Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Articolo 131-bis codice penale e giudice di pace

di Elena Nadile
giudice, Tribunale di Livorno
Le Sezioni unite sanciscono l'inapplicabilità della causa di non punibilità con riferimento ai reati appartenenti alla competenza del giudice di pace

Con la sentenza del 28 novembre 2017 (udienza 22 giugno 2017) n. 53683, le Sezioni unite della suprema Corte di cassazione sono intervenute al fine di comporre il contrasto giurisprudenziale insorto in ordine all’applicabilità della speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cp (introdotta con il d.lgs del 16 marzo 2015 n. 28, attuativo della legge 28 aprile 2014, n. 67, entrato in vigore il 2 aprile 2015) − norma con cui il legislatore, in ossequio ai principi di proporzione e di economia processuale, ha inteso agevolare la fuoriuscita dal nostro sistema giuridico di tutte quelle condotte che, pur integrando gli estremi di fatti tipici, non appaiono in concreto meritevoli di pena – con riferimento ai reati appartenenti alla competenza del giudice di pace.

I due orientamenti giurisprudenziali formatisi sul punto, seppur sono pervenuti a soluzioni diametralmente opposte, hanno preso le mosse entrambi dall’evidenziare le profonde differenze operative e strutturali intercorrenti tra l’istituto della particolare tenuità del fatto (ex art. 131-bis cp) e quello della speciale causa di improcedibilità di cui all’art. 34 d.lgs 274/2000, già nota nel procedimento dinnanzi al giudice di pace (diversità che del resto era già stata rilevata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 25 del 2015 la quale aveva segnalato in tale occasione come la disposizione di cui all’art. 131-bis cp era sensibilmente diversa da  quella di cui all’art. 34 d.lgs 274/2000 perché configurava la particolare tenuità dell’offesa come una causa di non punibilità invece che come causa di non procedibilità con una formulazione che, peraltro, non faceva riferimento, a differenza della normativa operativa nell’ambito del procedimento dinnanzi al giudice di pace, al grado della colpevolezza, all’occasionalità del fatto, alla volontà della persona offesa e alle varie esigenze dell’imputato).

Tanto premesso, giova, innanzitutto chiarire che la norma di cui all’art. 131-bis cp ha introdotto un istituto di diritto penale sostanziale (vds. sul punto Sez. unite, 25 febbraio 2016, n. 13681) in quanto incidente direttamente sulla punibilità del fatto illecito (e come tale dunque anche offensivo del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice), sicché lo stesso, in quanto norma indubbiamente più favorevole al reo, ai sensi dell’art. 2, comma 4 cp, può essere applicato retroattivamente anche ai fatti che sono stati commessi prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo che ne ha sancito la sua introduzione (2 aprile 2015).

Per di più, occorre rilevare che i presupposti oggettivi e soggettivi per far applicazione della norma sopra richiamata posso essere così schematizzati:

1) la pena edittale, calcolata ai sensi dell’art. 131-bis, comma 4 cp, non deve essere superiore nel massimo a cinque anni di reclusione;

2) l’offesa in concreto arrecata al bene giuridico protetto dalla norma a parere del giudice procedente deve essere ritenuta di particolare tenuità (avuto riguardo alla modestia del fatto, alla breve durata dell’episodio accaduto, e a tutte le altre modalità e circostanze del fatto);

3) non deve ricorrere alcuna delle situazioni elencate dall’art. 131-bis, comma 2 cp in presenza delle quali deve escludersi ex lege la particolare tenuità dell’offesa;

4) il danno o il pericolo arrecato dalla condotta (desumibile dalle modalità di svolgimento dei fatti) deve essere considerato certamente esiguo;

5) il comportamento dell’imputato non deve risultare abituale, sia perché non deve ricorrere alcuno dei requisiti indicati dall’art. 131-bis, comma 3 cp, in presenza dei quali il comportamento è da presumersi abituale, sia perché non devono risultare a carico dell’imputato stesso precedenti penali, giudiziali o di polizia specifici, cosicché può essere escluso che lo stesso ponga abitualmente in essere reati della stessa indole di quello per cui si procede.

Inoltre, dal punto di vista operativo, l’istituto in esame, non presuppone la preventiva audizione da parte del giudice della persona offesa.

Tanto chiarito, deve, invece, rilevarsi che l’operatività della speciale causa di improcedibilità di cui all’art. 34 d.lgs 274/2000 (applicabile del resto all’intera gamma delle fattispecie demandate alla cognizione del giudice di pace senza, quindi, alcuna limitazione quoad poenam) è ictu oculi molto più stringente.

Ed infatti, a tale riguardo, non solo la norma in esame esige che la valutazione circa la sussistenza della particolare tenuità deve riguardare il fatto e non l’offesa (valutazione che peraltro implica un esame congiunto degli indici normativamente indicati, ossia l’esiguità del danno o del pericolo, il grado di colpevolezza e l’occasionalità del fatto, e che deve tenere in considerazione l’incidenza del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può arrecare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato), ma conferisce alla parte lesa una vera e propria “facoltà inibitoria” atteso che, una volta esercitata l’azione penale, l’applicabilità della citata norma è subordinata alla mancata opposizione da parte di quest’ultima e dello stesso imputato, mentre in sede di indagini la valutazione circa l’esistenza di un interesse da parte della persona offesa preclude l’immediata definizione del procedimento.  

Evidenziate, quindi, le differenze intercorrenti tra i due istituti, secondo un primo orientamento giurisprudenziale  (rimasto tuttavia minoritario), la nuova causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cp è applicabile anche ai reati di competenza del giudice di pace atteso che i rapporti tra tale norma e l’art. 34 d.lgs 274/2000 non possono essere risolti facendo applicazione del principio di specialità dal momento che esse non presuppongono la medesima situazione di fatto, ma situazioni solo parzialmente convergenti.

Da ciò ne consegue che un fatto non rientrante nella previsione di cui all’art. 34 d.lgs 274/2000, può essere sussumibile, invece, nell’ambito dell’art. 131-bis cp e viceversa.

Del resto, sempre secondo quanto sostenuto da tale orientamento, nessuna indicazione normativa ha sconfessato tale soluzione né tantomeno indicazioni di segno contrario sono desumibili dal parere espresso dalla Commissione Giustizia sullo schema di decreto legislativo del 3 febbraio 2015.

In definitiva, secondo l’opzione interpretativa in esame «sono proprio le differenze fra i due istituti (e la disciplina sostanzialmente di maggior favore prevista dall’art. 131-bis cp), che inducono a ritenere che quest’ultima sia applicabile – nel rispetto dei soli limiti espressamente indicati dalla norma – a tutti i reati, ivi compresi quelli di competenza del giudice di pace, anche perché sarebbe altamente irrazionale e contrario ai principi generali che una norma di diritto sostanziale – nata per evitare alla persona offesa il pregiudizio derivante dalla condanna per fatti di minima offensività, che la coscienza comune percepisce come di minimo disvalore, e per ridurre i costi connessi al procedimento penale – sia inapplicabile proprio ai reati che, per essere di competenza del giudice di pace, sono ritenuti dal legislatore di minore gravità».

Ciò posto, deve tuttavia rilevarsi che un distinto nonché maggioritario orientamento giurisprudenziale ha invece ritenuto non applicabile la causa di non punibilità ex art. 131-bis cp ai reati ricompresi nella competenza del giudice di pace.

Secondo tale opzione interpretativa, infatti, la risposta negativa al quesito sopra indicato deve essere tratta proprio dalle differenze tra gli istituti disciplinati rispettivamente dall’art. 131-bis cp e dall’art. 34 d.lgs 274/2000.

I connotati di specialità rinvenibili, soprattutto sotto il profilo del ruolo della persona offesa, escludono che il citato art. 34 sia stato tacitamente abrogato dalla novella del 2015 e conducono a respingere, quindi, la tesi secondo cui per i reati di competenza del giudice di pace possa trovare applicazione la causa di non punibilità di cui all’art 131-bis cp.

Tale soluzione, dal punto di vista sostanziale, secondo tale orientamento giurisprudenziale, è peraltro imposta dalla disciplina di cui all’art 16 cp che conferma la conclusione secondo cui nei rapporti tra il codice penale (inteso quale legge generale) e le altre leggi speciali, le disposizioni del primo si applicano anche alle materie regolate dalle seconde laddove non sia da queste diversamente stabilito.

È stato, inoltre, evidenziato che il citato art. 34 rinviene il proprio fondamento giustificativo nella finalità conciliativa che rappresenta un tratto essenziale del sistema fondante la giurisdizione del giudice di pace che ne risulterebbe inevitabilmente compromessa in caso di applicazione dell’art. 131-bis cp posto che tale ultima norma è del tutto svicolata dai limiti di operatività (più stringenti) sanciti dall’art. 34 d.lgs 274/2000.

Pertanto, in definitiva, secondo tale orientamento, non solo l’art. 16 cp esclude sul terreno sostanziale l’applicabilità della nuova causa di non punibilità ai reati di competenza del giudice di pace, ma tale soluzione appare, altresì, più coerente con l’interpretazione sistematica volta a valorizzare il favor per la conciliazione tra le parti che ispira la giurisdizione penale del giudice di pace stesso.

Tanto premesso, stante l’evidente contrasto giurisprudenziale insorto in ordine alla tematica in esame, con l’ordinanza n. 20245 del 28 aprile 2017 la Cassazione penale, sezione III, ha sottoposto alle Sezioni unite la seguente questione di diritto: «Se la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., sia applicabile nei procedimenti relativi ai reati di competenza del giudice di pace».

Le Sezioni unite dal canto loro con la sentenza del 28 novembre 2017 (ud. 22 giugno 2017) n. 53683 hanno avallato la soluzione negativa.

I supremi giudici di legittimità hanno innanzitutto premesso che la novella del 2015 (d. lgs n. 28/2015) con l’introduzione dell’art. 131-bis cp, ha attuato la volontà legislativa finalizzata a realizzare, mediante l’attività interpretativa del giudice, la depenalizzazione di un fatto tipico, ma da ritenere non punibile in ragione dei principi di proporzione e di economia processuale, mentre l’art. 34 d.lgs 274/2000 si inserisce nell’ambito di un procedimento (nel quale il giudice deve favorire la conciliazione tra le parti e in cui la citazione a giudizio può avvenire anche su ricorso della persona offesa) connotato da un’accentuata semplificazione, in cui si innestano forme alternative di definizione non previste dal codice di procedura penale, avente ad oggetto la trattazione di reati di minore gravità nonché dotato di un apparato sanzionatorio del tutto autonomo. 

Ciò premesso, secondo le Sezioni unite, la sostanziale diversità di regolamentazione dei due istituti, seppur entrambi finalizzati a disciplinare il fenomeno giuridico della irrilevanza penale del fatto in ragione della sua particolare tenuità, non chiama in causa né il principio di specialità come criterio di risoluzione di un concorso apparente tra due discipline riguardanti lo stesso oggetto né il principio della necessaria operatività anche nel procedimento dinnanzi al giudice di pace dell’art. 131-bis cp, inteso come lex mitior soggetta alla disciplina intertemporale di cui all’art. 2 cp.

In effetti, sempre a detta delle Sezioni unite la ricerca della eventuale esistenza di un rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 cp, che presuppone, quindi, l’individuazione di un nucleo comune presente in entrambe le discipline in esame, con l’aggiunta di uno o più elementi specializzanti in assenza dei quali la norma speciale torna ad essere integralmente sostituibile dalla norma generale, non costituisce affatto l’operazione ermeneutica in grado di fornire una chiave di lettura risolutiva dei rapporti intercorrenti tra l’art. 34 d.lgs 274/2000 e l’art. 131-bis cp.

A tale riguardo, infatti, le Sezioni unite hanno piuttosto ritenuto che le norme sopra indicate sono connotate da elementi specializzanti che valgono a qualificare il rapporto intercorrente tra le stesse al più in termini di interferenza; inoltre, il ricorso alla nozione di «specialità reciproca» non fornirebbe un criterio risolutivo per il superamento di un concorso apparente di norme, atteso che «essa non risulta elaborata , dalla giurisprudenza, per la selezione della fattispecie da far prevalere sull’altra ma per sostenerne la coesistenza».

Il criterio ermeneutico che, invece, è da preferire è quello secondo cui nel procedimento dinnanzi al giudice di pace, possono trovare applicazione anche le norme del codice di rito in quanto applicabili e salvo le eccezioni espressamente formulate.

In particolare le Sezioni unite hanno richiamato quale soluzione interpretativa utile per la risoluzione del conflitto il principio espresso dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 47/2014 con cui veniva riconosciuta la compatibilità costituzionale dell’art. 60 d.lgs 274/2000 avente ad oggetto l’esclusione della sospensione condizionale della pena per i reati di competenza del giudice di pace.

In quella sede, infatti, la Corte costituzionale, evidenziando che qualunque valutazione circa la compatibilità di un precetto con la disciplina prevista per il procedimento dinnanzi al giudice di pace non deve essere operata isolatamente considerata bensì tenendo conto del suo inserimento all’interno di un sistema diversamente strutturato, salvaguardava l’autonomia dei connotati specializzanti del procedimento penale dinnanzi al giudice di pace stesso.

Pertanto, secondo quanto statuito dalla Consulta, posto che il d.lgs 274/2000 si addice a “legge penale speciale”, il compito dell’interprete è piuttosto quello di effettuare un raffronto tra il citato art. 34 e l’art. 131-bis cp al fine di verificare se la legge penale speciale nel suo complesso non contenesse già un’autonoma disciplina della materia, finalizzata a precludere l’operazione di confronto tra le singole leggi o disposizioni sulla stessa materia.

L’esclusione della sospensione condizionale della pena prevista dall’art. 60 d.lgs 274/2000 ha indotto peraltro la giurisprudenza di legittimità a ritenere che tale previsione debba risultare operativa anche laddove il reato in questione sia giudicato da un giudice diverso salvo che il giudizio abbia ad oggetto anche altri reati che non siano di competenza del giudice di pace e che per connessione abbiano attratto dinnanzi al diverso giudice, il reato di competenza di quest’ultimo.

Allo stesso modo l’art. 63 d.lgs 274/2000 ha sancito che laddove il giudice diverso giudichi per connessione reati di competenza del giudice di pace è operativa la speciale causa di improcedibilità di cui all’art. 34 con i suoi presupposti e requisiti «a meno che per il reato attraente non risulti applicabile l’art. 131-bis, in tale caso operando la norma in questione per tutti i reati giudicati mentre nei confronti dell’art. 34 rimane integrata la “causa di non applicabilità” in concreto».  

Ciò posto, deve, quindi, rilevarsi che è da escludere che tra l’art. 34 in esame e l’art. 131-bis cp possa configurarsi un rapporto di genere a specie per la sostanziale diversità dei presupposti e degli effetti riconducibili ai due istituti, dovendosi escludere pertanto in radice l’operatività dell’art. 15 cp che presuppone, invece, una incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti (mentre invece nel caso che ci occupa nonostante le sostanziali divergenze tra i due istituti in esame, essi non impediscono in linea di principio la loro convivenza all’interno del nostro ordinamento).

Per di più, secondo le Sezioni unite, gli argomenti utilizzati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, correlati alla natura sostanziale dell’istituto di nuovo conio disciplinato dall’art. 131-bis cp ( e dunque ai suoi connotati peculiari fondanti sul principio della «legge sostanziale sopravvenuta più favorevole»), non possono dispiegare i propri effetti in ordine alla problematica in esame nell’ambito della quale la ragione che determina la non operatività della nuova causa di non punibilità ai reati di competenza del giudice di pace deve essere più correttamente rinvenuta in valori di pari dignità che ne fanno da contrappeso.

Decisivo a tal fine è appunto il fatto che il procedimento dinnanzi al giudice di pace ha dei suoi tratti peculiari con epiloghi decisori specifici modulati in termini tali da porre il giudice in un’ottica operativa volta a realizzare la conciliazione tra le parti antecedentemente rispetto alla conclusione del processo.

In tale finalità di inserisce, inoltre, la configurabilità di un vero e proprio diritto potestativo in favore della persona offesa, relativamente ai reati procedibili a querela, idoneo a precludere la conclusione del processo per minima offensività del fatto, accompagnato dalla previsione che le condotte riparatorie o risarcitorie sono idonee a determinare l’estinzione del reato (in caso però di mancata ricomposizione sociale ne consegue pertanto l’affermazione di un diritto penale più mite, privo infatti, di pene detentive, non soggetto a sospensione condizionale).

Da tutto quanto premesso e valorizzando dunque la sostanziale autonomia del procedimento penale dinnanzi al giudice di pace rispetto al processo ordinario presso il tribunale, le Sezioni unite hanno elaborato il seguente principio di diritto: «La causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., non è applicabile nei procedimenti relativi a reati di competenza del giudice di pace».

23/01/2018
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