Se questo è un Patto. Prime riflessioni a seguito dell’approvazione del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo
Tra i procedimenti speciali per l’accertamento del diritto alla protezione internazionale previsti dal diritto europeo, quello in frontiera è risultato nei fatti il meno idoneo ad assicurare il rispetto dei diritti fondamentali. Con il Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, tale procedimento diventa obbligatorio per un numero estremamente elevato di richiedenti asilo.
1. Sentenze didascaliche / 2. La frontiera come luogo dimostratosi inidoneo alla tutela dei diritti fondamentali / 3. Il Patto europeo sulla migrazione e l’asilo e l’obbligo per i Paesi membri di far ricorso alla procedura in frontiera per un numero elevatissimo di richiedenti asilo / 4. La regola del 20% / 5. Perché preoccuparsi: a) il Patto come modello che l’Ue presenta al mondo; b) la “prigionia” del diritto europeo / 6. La tesi funzionalista e i tre argomenti che possono esservi contrapposti / 7. Conclusioni
1. Sentenze didascaliche
Nessuno può prevedere il futuro.
È però possibile trarre degli insegnamenti dal passato.
Nella storia italiana recente di “gestione dell’immigrazione”, vi sono alcuni fatti che più di altri si prestano a insegnarci qualcosa.
Ne prenderò uno, verificherò se si tratti o meno di un fatto eccezionale, per poi indicare la lezione che mi sembra si possa ragionevolmente trarre da simili episodi.
Il fatto riguarda il trattamento ricevuto in Italia da alcuni cittadini sudanesi, la cui vicenda è ricostruita, con la consueta accuratezza, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 16 novembre 2023, A.E. e altri c. Italia[1].
Ne riporto solo un breve estratto, che mi sembra significativo.
Nell’agosto 2016, «i ricorrenti furono arrestati, costretti a salire su un furgone della polizia e condotti a quello che essi compresero fosse un posto di polizia, dove si trovavano molti altri migranti, in particolare cittadini sudanesi.
I ricorrenti furono perquisiti, privati dei loro telefoni, dei lacci delle scarpe e delle cinture, e fu chiesto loro di spogliarsi, dopodiché furono lasciati senza indumenti per circa dieci minuti. Furono successivamente sottoposti a rilievi dattiloscopici; i ricorrenti non opposero resistenza in quanto avevano visto che altri migranti erano stati colpiti alla nuca per averlo fatto. Non furono fornite informazioni né ai ricorrenti né ad alcun altro migrante del loro gruppo riguardo al motivo o alla durata del loro trattenimento. Essi non ebbero la possibilità di nominare un avvocato e non fu loro fornito un interprete in nessuna fase del loro trattenimento. In data 19 agosto 2016 i ricorrenti e approssimativamente venti altri migranti furono costretti a salire su un pullman e iniziarono un viaggio scortati da numerosi agenti. (…) Sul pullman i migranti non furono liberi di lasciare i sedili o il veicolo, e pertanto furono costretti a rimanere in posizione seduta per l’intero viaggio. Chi desiderava accedere ai servizi igienici era accompagnato da due agenti. Le porte del gabinetto furono lasciate aperte cosicché i migranti erano esposti alla vista degli agenti e degli altri migranti. (…) [Arrivati nell’hotspot di Taranto,] i ricorrenti furono sistemati in tende situate nel cortile del centro, sotto il sole. A causa dell’assenza di ombra, i ricorrenti furono esposti a temperature molto elevate, dato il periodo dell’anno. Essi non potevano muoversi liberamente per accedere ai servizi igienici; al contrario, dovevano essere scortati da quattro agenti a persona e le porte dei gabinetti erano ancora una volta lasciate aperte. Non vi era alcuna possibilità di fare una doccia e il vitto e l’acqua erano insufficienti. Nelle prime ore del mattino del 23 agosto 2016 i ricorrenti e altri connazionali furono trasferiti nuovamente in pullman a Ventimiglia. (…)
Il giorno seguente i ricorrenti furono trasferiti all’aeroporto di Torino, dove furono ammanettati, al fine di imbarcarli su un volo per il Sudan. Tuttavia, le autorità italiane li informarono del fatto che, a causa dell’insufficiente numero di posti a sedere disponibili sull’aereo, l’espulsione dei ricorrenti (…) avrebbe dovuto essere rinviata fino a quando non fosse stato trovato un altro volo disponibile. I connazionali dei ricorrenti per i quali era stato trovato posto nell’aereo furono rimpatriati in Sudan il medesimo giorno (…).
La mattina del 1° settembre 2016, il sig. T.B.» – uno dei ricorrenti – fu nuovamente «ammanettato» e portato in aeroporto, insieme a un altro connazionale. Dal momento che i due stranieri «protestarono e si agitarono molto, come reazione, la polizia li picchiò. Il sig. T.B. fu colpito al volto e allo stomaco. Costretti a salire sull’aereo, [i due stranieri] furono legati, ma il pilota ritenne la situazione non compatibile con la sicurezza del volo e [i due stranieri] furono fatti scendere (…)».
Come risulta dalla sintesi del tutto sommaria dei fatti sopra riportati, solo per ragioni fortuite le autorità italiane non riescono a eseguire l’allontanamento dei ricorrenti verso il Sudan, a differenza di quanto avvenuto per altri connazionali.
Tale circostanza consente a questi cittadini stranieri non solo di formalizzare la domanda di protezione internazionale, ma anche di ottenere l’accertamento della violazione dei loro diritti fondamentali da parte dei giudici di Strasburgo[2].
Se per i ricorrenti vi fosse stato posto in aereo, l’accesso effettivo alla giustizia sarebbe stato loro negato[3].
Ancora: se per loro vi fosse stato posto in aereo, essi sarebbero stati espulsi verso il Sudan, dove – come poi fu accertato – avevano fondato timore di essere oggetto di persecuzione.
2. La frontiera come luogo dimostratosi inidoneo alla tutela dei diritti fondamentali
Episodi come quello qui sinteticamente riportato non costituiscono tristi eccezioni.
Tanto la Corte europea dei diritti dell’uomo, quanto la Corte di giustizia, quanto, infine, i giudici dei singoli Paesi membri dell’Unione europea[4] hanno avuto modo di constatare trattamenti inumani e degradanti e respingimenti illegittimi di richiedenti asilo in ormai migliaia di occasioni.
Ed ecco il punto che mi sembra importante sottolineare: chi andasse alla ricerca dello “spazio fisico” ove ordinariamente tali illeciti vengono commessi lo individuerebbe senza difficoltà: non l’unico, ma senz’altro il più insidioso dei luoghi per uno straniero, in base al tasso di violazione dei diritti fondamentali, è la frontiera.
La vicinanza fisica con i confini esterni, da un lato, e la lontananza dalla società civile, dall’altro, convergono nel rendere più agevoli in frontiera respingimenti vietati dal diritto internazionale e trattamenti che spesso raggiungono la soglia giuridica della nozione di “tortura”.
La certificazione di “pericolosità dei confini” da parte delle autorità giudiziarie non riguarda solo Stati membri ormai noti per la controversa gestione dei richiedenti asilo, come la Grecia o l’Ungheria, ma arriva ormai a coprire l’intero perimetro delle frontiere esterne dell’Unione europea[5].
Se la situazione è ben documentata a livello giurisprudenziale, vi è da chiedersi quale fosse lo stato di consapevolezza della problematicità delle frontiere da parte delle istituzioni europee.
E qui si fa una scoperta interessante.
Nel presentare la proposta di riforma della procedura europea di asilo, la Commissione aveva omesso di effettuare un’adeguata valutazione di impatto delle misure proposte. Il Parlamento europeo aveva censurato tale modo di procedere e, per colmare la lacuna, aveva fatto svolgere, nel corso del 2020, una serie di approfondimenti proprio sulla procedura d’asilo in frontiera, affidandoli ad alcuni tra i più autorevoli esperti indipendenti in materia[6].
Alla luce degli esiti di tale indagine, la «Commissione per le Libertà Civili, la Giustizia e gli Affari interni» del Parlamento europeo aveva emesso il suo verdetto:
«La Commissione giunge alla conclusione che la procedura di frontiera non costituisce una procedura equa, poiché, se si dovesse seguire il paradigma della celerità, che caratterizza tale procedura, si avrebbe una notevole contrazione delle garanzie procedurali; se, invece, si volesse operare nel rispetto di tali garanzie, il trattenimento (che di fatto avviene nelle procedura di frontiera) si protrarrebbe per un periodo troppo lungo, comportando così una violazione dei diritti fondamentali della persona.
Pertanto, la Commissione invita gli Stati membri a non adottare tale procedura e, anzi, sottolinea che gli Stati non dovrebbero essere in ogni caso obbligati ad applicarla: le implicazioni che deriverebbero dall’obbligatorietà di tale procedura sarebbero problematiche e non di poco conto»[7] (enfasi aggiunte).
Analoghe preoccupazioni per il trattamento dei richiedenti asilo in frontiera erano state espresse in più occasioni dall’Agenzia dell’Ue per i diritti fondamentali[8].
La stessa Commissione era stata costretta ad agire davanti alla Corte di giustizia nei confronti dell’Ungheria, con una procedura di infrazione, per l’inaccessibilità di fatto della procedura di asilo per i richiedenti che venissero fermati in frontiera, per la mancanza di fornitura di cibo e la detenzione di fatto sistematica di tutti i richiedenti asilo, ottenendo una sentenza della Corte che certificava in modo definitivo come in frontiera si consumassero quotidianamente gravissimi illeciti[9].
L’insegnamento che si ricava mettendo in fila tutti questi dati mi sembra chiaro.
Lo provo ad esprimere facendo ricorso a una metafora farmaceutica: i “risultati clinici” che si possono trarre da centinaia di rapporti e migliaia di sentenze dimostrano che le autorità dei singoli Paesi membri non sono capaci di gestire la procedura di asilo in frontiera.
Tale modulo procedimentale dovrebbe, dunque, essere “ritirato” dall’offerta di procedure speciali contenuta negli strumenti di diritto derivato dell’Unione europea, e ciò almeno fino a quando le condanne per violazioni dei diritti umani per ciascun Paese non scendano al di sotto di una soglia che permetta di qualificarle come eventi del tutto eccezionali.
3. Il Patto europeo sulla migrazione e l’asilo e l’obbligo per i Paesi membri di far ricorso alla procedura in frontiera per un numero elevatissimo di richiedenti asilo
Ed ecco che, proprio in relazione alla questione fino a questo momento illustrata, si ha uno degli snodi più problematici della recente riforma europea dell’asilo: il Patto, anziché circoscrivere al massimo la procedura di asilo in frontiera, la rende obbligatoria per un numero elevatissimo di richiedenti la protezione internazionale.
Ho parlato di Patto ma, prima di continuare, credo che sia opportuna una precisazione terminologica.
Il Patto non è in sé un atto normativo e, pertanto, solo in senso figurativo può dirsi, come ho appena fatto, che “il Patto dispone qualcosa”.
Il Patto è, infatti, una costellazione di strumenti legislativi dell’Unione che copre una superficie normativa estesissima: vi rientrano direttive e regolamenti che si occupano di materie che, pur unificate dal comune tema dell’asilo e della migrazione, trattano temi molto diversi tra loro[10].
Tra questi strumenti legislativi, vi è anche il regolamento 2024/1348, che è il nuovo “regolamento procedure”: entrato in vigore il 24 maggio 2024, troverà applicazione dal 12 giugno 2026[11]. È questo lo strumento normativo che, all’interno dell’arcipelago di atti legislativi che compongono il Patto, riforma la procedura di asilo nell’Unione europea.
Ebbene, è in tale strumento che troviamo una delle modifiche che maggiormente influiranno sulla condizione dei richiedenti asilo nell’Unione europea a partire dal 2026.
Per comprendere il contenuto della modifica, è necessario dire qualcosa sull’attuale status quo.
Quale procedura attende oggi lo straniero che, arrivato in Europa, intenda chiedere la protezione internazionale?
Il richiedente asilo che apra un codice europeo dell’asilo trova immediata risposta.
La direttiva procedure attualmente in vigore[12] è costruita attorno a un procedimento ordinario, che si contraddistingue per l’elevato numero di garanzie riconosciute al richiedente asilo; rispetto a tale modulo procedimentale, le procedure speciali caratterizzate dall’accelerazione e dalla riduzione delle garanzie rappresentano l’eccezione e diventano operative solo se il singolo Stato membro espressamente le prevede nell’esercizio della propria autonomia procedimentale.
Tale sistema a geometria variabile trova una giustificazione storica: nel momento in cui veniva proposta per la prima volta un’armonizzazione a livello europeo, molti Paesi membri avevano già propri schemi procedurali consolidati. Si è ritenuto, quindi, ragionevole concedere ai singoli Stati la possibilità di mantenere tali peculiarità, pur chiarendosi che il ricorso alle procedure speciali sarebbe potuto avvenire solo in presenza di ben definite circostanze, in ragione della restrizione delle garanzie che dalle stesse conseguiva per il richiedente asilo.
Questo sistema di moduli procedimentali fondato sulla facoltatività delle procedure speciali subisce una profonda modifica con il nuovo regolamento: non solo gli Stati membri dovranno – e non più potranno – ricorrere alle procedure accelerate quando ricorrano determinate ipotesi, ma, con specifico riferimento a quella particolare procedura accelerata che è la procedura di asilo in frontiera, essi saranno obbligati a fare ricorso a tale modulo procedimentale in tre casi.
Semplificando al massimo la descrizione delle tre fattispecie, può dirsi che, in base al regolamento, non potranno sottrarsi alla procedura in frontiera i richiedenti asilo che (1) abbiano tratto in inganno le autorità, (2) risultino pericolosi o (3) abbiano speranze pari o inferiori al 20% di vedere riconosciuta la propria domanda di protezione, sulla base dei dati medi annuali Eurostat disponibili, relativi all’esito delle istanze di asilo presentate dai connazionali[13].
Mi limiterò a prendere in considerazione esclusivamente quest’ultima fattispecie, che ha introdotto un’ipotesi di accelerazione e attivazione della procedura in frontiera fondata sul tasso medio di riconoscimento delle domande di protezione di una determinata nazionalità.
La ragione del suo rilievo è data dal fatto che il suo perimetro di applicazione sarà molto ampio: il numero di richiedenti asilo che appartiene a nazionalità per cui è prevista la procedura in frontiera, in caso di ingresso in violazione delle regole sui visti, è elevatissimo.
Limitandomi al circoscritto osservatorio dei casi che seguo direttamente, posso dire che la grande maggioranza dei richiedenti che conosco che oggi attendono l’esito della procedura nel territorio italiano, interagendo nel frattempo in vario modo con la società civile, saranno oggetto di procedura in frontiera.
Ciò cambierà totalmente la loro condizione.
Dall’avere tempi ragionevoli per prepararsi al colloquio con l’autorità amministrativa, questi stranieri passeranno ad avere pochissimo tempo a disposizione[14].
Dall’avere diritto all’effetto sospensivo del ricorso giurisdizionale avverso l’eventuale diniego dell’istanza di protezione[15], questi stranieri si troveranno a dover superare il vaglio del giudizio di sospensiva, con un termine per il ricorso che per la prima volta viene fissato a livello del diritto derivato in un massimo di dieci giorni.
Ma soprattutto questi richiedenti passeranno dal poter godere del diritto alla libera circolazione nel territorio di ciascun Paese membro all’essere – ordinariamente – detenuti in frontiera: ciò perché il Patto chiede ai Paesi membri di assicurare che gli stranieri soggetti alla procedura in frontiera non entrino nel territorio[16].
4. La “regola del 20%”
Che dire della regola che incanala verso la procedura in frontiera i richiedenti che abbiano – in base alle statistiche relative alle decisioni aventi ad oggetto dei connazionali – un’aspettativa non superiore al 20% di vedersi riconosciuta una qualche forma di protezione?
Non ho alcuna competenza in materia di statistica; due osservazioni mi sembrano, però, accessibili anche ai profani.
La prima è che il criterio della probabilità statistica (quale che sia il valore percentuale prescelto come soglia) è inconciliabile con la configurazione classica del richiedente asilo.
Questi non appartiene generalmente mai alla maggioranza della popolazione del Paese da cui fugge: vittima di persecuzione è quasi sempre un membro della minoranza.
Ma se così è, ci troviamo di fronte al paradosso per cui il richiedente asilo che sia stato preceduto da quattro connazionali che abbiano chiesto protezione senza meritarla sarà soggetto a elevato rischio di detenzione e alla riduzione certa delle garanzie procedurali sulla base di un calcolo statistico che nulla ha a che fare con l’esame individualizzato della sua domanda.
Come diceva Dostoevskij: «Due più due uguale quattro, ed è già la fine»[17]: la razionalità matematica non sempre è applicabile ai fatti umani.
La seconda osservazione è che un tasso del 20% è elevato, tanto che il Parlamento europeo aveva proposto senza successo di ridurlo al 10%.
Esso finisce, così, per trattenere in frontiera non solo i richiedenti asilo che presentino domande qualificabili come “manifestamente infondate”, ma anche quelli che possono nutrire concrete speranze di vedere riconosciuto il proprio bisogno di protezione[18].
Se poi si osserva che, nel caso in cui siano integrati i presupposti – previsti dal regolamento – di «crisi e forza maggiore»[19], potranno essere soggetti a procedura in frontiera anche i richiedenti asilo che abbiano un’aspettativa di vedersi riconosciuta la protezione pari al 50%, risulta evidente che lo scopo perseguito dal legislatore europeo sia stato quello di gestire il maggior numero di stranieri secondo moduli procedimentali caratterizzati dalla riduzione delle garanzie.
L’introduzione di un criterio statistico di meritevolezza della pretesa in un giudizio individuale ed ex ante imprevedibile nei risultati, quale quello volto all’accertamento della protezione internazionale, solleva pertanto numerose e più che giustificate preoccupazioni.
5. Perché preoccuparsi: a) il Patto come modello che l’Ue presenta al mondo; b) la “prigionia” del diritto europeo
Si potrebbe eccepire che i singoli Paesi membri avevano già mostrato di prediligere le procedure accelerate e quelle di frontiera rispetto al procedimento ordinario, e che questa scelta era consentita dal diritto derivato europeo. Con il Patto, la regolarità sarebbe divenuta regola: il nuovo regolamento si limiterebbe a codificare a livello europeo una tendenza già emersa a livello di normative e prassi dei singoli Stati membri.
L’obiezione ha un indubbio fondamento di verità.
Lo dimostra la stessa esperienza italiana recente: oltre alla controversa vicenda della procedura di asilo in frontiera, vi è l’evidente progressiva erosione dell’ambito di applicazione della procedura ordinaria a favore di quella accelerata, ottenuta con la problematica inclusione nella lista dei cd. “Paesi sicuri” di un numero sempre maggiore di Stati di origine dei richiedenti asilo.
Sarebbe però sbagliato sottovalutare la portata storica della riforma recentemente approvata a livello europeo.
Ciò per almeno due ordini di ragioni.
In primo luogo, con il Patto – che, con le sue quasi 1500 pagine di disposizioni, configura la più ampia riforma della materia a livello di diritto dell’Unione fino ad oggi approvata – le istituzioni europee presentano al mondo quello che in questo momento ritengono sia “lo standard europeo del diritto alla protezione internazionale”.
Come gli strumenti di diritto derivato in materia di diritti sociali e diritto del lavoro sono il più eloquente manifesto di quello che riteniamo il modello europeo per tali diritti, così il Patto spiega quale sia la nostra visione del diritto d’asilo e cosa significhi in Europa applicare la Convenzione di Ginevra.
Sotto questo profilo, la riduzione delle garanzie procedurali prevista come obbligatoria nel Patto appare un arretramento incontrovertibile.
Il secondo rilievo viene dall’osservazione della natura “fossile” di alcune previsioni contenute nel diritto europeo di asilo.
Come noto, il diritto derivato dell’Unione in materia esibisce un grado di rigidità ben più elevato di quello nazionale: i numerosi tentativi di modificare la disciplina europea che hanno preceduto l’adozione del Patto ne sono chiara testimonianza.
Ma vi è di più (ed è qui la maggiore preoccupazione): in alcune materie, riforme pressoché universalmente riconosciute come necessarie sono risultate di fatto impossibili.
Si pensi alla questione – cruciale – della determinazione del Paese membro responsabile per l’esame della domanda di protezione internazionale.
In base a decisioni prese nel 1990, il criterio più rilevante per individuare la competenza è quello dello Stato di primo ingresso: tale sistema selettivo, per la sua idoneità astratta e concreta a penalizzare determinati Paesi per mere ragioni geografiche, è stato riconosciuto unanimemente come uno dei principali mali del sistema europeo di asilo.
Il Patto avrebbe dovuto servire proprio a superare l’impostazione “Dublino”, individuando criteri più equi.
Dalla lettura della riforma risulta che questo obiettivo non è stato raggiunto: il regolamento “Dublino III”[20], pur formalmente abrogato, è stato nei suoi contenuti sostanziali trasfuso nel nuovo «Regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione»[21]. Per risolvere il problema dell’ingiusta individuazione delle responsabilità ex ante, il Patto introduce misure ex post di «solidarietà obbligatoria ma flessibile» che, pur costituendo un’indubbia novità, mostrano quanto sia limitato il margine effettivo di manovra del legislatore europeo in materia.
Il timore è che il principio dell’obbligatorietà della procedura di asilo in frontiera – e, in generale, la riduzione delle garanzie procedimentali per i richiedenti asilo –, una volta codificato nel diritto derivato dell’Unione come avvenuto con il Patto, possa risultare non più concretamente emendabile.
Con il rischio di rimanere prigionieri, oltre che di Dublino, anche della procedura di asilo in frontiera.
6. La tesi funzionalista e i tre argomenti che possono esservi contrapposti
Alla luce del discorso fin qui svolto, una domanda potrebbe legittimamente porsi.
Perché – nonostante le evidenze negative sulla procedura di asilo in frontiera di cui si è dato sinteticamente conto all’inizio – le istituzioni europee e i Paesi membri hanno ritenuto di optare comunque per una procedura così problematica?
La risposta è semplice, visto che la giustificazione del ricorso alla procedura di frontiera è stata più volte chiarita sia nei documenti preparatori al Patto che negli stessi atti di diritto derivato.
Alla base della riforma del sistema europeo di asilo sta il seguente assioma: la procedura di asilo in frontiera renderà il nostro sistema di gestione dell’immigrazione più efficiente, aumentando il numero di rimpatri[22].
La Commissione ha presentato la procedura congiunta di asilo e rimpatrio alle frontiere come il più importante strumento di gestione della migrazione per prevenire «ingressi e movimenti non autorizzati»: il controllo delle persone svolto alla frontiera è – ad avviso dell’Istituzione europea – quello più efficace al fine di limitare gli ingressi.
La tesi, pur presentata come infalsificabile, si presta a numerose contro-obiezioni.
Mi limiterò a indicarne tre.
1) In primo luogo, a dubitare della concreta possibilità di trattare in frontiera un elevato numero di domande sono i principali Paesi membri che saranno tenuti ad applicare in modo generalizzato tale procedimento.
Per convincersene è sufficiente leggere la comunicazione adottata nel novembre 2020 da Italia, Spagna, Grecia e Malta, a seguito della presentazione delle proposte da parte della Commissione europea nel settembre dello stesso anno[23].
Con tale comunicato congiunto, questi Paesi avevano dubitato (ancor prima che della desiderabilità) della stessa fattibilità di una procedura di trattamento generalizzato delle domande di protezione in frontiera. Queste le osservazioni:
«Il principio delle procedure obbligatorie alla frontiera deve essere rivisto. Nonostante le eccezioni previste nella proposta [della Commissione], in pratica il testo si avvicina a un’applicazione generalizzata di questa regola, che finirebbe per ostacolare il rispetto delle scadenze e condurrebbe a effetti opposti a quelli auspicati.
L’applicazione o meno delle procedure di frontiera, nonché le categorie di persone a cui tali procedure dovrebbero applicarsi, dovrebbero rimanere una prerogativa degli Stati membri, che sono nella posizione migliore per decidere se una procedura è fattibile date le loro circostanze specifiche.
Inoltre, sebbene la proposta della Commissione non preveda esplicitamente questa possibilità, occorre essere sicuri che la regolamentazione definitiva delle procedure alla frontiera non apra la strada a effetti indesiderati. La creazione di grandi centri chiusi alle frontiere esterne non è accettabile. La gestione dell’asilo deve rispettare pienamente i diritti umani e i diritti dei richiedenti asilo, che devono riflettersi nella regolamentazione delle relative procedure».
La comunicazione non può essere derubricata a lamentela degli inefficienti Paesi del Mediterraneo. La stessa Germania, nel 2023, ha trattato le domande di protezione provenienti da Paesi con un tasso di accoglimento inferiore al 5% in tempi molto più lunghi di quelli che sono imposti come non superabili dal Patto[24]. Eppure, sono anni che la Germania cerca, con misure legislative e organizzative, di ridurre al minimo la durata della procedura amministrativa e giudiziaria.
Il fatto è che il tempo per istruire e decidere una domanda non è infinitamente comprimibile: vi è un’unità minima di durata del procedimento (variabile da caso a caso) al di sotto della quale, per quanto efficiente, chi è chiamato a decidere non è in grado di farlo garantendo «l’effettività delle norme sostanziali e delle garanzie processuali riconosciute al richiedente dal diritto dell’Unione»[25].
Tale tempo minimo ben può essere qualificato come «bene della vita»[26]: al di sotto di tale durata minima – non identificabile a priori – maggiore rapidità (nel redigere un provvedimento amministrativo, una decisione giudiziaria o un ricorso) si traduce in una minore qualità e in un conseguente margine di errore più elevato.
La stessa Corte costituzionale ha avuto occasione di affermare che il «principio di durata ragionevole del processo (...) se è diretto a disporre che il processo stesso non si protragga oltre certi limiti temporali, assicura anche che esso duri per il tempo necessario a consentire un adeguato spiegamento del contraddittorio e l’esercizio del diritto di difesa»[27].
Ed ecco la prima obiezione alla pretesa efficienza della scelta fatta a livello dell’Unione: se autorità amministrative e giudiziarie non rinunceranno a una decisione che garantisca l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto di ciascuna domanda in frontiera, il brevissimo termine di dodici settimane imposto dal Patto per la conclusione della procedura amministrativa e giudiziaria in frontiera non sarà generalmente sufficiente, con il conseguente diritto del richiedente asilo all’ingresso nel territorio dello Stato[28].
Se questo accadrà, il livello di fiducia tra i Paesi membri non potrà che subirne un ulteriore contraccolpo: era dunque preferibile optare per un modello procedurale che, ancor prima che più garantista, consentisse alle autorità chiamate a decidere le domande di asilo di rispettare l’impegnativo mandato di individuare, con il minor margine di errore possibile, le persone bisognose di protezione.
2) Traggo la seconda obiezione da un libro pubblicato di recente: Come funziona davvero l’immigrazione. Una guida – basata sui fatti – alla questione politica più controversa[29].
Secondo Hein de Haas, uno dei più autorevoli studiosi dei fenomeni migratori, i risultati di indagini effettuate in diversi continenti ci dicono che la costruzione di muri e il rafforzamento delle frontiere esterne non diminuiscono gli arrivi, ma aumentano esponenzialmente tanto i costi e i rischi del viaggio per gli stranieri, quanto le risorse pubbliche che vengono destinate al controllo dei confini.
L’autore chiarisce che egli non intende sostenere che l’immigrazione non possa avere effetti negativi per le fasce più vulnerabili della popolazione, ma che esistono ragioni per ritenere, da un lato, che la via del “sigillamento” delle frontiere non sia la soluzione, dall’altro, che gli investimenti sempre più consistenti destinati al controllo dei confini potrebbero essere più efficacemente utilizzati per la soluzione di problemi interni che spesso sono alla base dell’immigrazione verso un determinato Paese[30].
Ritengo che simili tesi dovrebbero indurre a riflettere se la direzione che l’Unione europea ha assunto con il Patto porterà effettivamente ai cittadini europei i benefici che da essa le istituzioni si attendono.
3) Vengo all’ultima obiezione.
Essa si fonda sulla seguente considerazione: nel momento in cui qualifica un fatto come lecito, anzi doveroso, l’ordinamento giuridico non compie un’operazione neutra nella formazione delle coscienze, ma partecipa alla costruzione del nostro sistema valoriale.
Applicato al caso che ci occupa, ciò significa che, nel momento in cui il Patto ci dice che i richiedenti asilo possono essere trattenuti in frontiera al fine della verifica del loro diritto all’ingresso, ci viene detto che ciò che sarebbe inimmaginabile lo Stato facesse a noi – e cioè detenerci in assenza di un illecito e, addirittura, per l’esercizio di un diritto – è giusto che accada ad altri.
Vengono così elevate dentro ciascuno di noi – per il tramite di simili norme – quelle che, con un’espressione che mi sembra felice, sono state chiamate «frontiere morali». Vale a dire, «linee simboliche di separazione che collocano alcuni gruppi al di fuori dei margini in cui ci sentiamo obbligati ad applicare norme morali e di giustizia»[31].
La frontiera morale alimenta a sua volta il bisogno di frontiera fisica.
Per uscire da tale spirale, l’unica via è riaffermare la libertà personale come inviolabile per tutti, salvo casi del tutto eccezionali e al di fuori di ogni logica funzionalista.
7. Conclusioni
Il 14 novembre 1938, il New York Times riportava la seguente situazione[32]:
«Scene patetiche sono state riportate oggi dalla frontiera tedesca dove gruppi di ebrei, cercando di lasciare il Reich, letteralmente si sono messi in ginocchio implorando agli ufficiali dei Paesi Bassi di lasciarli passare.
Le guardie di frontiera dei Paesi Bassi sono state raddoppiate e ordini rigidi sono stati dati di prevenire ogni invasione di rifugiati».
Proviamo a immaginare cosa succederebbe oggi.
Immaginiamo che la Germania, oltre a perseguitare gli ebrei, si trovasse in una situazione economica molto difficile, tale da impedire alla generalità della popolazione di assicurarsi condizioni dignitose di vita.
Se le persone discriminate per motivi religiosi fossero state precedute, nella loro richiesta di asilo, da numerosi tedeschi privi di un bisogno di protezione ai sensi della Convenzione di Ginevra, il rischio di essere bloccati in una procedura di frontiera sarebbe stato elevato: se per ogni ebreo in cerca di protezione vi fossero stati quattro tedeschi in fuga per altri motivi, i dati statistici avrebbero potuto rimanere al di sotto della soglia necessaria a garantire l’accesso alla procedura ordinaria di protezione internazionale.
E se poi quei tedeschi privi di effettivo bisogno di protezione avessero dichiarato di essere ebrei, al fine di aumentare le proprie probabilità di trovare accoglienza, il sospetto dell’abuso sarebbe calato indistintamente su tutte le persone provenienti dalla Germania e avrebbe reso tutt’altro che semplice l’accertamento della fondatezza di ciascuna domanda di protezione internazionale.
La situazione avrebbe potuto complicarsi ulteriormente se un certo numero di richiedenti asilo effettivamente rientranti nella definizione di «rifugiati», arrivati alle frontiere europee, avesse ritenuto di dichiarare quanto Hannah Arendt ci ricorda fu la posizione di molti ebrei nei Paesi di accoglienza[33]:
«dichiaravamo di essere partiti di nostra spontanea volontà alla volta di un Paese liberamente scelto rifiutando di ammettere che la nostra situazione avesse nulla a che vedere con i “cosiddetti problemi ebraici”. Sì, eravamo “immigranti”, o “nuovi arrivati”, che avevano lasciato il proprio Paese (…) per ragioni puramente economiche.
Volevamo ricostruire le nostre vite, questo era tutto».
A distanza di decenni, queste frasi sono ancora vere per molti rifugiati.
Numerosi stranieri che arrivano alle frontiere pensano che saranno ricevuti con maggiore benevolenza se dichiarano di avere le competenze richieste dal mercato del lavoro europeo e l’intenzione di intraprendere un’attività lavorativa, anziché manifestare – come pure corrisponderebbe al vero – che nei loro Paesi di origine non era per loro più possibile rimanere. Spiegare a queste persone quale delle loro molteplici identità – quella di persone di buona volontà pronte a lavorare e quella di individui bisognosi di protezione – è pertinente nell’ambito di una procedura di autorizzazione al soggiorno richiede tempo e la costruzione di una relazione di fiducia, beni di fatto disponibili in misura limitatissima nelle procedure in frontiera.
E, comunque, a fronte di dichiarazioni come quelle sopra indicate, la via segnata dal Patto non è nemmeno quella dell’ammissione alla procedura di protezione internazionale in frontiera, ma quella del rimpatrio immediato.
Le numerose variabili di “reazioni umane” appena richiamate inducono a concludere che, a fronte della complessità di ogni accertamento in materia di protezione, il diritto all’ingresso come conseguenza della domanda di asilo sia l’unica effettiva garanzia.
Se poi dalla prospettiva dei richiedenti asilo, ci spostiamo a quella delle autorità di pubblica sicurezza, ulteriori indicazioni contrarie all’opportunità della gestione in frontiera delle domande di asilo vengono in rilievo.
Quale messaggio ricevono, infatti, le autorità di frontiera dal Patto?
Che l’Europa chiede loro una maggiore efficienza nell’esecuzione dei rimpatri.
Ora, vi è da credere che l’importanza assegnata a tale obiettivo non sia priva di rilievo nelle violazioni dei diritti umani e nei gravissimi incidenti sinteticamente richiamati in apertura.
Se, infatti, il messaggio giornaliero che viene dato alle autorità di frontiera è quello di raggiungere il “maggior numero possibile di espulsioni”, perché l’Unione europea e il singolo Paese membro le contano una ad una per verificare la capacità di gestire con efficienza gli stranieri e di ridurne il numero, nessuna norma riuscirà a evitare che alle autorità chiamate ad applicare la legge arrivi l’obiettivo chiaramente sotteso all’intero sistema.
E ciò a maggior ragione se il mandato proviene direttamente dal Patto che, come si è visto, pur richiamando l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali, trova la sua origine in un fine chiaro: prevenire «ingressi e movimenti non autorizzati».
A fronte di mandati contraddittori, quali quello di “respingere tutelando”, l’autorità chiamata ad applicare la legge ben potrà essere indotta a selezionare il “mandato prevalente” che oggi il Patto chiarisce essere quello della restrizione dell’immigrazione.
Come è stato osservato, spesso la commissione di gravi illeciti è stata resa possibile dalla tendenza dell’essere umano a compiere “bene” il lavoro che gli viene assegnato[34].
Ma se così è, per assicurare che episodi come quelli ricordati non avvengano più non è sufficiente modificare qualche disposizione, ma è necessario ristabilire la gerarchia dei fini.
Il che significa – almeno per l’Europa – non un “nuovo inizio”, come è stato detto volersi fare con il Patto, ma tornare effettivamente all’inizio.
A quando l’Europa, nel 1999, nell’indicare la strada della futura evoluzione del sistema europeo in materia di asilo, affermava solennemente che «L’obiettivo è un’Unione europea aperta, sicura, pienamente impegnata a rispettare gli obblighi della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati e di altri importanti strumenti internazionali per i diritti dell’uomo, e capace di rispondere ai bisogni umanitari con la solidarietà»[35].
Ribadire ad ogni livello la precedenza assiologica di tale obiettivo sugli altri è l’unico modo per assicurare che il rispetto dei diritti fondamentali si realizzi anche alle frontiere d’Europa.
1. Corte Edu, 16 novembre 2023, A.E. e altri c. Italia, ricc. nn. 18911/17, 18941/17 e 18959/17. La decisione può essere letta in italiano sul sito del Ministero della giustizia: www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?contentId=SDU467722.
2. La Corte europea accerta che, nel caso concreto, vi era stata sia la violazione dell’art. 3 della Convenzione, che dispone che «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti», sia la violazione dell’art. 5 della medesima Convenzione, che tutela la libertà di ogni individuo da detenzione e arresto arbitrari. Osserva la Corte: «un’ingerenza nella dignità umana colpisce l’essenza stessa della Convenzione. Per tale motivo, la condotta delle forze dell’ordine nei confronti di un individuo che sminuisca la dignità umana costituisce violazione dell’articolo 3 della Convenzione» (punto 81 della sentenza).
3. Merita di essere sottolineato come, grazie all’iniziativa di due avvocati italiani e dell’ASGI, cinque dei cittadini sudanesi espulsi verso il Paese di origine erano riusciti a dare la procura per il ricorso avanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Tale circostanza eccezionale era dovuta all’iniziativa dei difensori, che si erano recati in Sudan per raccogliere personalmente la procura (www.dev.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/conferenza-stampa-sudan-rimpatri/). Nonostante lo sforzo effettuato per garantire l’accesso alla giustizia anche a queste persone, il ricorso non viene considerato fondato dalla Corte Edu (per le ragioni, cfr. 16 novembre 2023, W.A. e altri c. Italia, ric. n. 18787/17), con ciò dimostrandosi l’assoluta disparità di posizioni tra gli stranieri che riescono a rimanere sul territorio europeo e quelli che ne vengono illegittimamente allontanati. Cfr., sul punto, M. Astuti e A. Brambilla, Ventimiglia/Taranto andata e ritorno: evoluzioni e carenze della giurisprudenza EDU in argomento di violazioni poste in essere durante iniziative di contenimento e deterrenza dei flussi migratori nonché di strumenti finalizzati a facilitare l’allontanamento dei cittadini stranieri, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1/2024 (sez. Commenti).
4. Per le decisioni dei singoli Paesi membri in materia (oltre a quelle delle Corti europee) con una sintesi in inglese uno dei migliori riferimenti è l’European Database of Asylum Law (EDAL) dell’European Council on Refugees and Exiles (www.asylumlawdatabase.eu/en).
5. Si svolge sempre in frontiera – questa volta quella polacca – la sorprendente vicenda di alcuni richiedenti asilo provenienti dalla Bielorussia che, pur essendo riusciti eccezionalmente a presentare domanda di asilo in frontiera facendosi assistere da avvocati polacchi, erano comunque stati più volte respinti dalle autorità polacche in quanto non richiedenti protezione. Cfr. Corte Edu, 23 luglio 2020, M.K. e altri c. Polonia, ricc. n. 40503/17, 42902/17 e 43643/17.
6. Parlamento europeo, Servizio Ricerca, G. Cornelisse - M. Reneman - P. Baeyens et al., Asylum procedures at the border – European implementation assessment, Parlamento europeo, 2020 (https://data.europa.eu/doi/10.2861/297815). Veniva altresì effettuata un’analisi comparata del funzionamento della procedura di asilo in frontiera nei diversi Paesi membri.
7. Vds., in questo senso, l’Explanatory statements del REPORT on the implementation of Article 43 of Directive 2013/32/EU of the European Parliament and of the Council of 26 June 2013 on common procedures for granting and withdrawing international protection (www.europarl.europa.eu/doceo/document/A-9-2021-0005_EN.html#_section4).
8. Cfr., ad esempio, Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, Migration: Key Fundamental Rights Concerns, Bulletin 2-2021 (https://fra.europa.eu/sites/default/files/fra_uploads/fra-2021-migration-bulletin-2_en.pdf).
9. Corte di giustizia dell’Unione europea, 17 novembre 2020, C-808/18, Commissione c. Ungheria.
10. Determinazione del Paese membro responsabile a decidere di una domanda di asilo e solidarietà, ricollocazioni, eventuali situazioni di forza maggiore, rimpatri, procedure di asilo e di screening, definizione della nozione di rifugiato e protezione sussidiaria, condizioni di accoglienza, Agenzia per l’asilo, reinsediamenti, ampliamento dell’uso delle banche dati: ciascuno di questi temi è oggetto di uno strumento legislativo differente riconducibile al Patto.
Per un’eccellente sintetica ricostruzione dei contenuti e della genealogia del Patto, si rinvia a P. De Bruyckere, Genealogy of and Futurology on the Pact on Migration and Asylum (6 maggio 2024), e agli altri contributi pubblicati nel sito del Network Odysseus, https://eumigrationlawblog.eu/genealogy-of-and-futurology-on-the-pact-on-migration-and-asylum/.
11. Regolamento (UE) 2024/1348 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 maggio 2024, che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE.
12. Direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (rifusione).
13. Art. 45 (significativamente rubricato «Applicazione obbligatoria della procedura di asilo alla frontiera») del nuovo regolamento, che richiama l’art. 42.
14. L’art. 51, par. 2, del regolamento (UE) 2024/1348 prevede: «la procedura di frontiera è il più breve possibile, senza tuttavia pregiudicare la completezza e l’equità dell’esame della domanda. (…) La durata massima della procedura di frontiera è di 12 settimane dalla data di registrazione della domanda fino a quando il richiedente non ha più diritto di rimanere né è autorizzato a rimanere. (…) la durata stabilita [da ciascun Paese membro deve essere tale da garantire] della complessiva procedura amministrativa e giudiziaria».
15. In realtà, tale garanzia è di fatto già preclusa a molti di loro, in seguito al progressivo ampliamento del numero di Paesi di origine qualificati come “sicuri” nella disciplina italiana. Sul punto, cfr. – sia pure per un rapidissimo cenno – quanto osservato al par. 4.
16. Artt. 43, par. 2, e 54 del regolamento (UE) 2024/1348.
17. In Memorie del sottosuolo (Einaudi), p. 44.
18. Ciò appare tanto più evidente laddove si consideri che la determinazione percentuale si fonda su dati che registrano esclusivamente gli esiti delle decisioni di primo grado senza tenere conto delle correzioni statistiche derivanti dalle impugnazioni.
19. Regolamento (UE) 2024/1359 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 maggio 2024, concernente le situazioni di crisi e di forza maggiore nel settore della migrazione e dell’asilo e che modifica il regolamento (UE) 2021/1147.
20. Regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide (“regolamento Dublino III”).
21. Regolamento (UE) 2024/1351 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 maggio 2024, sulla gestione dell’asilo e della migrazione, che modifica i regolamenti (UE) 2021/1147 e (UE) 2021/1060 e che abroga il regolamento (UE) n. 604/2013. È certo vero che, come misura compensativa della confermata ineguale ripartizione delle responsabilità tra Paesi membri, è stata introdotta la solidarietà obbligatoria (e questa è senz’altro una novità del Patto), ma tale solidarietà – che, comunque, si svolgerà a valle e non a monte del processo – ha natura “flessibile”. In base alle nuove misure, gli Stati membri, pur essendo tenuti a partecipare in qualche misura all’onere derivante dall’iniqua ripartizione dei richiedenti asilo, potranno scegliere tra tre tipi di solidarietà: la ricollocazione dei richiedenti asilo, contributi finanziari per progetti e misure alternative.
22. Al fine di assicurare l’efficienza del nuovo sistema, con il Patto viene introdotto anche un «Regolamento sul rimpatrio in frontiera», il regolamento (UE) 2024/1349 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 maggio 2024 (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=OJ:L_202401349). Tale Regolamento è stato approvato con un atto separato rispetto al regolamento procedure, dal momento che solo il regolamento relativo alla procedura di rimpatrio alla frontiera rientra nell’acquis di Schengen e ha, quindi, un diverso campo di applicazione geografica rispetto al regolamento procedure.
23. New Pact on Migration and Asylum: Comments by Greece, Italy, Malta and Spain, comunicazione del novembre 2020 (www.lamoncloa.gob.es/presidente/actividades/Documents/2020/251120-Non%20paper%20Pacto%20Migratorio.pdf).
24. Dati estremamente interessanti sulla durata delle procedure amministrative e giudiziarie in Germania, con riferimento alle domande di protezione internazionale relative a Paesi con tasso di accoglimento inferiore al 5% per l’anno 2023, sono reperibili sul sito del Parlamento tedesco: https://dserver.bundestag.de/btd/20/099/2009933.pdf.
25. Cgue, C-564/18, 19 marzo 2020, LH.
26. M.A. Sandulli, Il tempo del processo come bene della vita, in Federalismi, n. 18/2014 (www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?artid=27472).
27. Corte costituzionale, 23 luglio 2010, n. 281.
28. Art. 51, par. 2, regolamento procedure.
Già oggi un rilevantissimo numero di procedure accelerate “saltano”, con concessione al ricorrente della sospensione automatica, proprio per l’impossibilità per le autorità amministrative di svolgere l’esame nei brevi termini attualmente previsti dalla normativa. Fondamentale per chiarire gli effetti del mancato rispetto dei termini per la procedura accelerata da parte dell’amministrazione, la sentenza delle sezioni unite del 9 aprile 2024, n. 11399. Per un commento a tale rilevantissima sentenza, si rinvia a U. Castagnini e M. Sturiale, Procedure accelerate e mancato rispetto dei termini: intervengono le Sezioni Unite, in Questione giustizia online, 21 maggio 2024 (www.questionegiustizia.it/articolo/procedure-accelerate-ssuu).
29. Cfr. H. de Haas, How Migration Really Works. A Factful Guide to the Most Divisive Issue in Politics, Penguin, Londra, 2023, part. pp. 326 ss., ove viene dato conto delle ricerche che sconfessano l’idea che le restrizioni alla frontiera riducano l’immigrazione e vengono messi in luce i costi crescenti di tali politiche di contenimento.
30. Per soluzioni che potrebbero servire a ridurre l’immigrazione, al contempo migliorando la vita delle persone, cfr. sempre H. de Haas, op. ult. cit., pp. 358 ss.
31. D. Buraschi e M.J. Aguilar-Idáñez, Fronteras morales: la construcción psicosocial de la indiferencia frente al racismo, in Ángeles Solanes Corella (a cura di), Dinámicas racistas y prácticas discriminatorias. La realidad en España, Francia, Italia, Dinamarca y Finlandia, Aranzadi (Thomson Reuters), Cizur Menor (Navarra)-Madrid-Barcellona, 2022, pp. 89-110. Cfr. anche S. Opotow, Moral Exclusion and Injustice, in Journal of Social Issues, vol. 46, n. 1/1990, pp. 1-20; K.S. Wahrer - C.J. Najdowski - J.V. Passarelli, Effects of dehumanization and disgust-eliciting language on attitudes toward immigration: a sentiment analysis of Twitter data, in Psychiatry, Psychology and Law, 14 marzo 2024, pp. 1-26 (www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/13218719.2023.2296484).
32. www.nytimes.com/1938/11/14/archives/jews-on-knees-beg-netherlands-entry-implore-admission-at-border-but.html.
33. H. Arendt, Noi rifugiati, Torino, Einaudi, 2022, p. 4.
34. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 2004. Per osservazioni relative all’importanza del mandato e al rischio di mandati contraddittori, in relazione alla realtà contemporanea, vedi le illuminanti considerazioni – sia pure con riferimento ai servizi sociali – di B. Zacka, When the State meets the Street, Public Service and Moral Agency, Harvard University Press, Cambridge (MA), 2017.
35. Consiglio europeo di Tampere, 15-16 ottobre 1999, Conclusioni della Presidenza.