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«Cogliere il kàiros». L’Osservatorio sulla giustizia civile di Firenze vent’anni dopo *

di Luciana Breggia
già Presidente Sez. Specializzata Tribunale Firenze

1. Un cantiere che si apre di nuovo

Sono particolarmente lieta ed emozionata di essere presente in questa riapertura del cantiere dell’Osservatorio sulla giustizia civile di Firenze che avviene sotto la spinta della riforma del processo. Se gli Osservatori esistono sin dagli anni Novanta, promossi e animati dal collega e amico straordinario Carlo Maria Verardi, è proprio da Firenze che partì successivamente un nuovo slancio di rinnovamento e diffusione: dal cantiere del 2003, si giunse all’Assemblea nazionale del 2006 che ha dato in seguito forma e ritmo ai nostri incontri a livello nazionale.

Oggi, ancora una volta, la riforma del rito funge da collante tra avvocati, giudici, funzionari di cancelleria (oggi anche funzionari dell’Ufficio per il processo) e professori, come è sempre stato. E’ comprensibile (anche se non sufficiente, come vedremo), perché buone prassi e protocolli costituiscono una tenda da costruire insieme per trovare riparo comune dallo tsunami.

Lo tsunami attuale riguarda tutti i gradi di giudizio e la fase esecutiva. Tuttavia, permettetemi di sottolineare sin d’ora l’importanza della fase introduttiva di primo grado, da cui dipendono quelle successive che su questa si fondano. La ricerca degli Osservatori, infatti, aveva valorizzato non tanto la decisione finale, considerata tradizionalmente il collo di bottiglia, ma la fase iniziale del procedimento, come fase-setaccio, da cui si diramavano vari percorsi a seconda della natura della controversia: perché stili e modi di definizione e di motivazione erano collegati a stili e modi di conduzione del processo. Oggi proprio questa fase è in pericolo, con il rischio di una vanificazione degli sforzi per promuovere quella costruzione progressiva della decisione e della soluzione consensuale, non autoritativa, che era nel dna degli Osservatori. Come era ed è nel dna il ruolo dell’oralità, richiamato anche nella locandina dell’incontro odierno, intesa come momento di colloquio processuale tra magistrati e avvocati al momento giusto: emergono gravi criticità, ad esempio, se è differito dopo un folto scambio di scritti e un decreto dove il giudice compie in solitaria le sue verifiche, come nel nuovo rito ordinario.

 

2. Parole chiave

Quali siano i rimedi lo diranno i gruppi di lavoro già avviati, e l’Assemblea nazionale di Catania del 16-18 giugno 2023 dove confluiranno le elaborazioni di tutti gli Osservatori di Italia e dove siete tutti invitati. In questa breve introduzione, voglio solo ricordare alcune parole chiave. Non me ne vogliano i vecchi amici con i quali aprimmo il cantiere la prima volta vent’anni fa, perché sono dedicate ai numerosi nuovi partecipanti che vedo presenti. Inoltre, l’attuale lavoro sulle prassi è un po’ in vitro, perché ancora non le abbiamo sperimentate pienamente e quindi, nell’immaginarle, dobbiamo avere dei punti di riferimento che vengono dai lavori del passato.

 

2.1. Il tempo giusto

La prima parola riguarda il tempo. Tempo che, in un'epoca di scarsità delle risorse, pare quella più limitata, anche se è elemento della qualità della giustizia in duplice senso: occorre tempo per decidere, ma occorre decidere in tempo.

Giudici e avvocati possono governare solo alcuni dei fattori che assicurano la ragionevole durata del processo. Possono e debbono. Anche se ci lamentiamo della mancanza di mezzi, non possiamo esonerarci dall’esame dell’utilità del tempo dedicato a rendere giustizia: dobbiamo scegliere se prendere il nostro tempo o perdere il nostro tempo. Proprio perché si tratta di una risorsa limitata, il giudice e l’avvocato sono posti costantemente di fronte al quesito: a cosa dedicare tempo?

Può essere d’aiuto ricordare che, nella concezione occidentale (aristotelica) il tempo è lineare, sequenziale, misurabile; ma nel mondo greco esisteva, oltre a  Cronos, un altro concetto di tempo, che è quello del Kairòs, il tempo debito, il tempo propizio: un tempo non misurabile quantitativamente, ché ha natura qualitativa. 

Kairòs è termine quasi intraducibile, ma si fonda sul collegamento tra l’azione e il tempo: l’azione compiuta nel momento giusto è buona, efficace.

E’ una chiave interessante di lettura delle prassi processuali migliori: l’obiettivo è, in fondo, quello di individuare, nell’ambito degli spazi bianchi lasciati dalle norme, quale sia l’interpretazione e l’applicazione che consenta alle condotte degli operatori del processo di essere più efficaci perché compiute nel momento propizio.

In un certo senso, è anche un antidoto all'efficienza apparente e ai meccanismi pseudo-acceleratori: a volte creiamo situazioni di efficienza apparente - tante cause in un'unica udienza - perché pensiamo di non avere tempo. Tuttavia, si può dire "non ho tempo"?  O non occorre invece riconoscere che stiamo compiendo una precisa scelta in ordine al tempo, privilegiando questa o quella  norma, ad esempio, quella che impone un rinvio brevissimo dell’udienza (quindici giorni) e quella che impone di  trattare la causa secondo certe modalità che richiedono tempo e appaiono incompatibili con il rinvio prescritto?

Ecco che la domanda che suggerisce l’idea di  Kairòs diviene ineludibile: la scelta è quella del tempo giusto? Entra in gioco una riflessione più complessa che attiene alla qualità della decisione di cui il tempo è solo uno degli standards: anche il Consiglio d’Europa, nelle sue valutazioni al riguardo, adotta un metodo globale che considera importante la qualità del sistema giudiziario e la qualità del processo che conduce alle decisioni[1]

Semplificare il tempo processuale in nome delle esigenze di rapidità può  in effetti  essere pericoloso se diviene l’unico obiettivo; il tempo lineare è misurabile quantitativamente, è buono per le statistiche e i numeri (pur necessari ovviamente), ma può essere insignificante sotto il profilo della qualità, perché può dar vita a un processo meccanico, burocraticamente sequenziario e poco comprensibile.  

Occorre tempo proficuo. Non si può astrarre dal sapere e dunque dalla fisiologica lentezza della ricerca, della riflessione nutrita dal dubbio, della condivisione. Inoltre, il tempo delle parti non è solo un tempo di attesa, come pensiamo, ma  è – deve essere - anche un tempo di partecipazione, che si connette ad un indicatore di qualità[2].

Ieri il legislatore ha eliminato l’obbligatorietà dell’interrogatorio libero e del tentativo di conciliazione alla prima udienza[3], oggi la ripristina nel procedimento ordinario, non in quello semplificato. Le norme cambiano;  ma, per restare sul piano culturale, che permette un’azione più longeva e stabile, per gli Osservatori porre al centro del processo l'incontro tra giudice e parti, attiene all’etica di un buon governo comune del processo da parte di magistrati e avvocati. E permette al cittadino di sperimentare l’istituzione, ricostruendo una fiducia compromessa, e così rifondando la legittimazione, non solo istituzionale, ma basata sul sentimento di giustizia di cui parla la CEPEJ.  

 

2.2 Il tempo visibile e il tempo invisibile

I protocolli d’udienza riguardano in gran parte il tempo visibile, dedicato alle udienze o speso nell’ambito pubblico. Tuttavia, il mestiere del giudice e dell’avvocato si svolge anche in un tempo che potremmo definire invisibile: è il tempo della riflessione, della ricerca; della consultazione dell’avvocato con il cliente; della informazione e della formazione. Invisibile è anche il tempo della lettura e della scrittura degli atti difensivi e dei provvedimenti.

Più è utilizzato bene il tempo invisibile più sarà proficuo quello pubblico. Tuttavia, è difficile rendere conto del tempo invisibile, occorre cercare di decrittarlo, fare diagnosi per vedere come utilizzarlo meglio. Per questo, ad esempio, ci siamo messi a scuola di concisione, di chiarezza e sinteticità, per favorire la brevità del tempo di produzione del testo e quindi la brevità nella fruizione del medesimo in modo funzionale all’esigenza di ragionevole durata del processo: da molto tempo gli Osservatori, anche con la Scuola Superiore dell’Avvocatura, hanno cercato di delineare un contrappunto tra gli atti delle parti e i provvedimenti dei giudici.  

Non si tratta solo di una pur sana operazione di ecologia linguistica, ma di dare vita ad un cambiamento culturale volto a distribuire diversamente la risorsa del tempo: a non concentrarla in una fase finale, quella decisoria, dove si affollino atti e provvedimenti inutilmente lunghi, ma dislocarla sin dall’ inizio del processo in atti e colloqui che, nel procedere, colgano il kàiros, rendano l’azione efficace e la giustizia più celere e adeguata[4]. Oggi la norma novellata dell’art. 121 cpc introduce il canone di sinteticità e chiarezza degli atti e così sancisce l’approdo di un movimento già in atto. Questo movimento deve però continuare sul piano della formazione, comune a magistrati e avvocati, cioè sul campo della cultura che gli è proprio. Da ultimo, gli Osservatori hanno cercato di andare oltre, varando le Linee guida per un linguaggio sintetico e chiaro, ma anche non ostile[5]

A proposito del linguaggio, apro e chiudo una parentesi: oggi abbiamo a che fare con i Large Language Models, con le tecnologie intelligenti e non potremo sottrarci al compito di conoscere e cercare di governare questa nuova rivoluzione: secondo la Proposta di regolamento com (2021)206[6] sono considerati, tra l’altro, ad alto rischio «i sistemi di IA destinati ad assistere un'autorità giudiziaria nella ricerca e nell'interpretazione dei fatti e del diritto e nell'applicazione della legge a una serie concreta di fatti» (si veda anche la  Carta Etica europea sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e negli ambiti connessi adottata dalla Cepej nel 2018[7]).

Sempre più appare chiaro che il tema centrale concerne l’acquisizione della  competenza ad essere guidati dai dati (data-driven), evitando di essere usati noi stessi, come motori di dati,  dai sistemi intelligenti.

 

2.3 Autonomia

L’altra parola chiave è autonomia, autòs nòmos. La “codificazione” di prassi autoregolamentate e condivise per promuovere efficienza e qualità nella gestione del processo (i protocolli) mirava e mira a favorire il passaggio dalla norma eteronoma alla regola autonoma. Le prassi condivise non sono soggette a sanzione nel caso di inadempimento, non sono vincolanti, ma sono frutto della persuasione e della condivisione: la loro effettività è connessa non alla paura della sanzione, ma alla base consensuale e alla interiorizzazione della regola concordata. Ed è intuitivo che l’osservanza è più probabile quando una regola non è imposta da altri, ma frutto della partecipazione nella sua formazione. Ne abbiamo discusso tantissimo agli inizi del nostro percorso; oggi, i protocolli e le linee guida sono annoverati dagli studiosi tra gli strumenti di soft law, una galassia di strumenti diversi, atipici, tra cui si collocano i nostri protocolli, partecipi delle caratteristiche del soft law: la rilevanza del consenso, l’informalità, l’atipicità e l’efficacia “imperfetta” ne costituiscono infatti gli elementi essenziali. In una visione funzionalista del diritto, inteso come «tecnica sociale che serve ad influire sulla condotta umana», sono considerati fonti di diritto sebbene non vincolanti[8]

A questo riguardo, mi piace ricordare che Remo Caponi, all’Assemblea nazionale del 2006, ci regalò una relazione molto bella, dove si approfondiva proprio questo tema. Era intitolata, appunto, Gli osservatori sulla giustizia civile nelle fonti del diritto[9].

Oggi il panorama è in evoluzione e torniamo a riflettere su come costruire le buone prassi e soprattutto quale sia la tecnica tipica degli Osservatori rispetto ad altre forme di collaborazione esistenti. Di fronte all’insipienza del legislatore su snodi cruciali del processo (penso alle decadenze) è stata invocata la direzione dei capi degli uffici perché risolvano in modo rapido e uniforme le incoerenze e le lacune. E’ comprensibile; tuttavia, per gli Osservatori, l’individuazione e attuazione delle prassi migliori è un processo che, per sua natura, può̀ attuare solo il singolo, perché l’impegno che nasce dall’adesione culturale a certi valori e quindi a certi concreti comportamenti non è per sua natura delegabile. Il «carattere spontaneo e volontario, a titolo personale, dell'adesione ai lavori dell'Osservatorio», è giustamente richiamato nella locandina di questo incontro ed è rispettoso dell’autonomia e dell’indipendenza di magistrati e avvocati. Abbiamo sempre pensato che occorra una circolarità felice, che parta dal basso e dal basso contamini i livelli istituzionali e associativi della magistratura, dell’avvocatura e dell’Università, che potranno, a loro volta, favorire la partecipazione di singoli, diffondere e sostenere nelle comunità professionali il risultato di un lavoro di base e assicurarsi così una più  probabile osservanza. Non è fuor di luogo ricordare come le buone prassi siano state a volte recepite dal legislatore, come ad esempio, per la piena realizzazione del contraddittorio nel sub-procedimento di consulenza tecnica d’ufficio[10].

 

2.4 Relazione

Altra parola chiave è relazione. Anche al Coordinamento nazionale degli Osservatori, svoltosi a Roma nel  marzo scorso, da molti è stato segnalato il rischio di perdere il rapporto umano che diviene sempre più rarefatto, in considerazione della stabilizzazione delle misure alternative d’udienza sperimentate durante la pandemia: con lo scambio di note scritte in sostituzione dell’udienza, questa diventa un semplice termine da cui decorrono altri termini, quindi, di fatto, viene eliminata; con l’udienza mediante collegamenti audiovisivi, invece, si accentua il problema della delocalizzazione. Lo spazio giudiziario viene quindi privato della sua valenza simbolica, con una despazializzione del diritto cui segue  la perdita dell’esperienza empatica e umana della giustizia[11]. Con la riforma l’incontro reale tra giudici e avvocati e parti rischia di sparire o essere tardivo rispetto alla  buona trattazione del procedimento, ivi compresa la possibilità di coltivare percorsi che valorizzano l’autonomia privata quali conciliazione giudiziale o invio in mediazione. Non si coglie il kairòs.

Dunque, con la riforma attuale,  non si modifica  solo uno snodo del procedimento, ma si incide sul rapporto tra i soggetti del processo. Il nuovo processo pone un problema di relazioni: Dialogo processuale e buone relazioni tra giudici e avvocati era il titolo dell’Assemblea nazionale di Verona, del 2-3 giugno 2007 e dovremmo ripartire da lì.

 

3. Il peso della rosa

Concludo con due sottolineature. 

La prima: siamo costretti dalla perniciosa fabbrica dei riti riattivata dal nostro legislatore a decidere come si deve decidere ed è inevitabile. Tuttavia, non di solo processo vive il giurista, e alla discussione sui metodi di tutela, deve affiancarsi la riflessione sui beni della vita da tutelare per rifondare la giurisdizione civile come giurisdizione dei diritti. I tempi sono turbolenti, ma  gli Osservatori, sono nati e nascono proprio dove l'orizzonte sembra sempre più lontano, per affermare l'importanza dei “passi orientati”: se l'orizzonte non può essere mai raggiunto, indica la meta verso cui i passi – anche piccoli, minuscoli – possono essere rivolti.

La seconda: i Gruppi di lavoro sulla riforma processuale perseguono necessariamente finalità pratiche. Non possiamo però dimenticare l’importanza della crescita culturale, che, come insegnava un giudice colto e saggio di recente scomparso, Stefano Racheli, implica la consapevolezza dei problemi. Occorre accrescere tale consapevolezza, anche se non ne derivi una immediata fruibilità pratica, perché comunque produce l’humus in cui si radica l’adeguatezza dell’agire concreto. Ed è questo humus che permette di affrontare le scosse normative, a volte prive di un disegno. 

Proprio questa crescita culturale rappresenta la rosa che Piero Calamandrei aveva utilizzato per indicare i buoni costumi, i quali, alla fine, posti su un piatto della bilancia, pesano molto più dei voluminosi tomi posati sull’altro piatto. Abbiamo fatta nostra questa immagine sin dal 2006 e il mio augurio è che questo rinato Osservatorio fiorentino possa aggiungere ancora peso alla nostra rosa.

 


 
[1] Oltre al Centro Saturn, (Study and Analysis of judicial Time Use Research Network) che si occupa specificamente del tempo giudiziario, la Cepej (Commissione europea per l’efficienza per la giustizia) ha istituito un Gruppo di lavoro che si occupa della qualità: Cepej-gt-qual.

[2] Si vedano al riguardo le Guidelines del Centro Saturn di cui alla nota che precede.

[3] Ad opera del d.l. n. 35 del 2005, convertito in legge con modificazioni dalla legge n. 263 del 2005; il termine di applicazione delle modifiche fu rinviato al 1° marzo 2006 (art.39-quater d.l. n.273 del 2005).

[4] Il tema linguistico ha, ovviamente, anche altri obiettivi: si veda, ad esempio, la sempre attuale Risoluzione del Consiglio d'europa sull'accesso alla giustizia,  n. 7 del 14.5.1981: «States should take measures to ensure that all procedural documents are in a simple form and that the language used is comprehensible to the public and any judicial decision is comprehensible to the parties».

[5] Pubblicate in questa Rivista, nel novembre 2022, con un breve commento: Per un linguaggio non ostile dentro e fuori il processo. Il potere delle parole. Avere cura delle parole.

[6] Proposta presentata in data 21 aprile 2021dalla Commissione di Regolamento del parlamento europeo e del consiglio che stabilisce regole armonizzate sull'intelligenza artificiale (legge sull'intelligenza artificiale) e modifica alcuni atti legislativi dell'Unione.  

[7] Nell’Introduzione indica i cinque princìpi da osservare: rispetto dei diritti fondamentali, non discriminazione, qualità e sicurezza, trasparenza, imparzialità e equità, controllo da parte dell’utilizzatore.

[8] Mancuso, La giustizia di fronte all’emergenza: il rinnovato ruolo del soft law, in Judicium, 30 giugno 2020; la citazione riportata nel testo è riferita a  Bobbio, Il positivismo giuridico, Napoli, 1997, p. 167.

[9] Già pubblicata sul Foro italiano, si trova ora pubblicata con il titolo Osservatori sulla giustizia civile e fonti del diritto, in Remo Caponi, Dogmatica giuridica e vita, Studi di giustizia civile, Milano, 2022, p. 1245 ss.

[10] Mi riferisco alla legge n. 69 del 2009.

[11] Garapon, La despazializzazione della giustizia, Milano, 2021. 

[*]

Il testo riproduce l’intervento introduttivo svolto all’incontro Riapre il cantiere dell’Osservatorio sulla giustizia civile del Tribunale di Firenze. Prime considerazioni sulle riforme processuali ed ordinamentali in vista dell’auspicata adozione di prassi condivise, organizzato a Firenze, il 31 marzo 2023. Nel corso dell’incontro sono stati riferiti gli esiti provvisori dei lavori all’interno dei gruppi di lavoro sui principali punti critici posti dalle riforme e sono state raccolte nuove adesioni. Si è volutamente lasciato lo stile discorsivo per maggiore efficacia.

10/05/2023
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