1. Il principio di offensività come criterio di garanzia
Il principio di offensività del reato subordina la sanzione penale all’offesa - tanto nella forma della lesione intesa come nocumento effettivo quanto in quella dell’esposizione a pericolo concepita in termini di nocumento potenziale - di un bene giuridico, assumendo, quindi, la funzione di vincolo per il legislatore e al contempo di criterio ermeneutico per l’interprete.
Nonostante l’assenza di una norma del codice penale che contempli espressamente tale principio (anche se sul punto una parte della dottrina e della giurisprudenza ha riconosciuto nell’art. 49 co. 2 c.p. il fondamento codicistico implicito del principio in questione), è stato ampiamente evidenziato che è indubitabile che lo stesso assuma comunque rango costituzionale, con particolare riferimento agli artt. 13 (atteso che l’irrogazione di una sanzione penale, limitativa della libertà personale, può essere ammessa solo come reazione ad una condotta che offenda un bene di pari rango), 25 co. 2 (delimitante la punibilità da parte del legislatore delle sole condotte materiali e offensive, ma non anche della mera disobbedienza), 27 Cost. (sulla base del quale la rieducazione del condannato può assolvere la propria funzione solo tramite la percezione dell’antigiuridicità del proprio comportamento).
Il ravvisato fondamento costituzionale del principio di offensività, costituendo esso una direttrice fondamentale di politica criminale, ha determinato in sostanza la costituzionalizzazione di una nozione di reato alla cui tipicità appartiene, unitamente agli altri requisiti strutturali, anche l’offesa al bene tutelato, di talché se in assenza di uno solo degli altri requisiti strutturali il fatto non costituisce reato pur se offensivo del bene protetto, senza l’offesa di tale bene il fatto non è reato anche se presenta tutti gli altri requisiti, difettando in entrambi i casi la tipicità.
Il ruolo di garanzia svolto dal principio di offensività, unitamente agli altri principi fondamentali in materia penale, non si esaurisce nella fase ideativa ed applicativa del precetto penale, implicando, infatti, che la sanzione da esso prevista sia irrogata non solo al cospetto di una offesa di immediata percezione, consistente nella lesione del bene protetto, ma anche in relazione a condotte dalle quali derivi la semplice esposizione a pericolo dei beni giuridici, che arrechino cioè un pregiudizio solo potenziale alla loro integrità.
Ne consegue, pertanto, che il principio in esame opera contemporaneamente su un duplice piano, vincolando da un lato il legislatore a costruire i reati dal punto di vista strutturale come fatti che incorporano un’offesa a uno o più beni giuridici e dall’altro il giudice che in sede applicativa è tenuto a qualificare come reati solo fatti che siano idonei anche in concreto a offendere beni giuridici.
L’analisi strutturale della fattispecie di reato, quale fattispecie offensiva tipica, non può dunque prescindere dalla individuazione e soprattutto selezione dei beni-interessi la cui lesione comporti l’applicazione di sanzioni penali. A tale riguardo, però, secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai costante della Corte Costituzionale, le sanzioni penali sono poste a tutela di beni costituzionalmente rilevanti o garantiti e, comunque, di beni-interessi strumentali a quelli costituzionalmente significativi.
Tali beni-interessi costituiscono l’oggetto giuridico del reato, elemento terminale della offensività della condotta tipizzata, tutelato ed offeso dalla condotta materiale di reato.
L’oggettività giuridica costituisce, dunque, il presupposto materiale dell’offesa che può presentarsi sia come lesione attuale del bene-interesse tutelato dalla norma incriminatrice, sia come lesione eventuale, ossia come semplice messa in pericolo del bene stesso.
Nell’ambito del diritto penale dell’offesa è quindi possibile realizzare una prima distinzione tra reati di danno – per la cui consumazione appunto è richiesta la lesione del bene tutelato, nel senso che è necessario che quest’ultimo sia distrutto, diminuito o perduto – e reati di pericolo – consistenti in una mera esposizione a pericolo del bene stesso, che viene dunque minacciato -; a tale ultimo riguardo è stata poi eseguita l’ulteriore ripartizione tra reati di pericolo astratto (o presunto) e reati di pericolo concreto, fondata appunto sulla previsione legislativa o meno del pericolo come elemento tipico.
A ciò si aggiunga, però, che il principio di offensività è soddisfatto anche dalla previsione di una c.d. tutela anticipata di taluni beni-interessi che, per la loro rilevanza, giustificano un avanzamento della soglia di punibilità delle condotte di reato, nel senso della previsione di una lesività potenziale e non attuata di mera minaccia del bene tutelato, includendo, a differenza dei delitti tentati di cui all’art. 56 c.p., anche gli atti preparatori dell’azione esecutiva.
Tale particolare tecnica di formulazione di (taluni) reati – che trova la propria ratio nella necessità di assicurare una più ampia tutela a beni interessi di primaria rilevanza, quali quelli connessi alla personalità dello Stato – non deroga al principio di offensività. A tale riguardo, infatti, è stato riconosciuto proprio all’art. 49 co. 2 c.p. – secondo cui: “La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso” – di svolgere una funzione di collegamento in termini di necessità tra la punibilità del soggetto agente e il concreto verificarsi di una offesa o messa in pericolo del bene-interesse tutelato. Il fatto punibile è, quindi, quello conforme alla fattispecie incriminatrice e al contempo offensivo dell’interesse protetto dalla norma.
Con specifico riferimento alla categoria dei delitti di attentato, fattispecie che si connotano per un alto tasso di indeterminatezza, l’individuazione degli elementi minimi del fatto “attentante” è stato arricchito nell’interpretazione giurisprudenziale[1] attraverso il richiamo del requisito della “idoneità dell’azione” quale concreta possibilità di raggiungimento del fine, intesa, quindi, come la fondata e ragionevole capacità del fatto a produrre la lesione del bene tutelato.
2. La coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti: la giurisprudenza costituzionale
Fatta questa sintetica premessa, con particolare riferimento al delitto di coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti è opportuno sin da subito evidenziare che molto articolato è stato il dibattito sviluppatosi sul tema proprio con riferimento alla offensività o meno di determinate modalità di estrinsecazione di tali condotte, con conseguente proliferazione di numerose opzioni interpretative che hanno reso quindi necessario l’intervento chiarificatore sia da parte della Corte di Cassazione che della stessa Corte costituzionale.
Ed invero, il principio di offensività “in concreto” ha innanzitutto trovato una sua specifica declinazione nella materia degli stupefacenti a partire dalla sentenza n. 443/1994 attraverso cui la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale, relativa agli artt. 28, 72, 73 e 75 D.P.R. 309/1990, che era stata sollevata per la prospettata violazione dei principi di parità di trattamento e di ragionevolezza, nella parte in cui le disposizioni richiamate non escludevano la illiceità penale delle condotte di coltivazione o fabbricazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all’uso personale: in tale occasione la Consulta ha in sostanza stigmatizzato l’omessa verifica da parte del giudice remittente di una interpretazione adeguatrice delle norme impugnate, precisando che lo stesso, infatti, si sarebbe dovuto porre il problema di accertare se proprio la parziale depenalizzazione della condotta di mera detenzione fosse estensibile anche a quelle di coltivazione e fabbricazione laddove il prodotto finale fosse destinato al soddisfacimento di esigenze esclusivamente proprie.
La Corte costituzionale è ritornata nuovamente sul tema con la sentenza n. 360/1995 – con cui peraltro ha sostenuto che la illiceità penale delle condotte di coltivazione, anche se univocamente destinate all’uso personale, resiste anche alla verifica condotta alla stregua del principio di offensività nella sua dimensione di limite costituzionale alla discrezionalità del legislatore -, dichiarando infondate entrambe le questioni di legittimità costituzionale che le erano state sottoposte.
Ciò che in sostanza veniva, in tal caso, ipotizzato dal remittente era da un lato la violazione del principio di uguaglianza laddove l’art. 75 T.U. Stup. non prevedeva la punibilità con sanzioni amministrative anche dell’attività di coltivazione di piante da cui erano estraibili sostanze stupefacenti per uso personale al pari delle condotte di importazione, acquisto e detenzione, e dall’altro la violazione da parte dell’art. 73 T.U. cit. del principio di offensività nell’ipotesi in cui la coltivazione dia luogo a quantità (o qualità) di infiorescenze dalle quali non sia ricavabile il principio attivo in misura sufficiente a produrre l’effetto “drogante” potenzialmente lesivo nel caso di successiva assunzione.
A detta della Corte costituzionale, però, l’insussistenza della dedotta disparità di trattamento (e quindi della violazione dell’art. 3 Cost.) andava ravvisata proprio nella non assimilabilità delle condotte messe in comparazione dal remittente; infatti, nella detenzione, acquisto ed importazione (caratterizzate dal nesso di immediatezza con l’uso personale che giustifica rigore da parte del legislatore nei casi di continuità tra condotta e consumo) il quantitativo di stupefacente ben poteva essere certo e determinato, invece, nel caso della coltivazione non era apprezzabile ex ante con sufficiente grado di certezza la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo produttivo in atto e, quindi, la valutazione circa la destinazione della sostanza ad uso personale piuttosto che allo spaccio si presentava piuttosto ipotetica.
Quanto alla supposta violazione del principio di offensività, trattandosi il delitto in questione di reato di pericolo presunto, così come del resto era già stato affermato dalla stessa Consulta con le sentenze n. 62/1986, n. 333/1991 e n. 133/1992, esso non era affatto incompatibile con il principio richiamato, fermo restando tuttavia che per ciò che concerneva la valutazione dell’inoffensività specifica della singola condotta, ossia la sua concreta inidoneità a mettere in pericolo il bene giuridico tutelato, la stessa costituiva una prerogativa esclusiva del giudice di merito, configurandosi in tal caso, in mancanza appunto anche un grado minimo di offensività, la figura del reato impossibile ex art. 49 c.p.
I principi espressi dalla Corte costituzionale con la sentenza 360/1995, sopra citata, sono stati poi ribaditi attraverso due successive ordinanze, n. 150 e n. 414 del 1996, e soprattutto mediante la sentenza 296/1996: in tali occasioni il giudice delle leggi ha precisato che con l’attrazione delle tre condotte contemplate dall’art. 75 T.U. Stup., ove finalizzate all’uso personale, nell’area dell’illecito amministrativo, in sostanza era stata modificata la strategia di contrasto alla diffusione della droga, isolando la posizione del tossicodipendente rispetto ai veri protagonisti del mercato degli stupefacenti, rendendo tale soggetto destinatario soltanto di sanzioni amministrative (significative peraltro del perdurante disvalore attribuito alla attività di assunzione di sostanze stupefacenti), attraverso un giudizio su base oggettiva, valorizzando il profilo teleologico della preordinazione al consumo.
Sulla stessa linea orientativa si colloca, inoltre, più recentemente, la sentenza n. 109/2016 attraverso cui la Consulta ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Appello di Brescia con riferimento all’art. 75 D.P.R. 309/1990, per violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza nonché di offensività, nella parte in cui non prevedeva che anche la condotta di coltivazione fosse degradata ad illecito amministrativo ove posta in essere per la finalità di uso personale.
In tale occasione, il giudice a quo, ben consapevole che tale questione era già stata sollevata e proposta all’attenzione della Consulta, aveva comunque ritenuto di sollevare analoghe censure alla luce di due elementi di novità:
1) l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in ordine alla ratio delle norme incriminatrici di settore, con particolare riferimento alla sentenza emessa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione n. 9973/1998; a tale riguardo il remittente evidenziava che se lo scopo della incriminazione di cui all’art. 73 T.U. Stup. era quello di combattere il mercato della droga che mette in pericolo plurimi beni giuridici ossia la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico, nonché il normale sviluppo di giovani generazioni, la coltivazione di piante di cannabis laddove finalizzata all’uso personale, poiché non prodromica all’immissione della droga sul mercato, risulterebbe inoffensiva in quanto radicalmente inidonea a ledere i beni giuridici sopra indicati;
2) l’elaborazione, sul piano internazionale, della Decisione quadro 25 ottobre 2004 n. 2004/757/GAI la quale dopo aver individuato le condotte connesse al traffico di stupefacenti che gli Stati membri dell’Unione europea sono chiamati a configurare come reati (tra cui figura la coltivazione di cannabis), escludeva però dal proprio campo applicativo tutte quelle condotte (coltivazione compresa) poste in essere per il soddisfacimento esclusivo di un bisogno personale.
La Consulta, tuttavia, anche in tale occasione, ha ritenuto infondate le questioni sollevate; in effetti, quanto alla dedotta violazione dell’art. 3 Cost., la Corte ha osservato come tale censura poggiava su una premessa inesatta ossia che la detenzione per uso personale dello stupefacente “autoprodotto” rendesse non punibile la condotta di coltivazione, rimanendo il “precedente” illecito penale assorbito dal “successivo” illecito amministrativo. In realtà, secondo il giudice delle leggi tale assorbimento non si verificava nel senso indicato dal rimettente perché a rimanere assorbito in realtà doveva ritenersi piuttosto l’illecito amministrativo dal momento che la disponibilità del prodotto della coltivazione rappresentava l’ultima fase della coltivazione stessa, potendo dunque essere qualificata in termini di post factum non punibile, costituendo l’ordinario sviluppo della condotta penalmente rilevante.
Quanto, invece, alla doglianza riferita alla supposta violazione del principio di offensività, la Corte costituzionale, inserendosi nelle direttive già tracciate dalla sua precedente pronuncia n. 360/1995, ha ribadito che compete al giudice verificare se la singola condotta di coltivazione non autorizzata risulti assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e dunque sia in concreto inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità per difetto di tipicità del comportamento oggetto del giudizio.
Ciò chiarito, la Consulta precisava, inoltre, che la Decisione Quadro richiamata dalla Corte territoriale recava solo le norme minime in tema di repressione delle condotte legate agli stupefacenti, non obbligando quindi gli Stati membri a prevedere come reato la coltivazione per uso personale, ma neppure impedendo loro di farlo.
3. … e la giurisprudenza di legittimità
Partendo dunque dalla cristallizzazione del principio secondo cui appunto la valutazione dell’illiceità penale deve essere ancorata all’apprezzamento circa l’inesistenza della offensività in concreto della condotta di coltivazione, una volta esclusa la destinazione a terzi del prodotto finale del ciclo “produttivo”, l’aspetto di cui in particolare la Corte di Cassazione si è poi dovuta occupare ha riguardato nuovamente la natura del reato di pericolo concreto ovvero presunto del delitto di coltivazione in esame.
Secondo un primo e più rigoroso orientamento, valorizzando la natura di tale reato quale fattispecie di pericolo astratto, poiché il legislatore, come invece ha fatto per altre condotte, non ha preso in considerazione la destinazione finale della sostanza prodotta attraverso la coltivazione, anche in presenza di un esiguo numero di piantine, deve sempre ritenersi integrato il delitto di cui all’art. 73 T.U. Stup., con conseguente irrilevanza, quindi, sia di fattori qualitativi (grado di tossicità) che quantitativi (numero di piantine coltivate). A tale riguardo, ad esempio, la Cassazione, con la sentenza n. 31472 del 16 luglio 2004, ha affermato che “la coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope costituisce un reato di pericolo astratto, per la cui configurabilità non rilevano la quantità e qualità delle piante, la loro effettiva tossicità, la quantità di sostanza drogante da esse estraibile”; inoltre, attraverso la successiva pronuncia n. 150 del 15 novembre 2005 ha oltretutto stabilito che “la condotta di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti è penalmente rilevante quand'anche sia posta in essere per la destinazione ad uso personale della sostanza stupefacente, dal momento che tale destinazione rende penalmente lecite soltanto le condotte di detenzione, importazione ed acquisto; essa, peraltro è integrata anche dalla sola detenzione di semi, a nulla potendo rilevare, in ragione della natura di reato di pericolo astratto, il grado di maturazione raggiunto dalla pianta”.
Una tesi contrapposta a quella appena enunciata, avvalorando piuttosto la natura di reato di pericolo concreto della fattispecie in questione, ha invece escluso la configurabilità dello stesso nelle ipotesi di un dato quantitativo estremamente ridotto, legato ad esempio nella coltivazione di un solo esemplare di piantina proibita. In tale contesto la Suprema Corte, mediante la pronuncia n. 35796 del 12 febbraio 2007 ha infatti affermato che: “In riferimento alla condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti non rileva l'eventuale destinazione ad uso personale, ma soltanto l'inidoneità della condotta a porre a repentaglio il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice”.
Secondo un terzo orientamento, infine, distinguendo tra coltivazione tecnico-agraria (caratterizzata da un elevato coefficiente tecnologico ed organizzativo) e coltivazione domestica (effettuata in via approssimativa e rudimentale), doveva essere esclusa la rilevanza penale solo di tale ultima tipologia di coltivazione finalizzata all’uso personale dello stupefacente, equiparando quindi sostanzialmente tale condotta a quella della mera detenzione. Sul punto la giurisprudenza di legittimità attraverso la sentenza n. 42650 del 20 settembre 2007 ha sostenuto che: “La coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti, che non sia riconducibile alla nozione di coltivazione in senso tecnico-agrario, ovvero imprenditoriale, per l'assenza di alcuni presupposti, quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti, e che, pertanto, rimanga nell'ambito della cosiddetta coltivazione domestica, ricade, pur a seguito della L. 21 febbraio 2006, n. 49, nella nozione della detenzione, sicché occorre verificare se, nel caso concreto, essa sia destinata ad un uso esclusivamente personale di quanto coltivato” (Fattispecie relativa alla rudimentale coltivazione, entro piccoli vasetti, di sei piantine di marijuana).
Alla luce del contrasto giurisprudenziale che era insorto, la questione relativa alla rilevanza penale della attività di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando la stessa sia realizzata per uso esclusivamente personale, veniva quindi rimessa alle Sezioni Unite.
Queste ultime, evidenziando che la distinzione tra coltivazione tecnico-agraria e quella domestica non era legittimata dal dato letterale della norma e puntualizzando che l’art. 26 T.U. Stup. poneva il divieto generale e assoluto di coltivazione delle piante comprese nella tabella I di cui all’art. 14 (salvo le eccezioni espressamente indicate necessitanti peraltro di preventiva autorizzazione da parte del Ministro della salute, sussistendo i limiti sanciti dagli artt. 27, 28, 29 e 30), con la sentenza n. 28605 del 10 luglio 2008 hanno statuito che “costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale”.
Tale soluzione si fondava non solo sull’argomento di natura testuale sopra illustrato, ma anche sulla ontologica distinzione tra la condotta di mera detenzione e attività di coltivazione contribuendo quest’ultima ad accrescere in qualunque entità la quantità di sostanza stupefacente esistente, con conseguente necessità, in tale ultimo caso, di un trattamento sanzionatorio diverso e più grave.
Infine, le Sezioni Unite, attraverso la sentenza in esame, hanno valorizzato, altresì, il principio di offensività che non solo opera in “astratto” ossia in punto di costruzione da parte del legislatore di ogni singola fattispecie incriminatrice, ma anche in “concreto” quale criterio interpretativo affidato al giudice, che deve appunto valutare che il fatto contestato al soggetto agente abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o interesse tutelato, con la conseguenza, quindi, che la offensività della condotta di coltivazione deve essere esclusa solo se la sostanza ricavabile non sia idonea a produrre un “effetto stupefacente in concreto rilevabile”.
Nonostante tale intervento chiarificatore del 2008, la stessa giurisprudenza di legittimità ha continuato successivamente ad essere divisa in punto di declinazione del concetto di “offensività in concreto”, assestandosi prevalentemente su due filoni interpretativi.
Secondo un primo indirizzo[2], infatti, l’aspetto centrale consisteva nella verifica dell’efficacia drogante delle sostanze ricavabili dalle colture da parte della polizia giudiziaria all’atto dell’accertamento, che doveva incentrarsi altresì sull’attitudine della pianta conforme al tipo botanico vietato, anche in relazione alle modalità che connotano la coltivazione, a giungere a maturazione e produrre, all’esito di un fisiologico sviluppo, sostanze ad effetto stupefacente e psicotropo.
Nell’ambito di tale indirizzo è stato altresì precisato che ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l’offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l’assenza di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, se gli arbusti appunto sono verosimilmente in grado di rendere, all’esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, in quanto il “coltivare” è attività che si riferisce all’intero ciclo evolutivo dell’organismo biologico[3].
Tale conclusione è stata in particolar modo desunta partendo dal dato letterale della norma incriminatrice che sancisce appunto la punibilità delle condotte di coltivazione, espressive dell’intero processo evolutivo dell’organismo vegetale; pertanto, la riduzione del precetto alle sole condotte del “portare a maturazione” implicherebbe tra l’altro lo svuotamento almeno parziale di altre fattispecie, compresa a ben guardare quella dell’illecita detenzione e il tipo legale verrebbe inoltre sfigurato, fino alla creazione di un “tentativo irrilevante”, eludendo quindi la previsione legale di un evento di rischio.
Pertanto, se il legislatore ha previsto espressamente la coltivazione quale autonoma condotta punibile, senza alcuna distinzione, intendendo, dunque, punire ogni attività che incrementi il rischio di diffusione delle sostanze stupefacenti, arretrando la soglia di tutela fino a colpire le fasi di produzione, purché le stesse siano ragionevolmente ed univocamente orientate verso la materializzazione delle sostanze di cui si discute, non sembra che possa ritenersi penalmente irrilevante la coltivazione ed il commercio di piantine sino alla fase di piena maturazione. Alla luce di tali premesse, secondo la giurisprudenza di legittimità sostenitrice dell’orientamento in esame, la rilevanza della condotta potrà dunque essere esclusa, a fronte di un ciclo vegetale già esaurito, solo laddove si riscontri l’assenza di efficacia stupefacente del prodotto; per le ipotesi, invece, di sviluppo in corso del vegetale, occorrerà valutare che - per la qualità e la quantità delle piante, o per qualunque altra ragione - il rischio nel caso concreto di incrementare la consistenza della droga circolante non avrebbe potuto attuarsi.
Sempre nel contesto di tale filone giurisprudenziale, a conforto dell’opzione interpretativa sostenuta, veniva altresì richiamata[4] la Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione Europea 2004/757/GAI del 25 ottobre 2004, che - come già detto - in materia di traffico illecito di stupefacenti, nell’individuare norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili, aveva individuato anche la coltivazione di cannabis tra le condotte per le quali i singoli Stati erano tenuti ad applicare sanzioni penali.
Un contrapposto e più recente orientamento[5], invece, criticando la posizione sopra illustrata in quanto finiva per sovrapporre indebitamente due piani, quello della tipicità e quello dell’offensività, che devono, invece, essere tenuti ben distinti, ha sostenuto che ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente l’accertamento della loro conformità al tipo botanico vietato, dovendo essere invece riscontrata l’offensività in concreto della condotta, intesa come effettiva ed attuale capacità della sostanza ricavata o ricavabile a produrre un effetto drogante e come concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso.
E in questa prospettiva, nell’ambito di tale orientamento, alcune pronunce[6] hanno poi ulteriormente precisato che l’inoffensività “in concreto” può ricorrere quando la condotta sia così trascurabile da rendere sostanzialmente irrilevante l’aumento di disponibilità della droga e non sia prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa.
A tal fine, è stato dunque osservato come non sia sufficiente considerare il solo dato quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante, dovendosi valutare anche l’estensione e il livello di strutturazione della coltivazione, in modo tale da verificare, come detto, se da essa possa derivare o meno una produzione potenzialmente idonea ad incrementare il mercato.
Rilevata quindi la sussistenza di un nuovo contrasto interpretativo nell’ambito della giurisprudenza di legittimità in relazione alla nozione giuridica di coltivazione di piante da cui siano ricavabili sostanze stupefacenti, con ordinanza dell’11 giugno 2019, la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha deciso di sottoporre la questione al vaglio delle Sezioni Unite.
4. La sentenza SS.UU. n. 12348 del 19 dicembre 2019 – 16 aprile 2020
Mediante il rinvio alle Sezioni Unite, con riferimento all’oggetto specifico della tematica in esame, è stata ravvisata quindi la necessità di definire paradigmi ricostruttivi validi in relazione alla c.d. coltivazione domestica di entità oggettivamente modesta.
La risoluzione di tale quaestio iuris, a detta delle Sezioni Unite, inevitabilmente impone di chiarire la distinzione tra le categorie della tipicità e dell’offensività del reato e, a tale ultimo riguardo, la ulteriore bipartizione tra offensività in astratto ed offensività in concreto.
Sul piano della tipicità, ossia della riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta designata dal legislatore, viene ribadita la necessità della conformità del tipo botanico a quello vietato e della sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione ed a produrre sostanza stupefacente.
Sempre sul piano della tipicità è stata poi nuovamente affrontata la questione della correttezza circa la distinzione tra coltivazione “imprenditoriale” e coltivazione “domestica”.
A tale riguardo, le Sezioni Unite, innanzitutto, hanno reputato condivisibile, in quanto conforme sia al dato letterale che a quello sistematico, l’equiparazione, che era stata già riconosciuta attraverso la sentenza del 2008, tra le due tipologie di condotte, stante la autonomia concettuale tra la coltivazione non autorizzata e la mera detenzione (contrariamente a quanto, invece, era stato argomentato dalla giurisprudenza di legittimità che aveva avallato tale tesi), che non può quindi in alcun modo consentire la parificazione tra tali condotte ontologicamente distinte tra loro.
Ciò chiarito, le Sezioni Unite hanno però precisato (discostandosi sul punto dal loro stesso precedente risalente al 2008, sopra citato, in cui era già stato affrontato tale aspetto) che comunque può residuare uno spazio per la distinzione tra la coltivazione “tecnico-agraria” e quella “domestica” seppur nell’ambito di una ricostruzione sistematica diversa che appunto non riconduca, per le ragioni sopra illustrate, l’irrilevanza penale della coltivazione domestica (se finalizzata al consumo personale) alla nozione di detenzione, occorrendo, invece, una precisa definizione dell’attività di coltivazione penalmente rilevante.
In tal senso la Suprema Corte, mediante la pronuncia in esame, ha provveduto all’individuazione di una serie di parametri oggettivi sintomatici della rilevanza penale o meno della condotta di coltivazione, tra cui 1) la prevedibilità della potenziale produttività; 2) l’entità della coltivazione; 3) le modalità di svolgimento (in forma domestica o industriale); 4) la rudimentalità o meno delle tecniche utilizzate; 5) il numero delle piante coltivate; 6) la oggettiva destinazione del prodotto, precisato a tale ultimo riguardo, che, invece, la mera intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale da sola è insufficiente ad escludere la rispondenza del tipo legale penalmente sanzionato, essendo invece indispensabile la sussistenza di un nesso di immediatezza oggettiva con tale uso.
Quanto poi al versante dell’offensività, le Sezioni Unite, prima di procedere alla risoluzione delle questioni prospettate, hanno svolto una preliminare digressione sul principio di offensività nel sistema penale, rievocando alcuni principi sanciti dalla Corte costituzionale ed illustrando alcune delle pronunce più significative attraverso cui la Consulta aveva affermato dal un lato[7] che il “diritto penale del fatto” non poteva non incentrarsi sulla necessaria offensività delle norme incriminatrici, precludendo ad esse di trovare il loro esclusivo fondamento sul “tipo” o sul “vissuto” dell’autore e dall’altro[8] aveva enucleato i due piani su cui si trova ad operare il principio di offensività in questione, ossia in astratto quale canone orientativo per il legislatore ed in concreto quale criterio interpretativo – applicativo per il giudice.
Ciò premesso, tenuto conto della maggior pericolosità della condotta di coltivazione, destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi di stupefacente disponibili, le Sezioni Unite hanno poi reputato ampiamente giustificata e condivisibile la scelta legislativa volta ad anticipare la soglia della punibilità fino al pericolo presunto, potendo dunque essere ritenuta penalmente irrilevante, in linea con il principio di ragionevolezza, all’esito di un giudizio prognostico di potenziale aggressione del bene giuridico tutelato (ravvisato nella salute - individuale o collettiva - in quanto sempre a detta delle Sezioni Unite è l’unica ad avere un ancoraggio costituzionale diretto nell’art. 32), solo la condotta di coltivazione domestica, seppur tenendo conto dei parametri oggettivi sopra illustrati.
Ribadendo quindi l’inquadramento del reato in questione in termini di pericolo presunto, le Sezioni Unite hanno affermato altresì la necessità di affidare comunque al giudice di merito il compito di verificare se il fatto sottoposto alla sua cognizione abbia “in concreto” leso il bene giuridico tutelato con la inevitabile conseguenza che il reato non potrà ritenersi configurato laddove, all’esito di un accertamento ex post, emerga che la coltivazione ha prodotto effettivamente una sostanza inidonea a provocare un effetto stupefacente in concreto rilevabile.
Tale accertamento, dunque, dovrà essere necessariamente diversificato a seconda che il ciclo delle piante sia completato o meno: infatti, nel primo caso occorrerà verificare l’esistenza di una quantità di principio attivo necessario a produrre un effetto drogante, nel secondo caso, invece, ossia con riferimento alle fasi pregresse, la previsione normativa della punibilità della coltivazione in quanto tale, consente di ritenere penalmente rilevante la stessa, a qualsiasi stadio della pianta che corrisponde al tipo botanico, purché si svolga in condizioni tali da potersene prefigurare il positivo sviluppo.
In tale ultimo caso, al fine di escludere la punibilità, potrà, pertanto, rilevare: 1) la non adeguata modalità di coltivazione verosimilmente inidonea a realizzare il risultato finale; 2) il prodotto della coltivazione non corrispondente al tipo botanico o con un contenuto di principio attivo troppo “povero” per la sua utile destinazione all’uso.
Quindi, sul piano dell’offensività, le Sezioni Unite hanno affermato che il reato di coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti (condotta attinente all’attività svolta dall’agente in ogni fase dello sviluppo della pianta, dalla semina fino al raccolto) è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficiente la conformità della pianta al tipo botanico, la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e produrre sostanza stupefacente (conclusione ritenuta peraltro maggiormente in armonia con la Decisione Quadro 25 ottobre 2004, n. 2004/757/GAI).
Occorre, però, in ossequio ai principi di tipicità e di offensività, una graduazione della risposta punitiva rispetto all’attività di coltivazione, che viene quindi nella sentenza in esame così schematizzata:
1) non costituiscono condotte penalmente rilevanti le coltivazioni domestiche al fine esclusivo di autoconsumo, in presenza però dei parametri oggettivi sopra illustrati;
2) la detenzione di sostanza stupefacente esclusivamente destinata all’uso personale, anche se ottenuta attraverso la coltivazione domestica penalmente lecita, rimane soggetta al regime sanzionatorio di cui all’art. 75 D.P.R. 309/1990 (al contrario, in presenza, invece, di una coltivazione penalmente rilevante, la detenzione del “prodotto finale”, costituendo l’ultima fase della coltivazione stessa, potrà essere qualificato in termini di post factum non punibile);
3) alla condotta di coltivazione penalmente illecita, in caso di sussistenza dei presupposti per ritenere la particolare tenuità della stessa o di minore gravità del fatto, sono comunque applicabili rispettivamente sia l’art. 131 bis c.p. che l’art. 73 co. 5 T.U. Stup..
Alla luce delle argomentazioni sopra esposte e al fine di dirimere il contrasto giurisprudenziale che si era formato sul punto, le Sezioni Unite, attraverso la sentenza in esame, hanno, quindi, enunciato il seguente principio di diritto: “Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
5. Vicende di merito e indicazioni per l’applicazione dei principi
La vicenda giudiziaria da cui scaturiva l’investitura alle Sezioni Unite della questione giuridica sopra illustrata vedeva il ricorrente sostanzialmente condannato nei due gradi di merito per i reati, avvinti dal vincolo della continuazione, di detenzione e spaccio di stupefacenti nonché di coltivazione di n. 2 piante di marijuana dell’altezza rispettivamente di circa 1 m e di 1,15 m.
L’imputato, quindi, a mezzo il proprio difensore, proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza emessa in data 28 febbraio 2018 dalla corte d’Appello di Napoli, che seppur parzialmente riformando la pronuncia di primo grado, confermava comunque la penale responsabilità dell’imputato stesso per i soli reati di detenzione ai fini di spaccio e cessione di sostanze stupefacenti di coltivazione di due piante di marijuana, rideterminando la pena in complessivi anni uno di reclusione ed Euro 3.000 di multa.
Il ricorrente lamentava appunto l’erronea applicazione dell’art. 73 D.P.R. 309/1990, in quanto l’offensività della condotta allo stesso contestata sarebbe stata affermata dalla Corte d’Appello in mancanza di accertamento sull’idoneità delle piante a produrre un effetto drogante, circostanza che non poteva essere desunta dalla sola presenza di ramificazioni, essendo il principio attivo contenuto nelle infiorescenze.
Le Sezioni Unite, dopo aver affrontato e risolto la questione giuridica che era stata sottoposta, hanno in realtà, con riferimento al caso concreto, censurato la motivazione utilizzata dalla Corte d’Appello per affermare la penale responsabilità dell’imputato, che richiamava in sostanza l’orientamento tradizionale secondo cui ogni attività di coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti deve ritenersi penalmente rilevante, senza distinzioni, anche qualora destinata in via esclusiva al consumo personale del coltivatore.
Ne conseguiva, quindi, l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente al capo c) dell’imputazione, con rinvio, per un nuovo giudizio, che tenesse conto del principio di diritto enucleato dalla Suprema Corte attraverso la sentenza in esame.
Pertanto, analizzando il caso specifico, alla luce di tutte le risultanze probatorie, i giudici del rinvio saranno tenuti ad escludere la sussistenza del reato di cui si discute al cospetto di quelle condotte di coltivazione di piante, svolte in minime dimensioni e in forma domestica, da cui risulti estraibile un quantitativo modesto di prodotto che, in mancanza di elementi di segno contrario, appare destinato in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.
Ad eccezione di tale ipotesi, il reato di coltivazione dovrà essere invece sempre ritenuto configurabile, indipendentemente dal principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo, infatti, sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente.
Sul piano operativo, però, non può non osservarsi che i principi elaborati dalle Sezioni Unite attraverso la pronuncia in commento rendono particolarmente complessa la valutazione che dovrà essere compiuta dal giudice di merito soprattutto in caso di esclusione di ipotesi di coltivazione domestica e al contempo laddove il grado di sviluppo della coltivazione stessa sia tale da non da non aver ancora raggiunto la soglia dell’efficacia drogante.
In tali situazioni, infatti, il decidente si troverà nella condizione di dover effettuare, mediante una valutazione indubbiamente difficile oltre che ipotetica, una vera e propria “previsione” sulle potenziali fattezze che avrebbe assunto la coltivazione in corso laddove la stessa fosse giunta a completamento.
Ciò posto, alla luce di quanto comunque illustrato dalla Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite attraverso la sentenza in esame, eccetto il caso di autoconsumo, la contestazione del reato di coltivazione domestica, in ossequio ai principi sopra esposti, dovrà quindi necessariamente incentrarsi sui seguenti aspetti, oggetto poi di analitica valutazione da parte del giudicante, ossia:
1) la conformità della pianta al tipo botanico previsto tabellarmente;
2) la modalità di coltivazione, che deve essere idonea a far giungere a maturazione la pianta;
3) le caratteristiche della coltivazione stessa, che non deve essere qualificabile come modesta e/o rudimentale;
4) la previsione in ordine al risultato finale, ossia al quantitativo prodotto;
5) il pronostico sulla destinazione (o destinabilità) di tale prodotto al mercato degli stupefacenti.
L’operazione rimessa al giudice di merito, effettivamente assai ardua da realizzare, è comunque volta ad accertare, secondo le linee interpretative tracciate dalle Sezioni Unite, che la singola condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti, sottoposta alla sua valutazione, si presenti in concreto offensiva dei beni giuridici tutelati dal legislatore, e dunque consenta di integrare l’ipotesi di reato contestato, in pieno rispetto del principio di offensività, nei termini sopra illustrati.
[1] Sul punto Cass. Pen., Sez. I del 10 maggio 1993, secondo cui: “nel delitto di attentato per finalità di terrorismo ed eversione non è determinante la antica e normativamente superata distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi, richiedendosi anche per l’attentato, così come per il tentativo punibile, che gli atti, pur se meramente preparatori, siano tuttavia tali da dimostrarsi, in linea di fatto, come idonei ed inequivocabilmente diretti alla realizzazione di quello che, in assenza della specifica previsione, sarebbe il reato consumato”.
[2] Cass. Pen. Sez. VI, n. 22459 del 15 marzo 2013 secondo cui: “Ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l’offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, attese la formulazione delle norme e la “ratio” della disciplina, anche comunitaria, in materia, sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente” (fattispecie in cui è stata affermata l'idoneità offensiva della condotta di coltivazione in considerazione della qualità dei prodotti già ricavati dalla stessa piantagione).
[3] Cass. Pen. Sez. VI, n. 6753 del 9 gennaio 2014.
[4] Sul punto in particolare Cass. Pen. Sez. VI, n. 22459 del 15 marzo 2013.
[5] Sul punto in particolare Cass. Pen. Sez. VI, n. 8058 del 17 febbraio 2016; ed ancora nello stesso filone interpretativo si inseriscono Cass. Pen. Sez. VI, n. 5254 del 10 novembre 2015; Cass. Pen. Sez. VI, n. 2618 del 21 ottobre 2015; Cass. Pen. Sez. VI, n. 33835 del 8 aprile 2014.
[6] Si veda ad esempio Cass. Pen. Sez. III, n. 36037 del 22 febbraio 2017.
[7] V. in particolare la sentenza della Corte costituzionale n. 225/2008, attraverso cui la Consulta aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 707 c.p., sollevata in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27 co. 1 e 3 Cost.
[8] V. sul punto da ultimo la già citata sentenza Corte cost. n. 109/2016.