che si contano sulla rotta del Mediterraneo centrale nei dieci anni che separano la strage di Lampedusa da quella di Steccato di Cutro.
L’aspirazione della libertà di movimento come libertà di tutte e tutti passa attraverso le rivendicazioni concrete agite dalle e dai migranti che attraversano i confini. Mi pare che i nodi politici della criminalizzazione dei migranti, della detenzione amministrativa e della cittadinanza risultino oggi centrali per segnalare una svolta verso un’Europa dove libertà e democrazia siano patrimonio collettivo.
Va in questo senso la formulazione di tre proposte concrete per la libertà di movimento all’interno e oltre l’Europa.
L’abrogazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e la riforma del cd. “pacchetto facilitazioni” europeo, che ha portato all’incarcerazione di oltre 100.000 migranti in tutta Europa. Tra le norme più odiose che limitano la libertà di movimento vi sono, infatti, quelle che illegalizzano la fuga: dalle guerre, dalla violenza patriarcale, dalla violenza dello sfruttamento di un capitalismo cannibale e guerresco. Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, che prescinde da ogni scopo di profitto delle condotte, è un dispositivo che colpevolizza i migranti per assolvere i confini dalla responsabilità politica delle morti e delle violenze di cui sono causa.
L’abolizione della detenzione amministrativa dei migranti, la quale, da misura eccezionale, ha reso il confinamento, nelle diverse forme che assume, il regime ordinario di gestione delle migrazioni. I confini oggi non regolano più solamente l’ingresso sul territorio, ma la vita stessa delle persone migranti, con il risultato che, per fasce intere di popolazione, invece che costruire scuole, ospedali e case si allestiscono campi profughi e tendopoli. Abolire la detenzione amministrativa è il primo passo necessario, non solo sul piano simbolico, per contrastare l’affermazione di un diritto differenziale, di matrice coloniale e razzista, che prende sempre più piede in Europa
Allargare l’accesso alla cittadinanza europea è l’unica vera base per costruire un’Europa politica. Svincolare l’accesso alla cittadinanza europea da quella nazionale, e affermare che ogni bambina e bambino nati o cresciuti in Europa hanno diritto alla cittadinanza sarebbe oggi l’affermazione di un principio di uguaglianza necessario. Sarebbe un passo verso la realizzazione di un’utopia concreta e possibile, oltre la nazione e oltre lo Stato.
Le migrazioni creano conflitto, non perché ci invadono, ma perché sovvertono l’ordine dei privilegi – delle “razze”, del genere, della classe… – sostenuto dalla matrice coloniale dei confini[8]. La radicalità che accompagna la libertà di movimento non la rende, però, un’utopia meno concreta; al contrario, chiama in causa quell’immaginazione giuridica che sempre segna le svolte del diritto nella storia. E, come ha affermato di recente il giurista internazionalista Martti Koskenniemi[9], l’immaginazione del diritto non è mai una questione di verità, bensì di persuasione.
* Una versione estesa delle riflessioni qui presentate è pubblicata in E. Rigo, L’imbroglio dei confini chiusi e l’utopia necessaria della libertà di movimento, in MicroMega, n. 3/2024 (www.micromega.net/sognare-per-resistere-intorno-alle-utopie-possibili-il-volume-3-2024-di-micromega/).
1. Per il resoconto dell’operazione di soccorso, vds.: https://mediterranearescue.org/it/news/criminali-contro-l-umanita.
2. Vds. É. Balibar, Nous, citoyens d’Europe? Les frontières, l’État, le peuple, La Découverte, Parigi, 2001 – tr. it.: Noi cittadini d’Europa? Le frontiere, lo Stato, il popolo, a cura di A. Simone e B. Foglio, Manifestolibri, Roma, 2004; sia consentito anche il rinvio a E. Rigo, Europa di confine. Trasformazioni della cittadinanza nell’Unione allargata, Meltemi, Roma, 2007.
3. Fonte: OIM (https://missingmigrants.iom.int/region/mediterranean).
4. Id., Bodies as Borders, in From the European South, n. 4/2019, pp. 5-19, part. pp. 9 ss. (www.fesjournal.eu/numeri/africas-planetary-futures/).
5. Fonte: Openpolis (www.openpolis.it/i-profughi-ucraini-a-15-mesi-dallinizio-della-guerra/).
6. Si è espresso in questi termini, nell’agosto 2015, Dimitris Avramopoulos, Commissario europeo per le migrazioni, gli affari interni e la cittadinanza nella Commissione guidata da Jean-Claude Juncker (www.europeansources.info/record/speech-a-european-response-to-migration-showing-solidarity-and-sharing-responsibility/).
7. https://home-affairs.ec.europa.eu/policies/migration-and-asylum/new-pact-migration-and-asylum_en.
8. T. Achiume, Migration as Decolonization, in Stanford Law Review, vol. 71, n. 6/2019, pp. 1509-1574.
9. Id., To the Uttermost Parts of the Earth: Legal Imagination and International Power 1300–1870, Cambridge University Press, Cambridge (UK), 2021.