- Tribunale di Trapani, GIP, sentenza 23 maggio 2019
- Corte d'Appello Palermo Sez. IV pen., sentenza n. 1525/2020
1. I fatti oggetto di giudizio
Le sentenze di primo e secondo grado propongono la stessa ricostruzione dei fatti, sebbene diversi siano gli esiti dei due giudizi. Nei due gradi di giudizio si è accertato che – nel luglio 2018 – un rimorchiatore battente bandiera italiana (il rimorchiatore Vos Thalassa) soccorse più di sessanta migranti che si trovavano a bordo di un piccolo natante in legno in procinto di affondare. Il personale del rimorchiatore Vos Thalassa comunica la circostanza alle autorità italiane (MRCC Roma: Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo); queste ultime inoltrano la comunicazione al MRCC libico, senza però ottenere risposta. In un primo momento, in assenza di risposte dalle autorità libiche, il MRCC di Roma invita il comandante del rimorchiatore a fare rotta su Lampedusa; in un secondo momento, però, la Guardia costiera libica contatta il personale del rimorchiatore Vos Thalassa, ordinando di dirigere l’imbarcazione verso le coste africane, onde consentire alle autorità libiche di prendere in carico il soccorso, per trasbordare i naufraghi su motovedette libiche. Il comandante del rimorchiatore, a questo punto, contatta nuovamente MRCC Roma che dà indicazioni di seguire le indicazioni delle autorità libiche. Il Vos Thalassa volge allora la rotta nuovamente verso sud. Sennonché, nel corso della notte, uno dei migranti (dotato di smartphone con GPS) si avvede del fatto che l’imbarcazione ha cambiato rotta per dirigersi verso le coste libiche. Ne scaturisce uno stato di concitazione tra i migranti che si dirigono in gran numero verso il marinaio di guardia, chiedendo – in maniera agitata – di poter parlare con il comandante o con un ufficiale. La richiesta dei naufraghi soccorsi è quella di invertire la rotta e di non essere ricondotti in Libia.
Le modalità con cui fu avanzata tale richiesta è – nella ricostruzione operata nelle due sentenze di merito – violenta (spintoni e strattonamenti in danno del personale di bordo del rimorchiatore) e minacciosa (minacce di morte, in particolare, mimando il gesto del taglio della gola). L’esatta ricostruzione delle condotte materiali tenute dai migranti soccorsi dal rimorchiatore non è del tutto lineare (non essendo del tutto collimanti le ricostruzioni dei fatti proposte dalle persone informate sui fatti esaminate nel corso del procedimento) e può anche soffrire di qualche imprecisione legata al difficile contesto comunicativo determinatosi a bordo del rimorchiatore (per esempio: mentre i marinai del Vos Thalassa interpretarono il gesto del taglio della gola come una minaccia rivolta al loro indirizzo, alcuni naufraghi presenti a bordo del rimorchiatore hanno precisato che, con quel gesto, essi volevano rappresentare ai marinai il rischio che i migranti avrebbero corso in caso di loro riconsegna ai libici).
In ogni caso, al netto di queste difficoltà ricostruttive, si deve evidenziare che tanto il GIP, quanto la Corte di appello, hanno ritenuto che la richiesta di non essere consegnati alle autorità libiche fu accompagnata da comportamenti violenti e minacciosi ascrivibili ai migranti e posti in essere in danno del personale di bordo del rimorchiatore Vos Thalassa.
A questo punto, il comandante segnala la situazione di pericolo alle autorità italiane che, infine, invia sul posto un’unità navale della Guardia costiera italiana (la motonave Diciotti) che, imbarcati i migranti a bordo, li conduce in Italia [per la ricostruzione dei fatti: GUP Trapani, sentenza 23.5.2019, pp. 5-20; Corte di appello di Palermo, IV sezione penale, sentenza 3.6.2020, pp. 1-2].
2. La sentenza assolutoria di primo grado
Il GUP presso il Tribunale di Trapani assolve ambedue gli imputati, ritenendo provata la materialità dei fatti che, però, non sarebbero punibili ricorrendo gli estremi della causa di giustificazione della legittima difesa. Il giudice di primo grado giunge a tale conclusione all’esito di un articolato ragionamento che qui non è possibile (né necessario, essendo altro lo scopo di questa nota) ripercorrere per intero.
In sintesi, si può qui ricostruire il ragionamento del giudice di primo grado come segue.
Anzitutto, il GUP procede ad una articolata ricognizione delle fonti normative pertinenti in materia di soccorsi in mare [tra esse la Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982, nella Convenzione di Londra per la salvaguardia della vita in mare del 1974, e soprattutto nella Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio in mare (SAR) del 1979], all’esito della quale individua: (a) l’esistenza di un obbligo di salvataggio in mare della vita umana; (b) un dovere di individuazione di un porto sicuro (POS) ove sbarcare le persone; (c) un correlativo diritto soggettivo dei migranti soccorsi in mare ad essere ricondotti in un POS.
Va evidenziato che il GUP evidenzia che il concetto di POS – nello specifico caso di migranti soccorsi in mare – va declinato in modo particolarmente attento: «laddove le persone soccorse in mare, oltre che “naufraghi”, si qualifichino – in termini di status – anche come “migranti/rifugiati/richiedenti asilo”, soggetti quindi alle garanzie ed alle procedure di protezione internazionale, l’accezione del termine “sicuro” (riferita al luogo di sbarco) si connota anche di altri requisiti, legati alla necessità di non violare i diritti fondamentali delle persone, sanciti dalla norme internazionali sui diritti umani (…), impedendo che avvengano “sbarchi” in luoghi “non sicuri”, che si tradurrebbero in aperte violazioni del principio di non-respingimento, del divieto di “espulsioni collettive”, e, più in generale, pregiudizievoli dei diritti di “protezione internazionale” accordati ai rifugiati e richiedenti asilo» [GUP Trapani, sentenza 23.5.2019, p. 27 della motivazione].
In secondo luogo, il GUP di Trapani dà conto del contenuto di una nota dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) nella quale si tratteggiano in modo drammatico e impietoso le condizioni di vita dei diritti dei migranti presenti in territorio libico, il trattamento riservato dalle autorità libiche ai migranti, la sistematica violazione di molti diritti fondamentali dell’uomo [drammaticità del contesto che è qui impossibile restituire; per la ricostruzione proposta dall’UNHCR, cfr. GUP Trapani, sentenza 23.5.2019, pp. 46 e ss. della motivazione].
Così inquadrata la questione, il GUP ne trae le conclusioni sul piano dell’applicazione delle norme penali contestate ai due imputati. I migranti a bordo del rimorchiatore Vos Thalassa «stavano vedendo violato il loro diritto ad essere condotti in un luogo sicuro [essendo] l’ordine impartito dalle autorità libiche alla Vos Thalassa palesemente contrario alla Convenzione di Amburgo» [GUP Trapani, sentenza 23.5.2019, p. 65 della motivazione].
Ciò posto, le condotte violente e minacciose tenute dai migranti erano dettate dalla necessità di difendere un proprio diritto, ossia quello di non essere consegnati alle autorità di un Paese in cui i loro diritti fondamentali sarebbero stati posti a repentaglio.
Il pericolo concreto e attuale di lesione dei diritti fondamentali – prosegue il GUP – «non era stato volontariamente determinato dai migranti» [GUP Trapani, sentenza 23.5.2019, p. 66 della motivazione]. Infatti, «il viaggio in mare era parte di un lungo percorso intrapreso per allontanarsi da luoghi per loro pericolosi e non più vivibili» [GUP Trapani, sentenza 23.5.2019, pp. 66-67 della motivazione, ove si sottolinea che uno dei due imputati proveniva dal Darfour e ove si segnala – quanto all’altro imputato, proveniente dal Ghana – che, comunque, la sua condizione di migrante con possibile diritto a qualche forma di protezione umanitaria avrebbe richiesto un attento vaglio della sua condizione individuale].
Infine – annota il GUP – l’azione dei due imputati era connotato da un livello di coartazione sulla sfera di libertà morale dei membri dell’equipaggio del rimorchiatore Vos Thalassa da ritenere sicuramente proporzionato rispetto al rischio che – con le loro condotte violente e minacciose – essi volevano scongiurare (ossia il rischio di essere ricondotti in Libia, con pericolo di esposizione a tortura e altri trattamenti inumani e degradanti) [GUP Trapani, sentenza 23.5.2019, pp. 67 e s. della motivazione].
All’esito di tale ragionamento – ravvisando gli estremi della causa di giustificazione della legittima difesa – il GUP assolve gli imputati da ambedue gli addebiti (ivi compreso quello di violazione dell’art. 12 D.lgs. n. 286/1998, essendo emerso che gli imputati erano meri migranti e non scafisti) [GUP Trapani, sentenza 23.5.2019, p. 69].
3. La sentenza di condanna di secondo grado
Il Pubblico ministero propone impugnazione censurando l’articolato ragionamento svolto dal GUP sotto una molteplicità di profili (osservando che i trattati internazionali assicurano solo il diritto di asilo e contestando sussista un diritto soggettivo dei migranti a godere del principio di non respingimento; contestando la nozione di «porto sicuro» proposta dal GUP; contestando l’interpretazione data dal GUP delle norme internazionali in materia di soccorsi in mare; contestando la sussistenza di una situazione di legittima difesa, segnatamente sotto il profilo della sussistenza di una situazione di pericolo attuale di lesione di un diritto soggettivo, tale da giustificare la difesa, ritenuta invece legittimata dal GUP).
A fronte di un atto di impugnazione che sollevava una molteplicità di questioni, la Corte di appello ribalta la decisione impugnata, ritenendo che «il giudice di primo grado non abbia fatto corretto uso dei principi regolatori della causa di giustificazione della legittima difesa».
I giudici dell’impugnazione prendono atto del «mirabile sforzo interpretativo» - ritenuto «talvolta fors’anche eccessivo» - profuso dal GUP nella ricostruzione del quadro della normativa sui soccorsi in mare. Tuttavia, il giudice avrebbe «omess[o] di soffermarsi con analogo scrupolo sull’esame dei principi regolatori della causa di giustificazione applicata» [Corte di appello di Palermo, sentenza 3.6.2019, p. 5 della motivazione].
La Corte di appello – ripercorrendo gli approdi della giurisprudenza di legittimità in materia – ricorda infatti che l’applicabilità della causa di giustificazione della legittima difesa è preclusa allorché «il pericolo sia stato volontariamente causato o accettato preventivamente dallo stesso soggetto che chiede il riconoscimento della scriminante» [Corte di appello di Palermo, sentenza 3.6.2019, p. 6 della motivazione].
Dato questo postulato, la Corte di appello ricorda che «nessun dubbio può serbarsi sul fatto che i migranti -e, nel caso che ci occupa, gli odierni imputati – si siano posti in stato di pericolo volontariamente, sia avendo pianificato una traversata in condizioni di estremo pericolo, sia avendo poi chiesto i soccorsi al fine di essere recuperati da natanti di salvataggio»; da ciò conseguirebbe che «l’intervento di soccorso non può in alcun modo essere considerato, nella dinamica causale che caratterizzò l’evento, come un fatto imprevedibile, bensì come l’ultimo di una serie di atti programmati, finalizzati a raggiungere il suolo europeo, con una serie di tappe prefissate». La Corte prosegue rilevando che «venne dunque posta in essere una condotta da parte dell’organizzazione criminale che organizzò il viaggio, pienamente accettata dai migranti, per cui venne creata artificiosamente una situazione di necessità (la partenza su un barcone in legno stipato di persone e chiaramente inadatto alla traversata del canale di Sicilia), atta a stimolare un intervento di supporto, che conducesse all’approdo dei clandestini ed al perseguimento del fine dell’organizzazione criminale; e, dunque, ad assicurare lo sbarco dei migranti sul suolo italiano» [Corte di appello di Palermo, sentenza 3.6.2019, pp. 6-7 della motivazione; corsivi di chi scrive].
In altri termini: la condizione di pericolo sarebbe stata intenzionalmente causata dai trafficanti e dai migranti e le azioni violente e minacciose degli imputati non sarebbero state poste in essere come atto dettato dalla necessità di difendere un diritto da un’offesa ingiusta, bensì «come atto finale di una condotta delittuosa» [Corte di appello di Palermo, sentenza 3.6.2019, p. 7 della motivazione; corsivi di chi scrive].
La Corte di appello ritiene poi di dover sgombrare il campo da quello che, probabilmente, ritiene un equivoco in cui è incorso il GUP di Trapani. Nella lettura che ne danno i giudici di appello, la decisione di primo grado aveva risolto il problema della “non causazione” volontaria della situazione di pericolo, ritenendo che «tutta l’operazione volta a raggiungere le coste italiane fosse dettata da uno stato di necessità», fondata «sulla base di rapporti generali sulle condizioni di vita in Libia (…) nonché sulle condizioni esistenti in Sudan, Paese dal quale giungevano alcuni migranti». In altri termini, il GUP avrebbe ravvisato «l’esistenza di una causa di giustificazione quale lo stato di necessità [che] avrebbe spinto i migranti a determinare uno stato di pericolo, sulla base del quale sarebbero poi stati scriminati nel loro comportamento illecito da un’altra scriminante, ossia la legittima difesa» [Corte di appello di Palermo, sentenza 3.6.2019, pp. 7-8 della motivazione].
Dopo averlo così ricostruito, la Corte di appello censura il ragionamento del GUP: «sembrerebbe trovarsi, davanti ad una serie di cause di giustificazione operanti a catena, che francamente fanno trasparire più un approccio ideologico alla soluzione della vicenda in punto di diritto, che non una serena analisi degli istituti giuridici che vengono in rilievo». I giudici di secondo grado si fanno carico di giustificare questo giudizio così netto: le problematiche dell’immigrazione devono trovare «adeguata soluzione nell’unica sede a ciò deputata, ossia quella politica, del confronto interstatuale», senza che sia consentito ai giudici «creare scorciatoie, anche pericolose, ritenendo scriminati in partenza comportamenti dotati di grande disvalore penale, quali atti di resistenza ai limiti dell’ammutinamento»; perché – chiosa la Corte - «a seguire tutta l’impostazione data dal GUP, chiunque potrebbe partire dalle coste libiche con un barcone e farsi trasbordare a bordo di una unità italiana, sicuro di poter minacciare impunemente l’equipaggio della nave, qualora questo dovesse obbedire ad un ordine impartito dalla Guardia costiera di uno stato che – piaccia o no – è riconosciuto internazionalmente» [Corte di appello di Palermo, sentenza 3.6.2019, pp. 8-9 della motivazione; corsivi di chi scrive].
In sintesi: gli imputati si sono posti volontariamente in una condizione di pericolo; conseguentemente le loro condotte violente e minacciose – volte ad impedire che l’equipaggio della Vos Thalassa li riconsegnasse alla Guardia costiera libica – non possono ritenersi dettate dalla necessità di difendere un proprio diritto dal pericolo concreto e attuale di un’offesa ingiusta.
4. Alcune notazioni sparse: clandestini, ideologia del giudice e ermeneutiche del fatto
Si è ritenuto necessario riportare ampi stralci della sentenza di secondo grado perché la strutturazione logica del provvedimento e le stesse parole utilizzate per motivare la decisione di condanna si rivelano funzionali a svolgere alcune riflessioni.
Viene in primo luogo in rilievo un problema di linguaggio [richiamando l’abusata citazione di Nanni Moretti, «le parole sono importanti»].
Nell’affermare le ragioni per cui si riteneva che la condizione di pericolo venutasi a creare sulla Vos Thalassa fosse stata «pienamente accettata dai migranti» (di qui l’insussistenza della necessità di ricorrere alla legittima difesa), la Corte di appello osserva che «venne creata artificiosamente una situazione di necessità (…) atta a stimolare un intervento di supporto che conducesse all’approdo dei clandestini ed al perseguimento del fine dell’organizzazione criminale».
Orbene. L’attribuzione della qualità di "clandestino" è effettuata dalla Corte di appello di Palermo senza aver minima cura di considerare se i migranti soccorsi dalla Vos Thalassa fossero persone in condizioni di reclamare una qualche forma di protezione internazionale. Può anche darsi di no; può anche darsi che i migranti non avessero diritto ad alcuna forma di protezione; ma la Corte di appello non si cura né di accertare, né di confutare tale eventualità, ritenendo però praticabile l’uso della parola «clandestino». Si può obiettare: ma accertare la sussistenza di un diritto a forme di protezione internazionale non era funzionale alla ratio decidendi della decisione adottata dalla Corte (giocata sul versante più strettamente “penalistico”).
Ma – ammesso e non concesso che ciò sia corretto e, dunque, ammesso e non concesso che non fosse necessario stabilire se i naufraghi della Vos Thalassa avessero diritto a forme di protezione internazionale – perché allora usare la parola «clandestino»? Una parola che – giova ricordarlo – reca in sé uno stigma e il germe della discriminazione [come riconosciuto, in altro contesti, da varie decisioni rese dall’autorità giudiziaria italiana in materia di diritto antidiscriminatorio all’esito di un’articolata lettura delle fonti costituzionali, sovranazionali e della giurisprudenza di legittimità, di quella costituzionale e di quella sovra-nazionale; per un’applicazione, Corte di appello di Milano, sez. persone, minori e famiglia, sentenza n. 418 del 6 febbraio 2020 e, ancor prima, Tribunale di Milano, prima sez. civile (est. Flamini), ordinanza 22 febbraio 2017].
Tanto più considerando che, allorché i migranti sono messi in condizione di farlo, le loro richieste di una qualche forma di protezione vengono accolte non di rado [nel 2015, è stata riconosciuta una qualche forma di protezione – al 41% dei richiedenti; nel 2016, al 40% dei richiedenti; nel 2017, al 42% dei richiedenti; nel 2018, 34% dei richiedenti e, nel 2019, al 19% dei richiedenti, come attestato dalle schede riepilogative elaborate dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, in cui si dà conto delle decisioni adottate dalle commissioni territoriali e che, dunque, non considerano nemmeno gli sviluppi ulteriori che possono darsi nella successiva ed eventuale fase giurisdizionale][1].
E, dunque, non può che sorprendere (negativamente) la facilità con cui la Corte di appello ha usato una parola tanto impegnativa e pregnante – potenzialmente discriminatoria – come quella di clandestino.
E – sempre per restare sul piano del linguaggio – che dire dell’affermazione dei giudici di secondo grado, che rimproverano al GUP di Trapani di aver coltivato un «approccio ideologico alla soluzione della vicenda in punto di diritto» anziché «una serena analisi degli istituti giuridici che vengono in rilievo»?
Erano affermazioni necessarie in una sentenza di appello? Erano affermazioni utili a ricostruire il fatto ed affermare il diritto? Crediamo di no. Con quella affermazione, i giudici di secondo grado non parlano tanto agli attori del processo, ma si rivolgono – in chiave polemica – al giudice di primo grado, censurandone, davanti al Tribunale della Pubblica opinione il ragionare ideologicamente orientato.
Questo passaggio argomentativo, anziché irrobustire la decisione di riforma della decisione del giudice di primo grado, finisce con l’indebolirla. Del resto, attenti osservatori segnalano l’estrema delicatezza dei «giudizi valutativi», individuando come punti di debolezza di una decisione l’inserimento nei provvedimenti giudiziari di «conformismi culturali, moralismi o opinioni ideologiche personali»[2], evidenziando che «quello che dalla sentenza deve emergere, non è tanto il bello stile di chi porge le argomentazioni, ma invece la rigorosa aderenza alle tematiche della responsabilità, senza viraggi in terreni non consentiti od inammissibili interventi di pedagogia sociale o di rimprovero etico (…)»[3]. Non è certo per caso che la Scuola superiore della Magistratura, da alcuni anni (in collaborazione con l’Accademia della Crusca), organizza corsi su La lingua della giurisdizione. Forse vale la pena di insistere…
Veniamo ora alla seconda questione sollevata dalla sentenza di appello: l’ideologia del giudice. Secondo i giudici di appello, il GUP avrebbe coltivato un approccio ideologico.
Ne discende inevitabilmente che la decisione della Corte di appello di Palermo deve essere letta come sentenza dichiaratamente “a-politica”; ce lo dice la Corte di appello: la soluzione al caso concreto la si trova nell’esame tecnico (diremmo: asettico) del perimetro della causa di giustificazione della legittima difesa; viceversa, le problematiche dell’immigrazione devono trovare «adeguata soluzione nell’unica sede a ciò deputata, ossia quella politica, del confronto interstatuale»; ai giudici – altro rimprovero rivolto al giudice di primo grado – non è dato creare «scorciatoie, anche pericolose, ritenendo scriminati in partenza comportamenti dotati di grande disvalore penale».
Tuttavia – a ben leggerla – anche la motivazione della sentenza di appello rivela alcune pre-comprensioni (non vogliamo chiamarle approccio ideologico; limitiamoci a chiamarle pre-comprensioni…).
Si è detto che la Corte di appello non coltiva alcun dubbio sul fatto che «i migranti -e, nel caso che ci occupa, gli odierni imputati – si siano posti in stato di pericolo volontariamente, sia avendo pianificato una traversata in condizioni di estremo pericolo, sia avendo poi chiesto i soccorsi al fine di essere recuperati da natanti di salvataggio»; situazione di pericolo che - essendo stata «creata artificiosamente» e «pienamente accettata dai migranti» - non può che portare ad escludere l’applicazione della legittima difesa.
È di tutta evidenza come – in questo stralcio della motivazione – ritorni in modo nemmeno troppo implicito il refrain delle ONG (in questo caso un semplice rimorchiatore) come "taxisti" dei migranti (ovviamente clandestini). Ma, forse, è un’affermazione – quella della Corte – che avrebbe dovuto essere corroborata da altri elementi probatori: come è possibile affermare che i migranti si siano messi volontariamente in pericolo al fine di essere recuperati da imbarcazioni di salvataggio? L’attribuzione di una simile intenzionalità ai migranti non è il frutto di una pre-comprensione dei giudici di appello? Davvero non sono possibili letture alternative? Davvero non è possibile pensare che i migranti abbiano sperato (sbagliando tragicamente e a rischio della vita) di raggiungere le coste europee a bordo di imbarcazioni di fortuna? Qualche volta succede…
Ancora. La Corte di appello censura l’incedere ideologico del GUP schematizzandone il pensiero in modo non del tutto collimante con il contenuto della sentenza di primo grado. Secondo la Corte di appello, il GUP avrebbe applicato la causa di giustificazione della legittima difesa, postulando – a monte - «l’esistenza di uno stato di necessità [che] avrebbe spinto i migranti a determinare uno stato di pericolo, sulla base del quale sarebbero poi stati scriminati nel loro comportamento illecito da un’altra scriminante, ossia la legittima difesa».
Tuttavia, la lettura della sentenza di primo grado permette di comprendere che l’impostazione del GUP era diversa. Il GUP individuava la situazione di pericolo di lesione di diritti fondamentali non nel mero fatto del respingimento, ma nello specifico – e diverso – fatto della consegna dei migranti nelle mani della Guardia costiera libica. Ciò che veniva in discussione – nell’economia della decisione del GUP – non era il fallimento del progetto migratorio, ma il concreto rischio che, ove respinti in Libia, i migranti potessero essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, lesivi di diritti fondamentali.
Il GUP non aveva tentato di raddrizzare il legno storto della storia, né di correggere per via giudiziaria le ingiustizie dell’economia globale. Il giudice di primo grado si era limitato a ritenere dimostrato, valutando specifici elementi di prova, che – ove respinti in Libia – i diritti fondamentali dei migranti sarebbero stati probabilmente esposti a rischio di significativa lesione; e ha ritenuto che – tenendo le condotte contestate – gli imputati intendevano scongiurare proprio la concretizzazione di quel rischio. Quella – e non altre (individuate dalla Corte di appello) – era la ragione per cui i naufraghi hanno minacciato e strattonato i marinai della Vos Thalassa.
E, su questo aspetto cruciale della vicenda (il concreto rischio di lesione di diritti fondamentali dei migranti respinti in Libia), i giudici di appello non hanno preso posizione alcuna (sebbene quello fosse il vero tema del processo), limitandosi a ricordare che la riconsegna sarebbe comunque avvenuta in ottemperanza ad «un ordine impartito dalla Guardia costiera di uno Stato che – piaccia o no – è internazionalmente riconosciuto».
Lo spostamento del campo di osservazione operato dalla Corte di appello (la decisione di imbarcarsi su un barcone pericolante ha artificiosamente creato una situazione di pericolo, anziché rispondere alla domanda: i diritti fondamentali dei migranti sarebbero stati a rischio ove respinti in Libia?) appare evidente.
Tale spostamento di attenzione – programmaticamente a-politico, nelle intenzioni della Corte – appare però il frutto di una pre-comprensione del fatto oggetto del giudizio; alcuni fatti (le concrete condizioni dei migranti in Libia) scompaiono; altri, invece, vengono postulati (la situazione di pericolo artificiosamente creata e pienamente accettata). Ciò dimostra che non è solo l’attività di interpretazione di norme ad essere attività "non neutra"; anche la attività di individuazione di selezione e ricostruzione dei fatti rilevanti in un giudizio è attività determinante rispetto agli esiti di un percorso decisorio[4]. E, con la selezione dei fatti, anche l’interpretazione degli stessi risente – forse addirittura in grado maggiore rispetto all’interpretazione di enunciati normativi– di possibili pre-comprensioni del giudice. Pulitanò ha scritto che «le nostre precomprensioni (anche di noi giuristi) riflettono l’immagine del mondo propria della nostra cultura, dal punto di vista dell’esperienza quotidiana, prescientifica, del vivere e dell’agire degli uomini: il mondo della storia»[5], auspicando – poco oltre – l’avvio di una riflessione sui valori socioculturali registrabili nella giurisprudenza, considerando di interesse l’indagine «su tutti gli aspetti della decisione giudiziaria penale che fuoriescono dalla nomofilachia del giudice di legittimità, ma non dall’esigenza di custodia della razionalità del giudizio di fatto»[6].
Ciascuno, leggendo le due sentenze – quella di primo e quella di secondo grado – potrà farsi un’opinione e apprezzare se il giudice di primo grado abbia o meno ceduto alla tentazione dell’ideologia e verificare se non sia piuttosto la decisione dei giudici di secondo grado ad essere stata influenzata da pre-comprensioni del fatto demandato al suo giudizio.
[1] Per un’analisi dei dati, anche giudiziari, v. M. Giovannetti, Riconosciuti e “diniegati”: dietro i numeri le persone, in Questione giustizia ed. trimestrale, n. 2/2018.
[2] P. Bellucci, Strutture testuali e linguaggio delle sentenze, p. 31 (relazione tenuta nell’ambito del Corso di formazione organizzato dal CSM sul tema La motivazione delle sentenze penali, Roma, 19-21 giugno 2006).
[3] L. Lanza, La motivazione della sentenza penale: decidere, scrivere, argomentare, p. 22 (relazione tenuta nell’ambito del Corso di formazione organizzato dal CSM sul tema La motivazione delle sentenze penali, Roma, 14-16 settembre 2009).
[4] Cfr. M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari-Roma, 2009, 41-42, 196 e ss.
[5] Cfr. D. Pulitanò, Il giudice e la legge penale, paragrafo 4, in Questione giustizia on line, 9 luglio 2019. Poco oltre il passaggio riportato nel testo, al paragrafo 5, Pulitanò aggiunge: «la qualificazione giuridica di un fatto presuppone l’accertamento dei suoi aspetti giuridicamente rilevanti: non solo aspetti materiali (…) ma anche significati culturali (…). Vi sono dunque problemi definibili di interpretazione del fatto: non di verifica materiale, ma di ricognizione di significati di un fatto ben individuato nella sua materialità. Concezioni culturali e normative indipendenti dal diritto vengono in rilievo sia per l’interpretazione giuridica (…) sia per la ricognizione di profili non meramente materiali del fatto concreto, e per l’esercizio di poteri discrezionali. Il giudice ha bisogno di un sapere sul mondo, necessario sia all’accertamento e all’ermeneutica del fatto, sia alla comprensione del diritto (…)».
[6] Cfr. D. Pulitanò, Il giudice e la legge penale, paragrafo 5.