1. La rilevanza della veridicità del fatto denigratorio in un recente caso bancario
Le presenti note traggono spunto da un caso emerso in sede contenziosa, e deciso da una recente pronuncia giurisprudenziale [1]. In esso, è venuta in diretto rilievo la questione della liceità, o meno, del comportamento di una banca che aveva espresso, all’interno di una pubblicazione periodica dalla stessa edita e diffusa, e dunque a beneficio dei suoi lettori, il deciso, per quanto sintetico, «consiglio» di non partecipare all’aumento di capitale di una diversa banca, operante nel medesimo territorio della prima.
Chiesto di assegnare alla banca denigrata un cospicuo risarcimento, il giudice viene a respingere l’azione sulla base dell’argomento – che nell’economia del provvedimento assume peso determinante – del carattere «non inveritiero» del giudizio denigratorio dell’assunto; o, come pure si suole dire nel lessico del diritto della concorrenza, in virtù della fondatezza della cd. exceptio veritatis.
Al netto degli aspetti legati alle peculiarità della concreta dinamica di accadimento degli eventi che hanno accompagnato lo svolgimento del giudizio, i quali appaiono tutt’altro che privi di interesse [2], la questione di diritto ivi coinvolta e ora indicata, così come la soluzione alla stessa fornita dal giudice, sollecitano osservazioni che attingono a un livello senz’altro più generale: come costituito, precisamente, dalla posizione (di avversione, di mera tolleranza, ovvero di accoglienza e promozione) riconosciuta all’atto di trasmettere al pubblico, i.e. al mercato, notizie oggettivamente denigratorie, relative a un concorrente.
E si deve poi subito segnalare, al riguardo, che nella considerazione critica di tale aspetto non potrà non rilevare la circostanza – che anzi è destinato ad assumere una posizione di centralità – per cui la tipologia di mercato rilevante in quella vicenda, e pure quella su cui si concentrano gli appunti che seguono, è costituita da un mercato «protetto»: di imprese autorizzate, cioè, e sottoposte alla costante vigilanza di autorità amministrative, a ciò deputate [3].
Tale punto appare senz’altro destinato a prendere un rilievo peculiare, non appena lo si colleghi all’affermazione della sentenza per cui la natura «non inveritiera» del fatto denigratorio emergeva già – agli occhi di un operatore qualificato del settore (quale è la banca, in quanto impresa autorizzata), sembra ragionevole aggiungere [4] – dall’analisi della Nota di sintesi relativa all’aumento.
Un simile fatto, in effetti, viene più ancora a risaltare, ove posto a confronto con la polemica che, nei mesi più attuali, contrappone le due autorità di vigilanza: da un lato, la Consob a sottolineare come abbia dovuto scoprire da sola l’arbitrarietà dei prezzi di emissione dei titoli della banca («denigrata»), a mezzo dell’ispezione condotta nel 2015; dall’altro, la Banca d’Italia a ribadire, anche in relazione agli esiti delle proprie ispezioni (del 2012 e, poi, degli inizi del 2015), l’assunto che «la stabilità si tutela anche con la riservatezza»; e nel contempo a richiamarsi – con toni risoluti – al cd. segreto di ufficio, di cui alla norma dell’art. 7 Tub [5].
2.1 Concorrenza denigratoria ed exceptio veritatis. Cenni
Ancora alla fine degli anni ’80 conosciuta dottrina scriveva che «anche la diffusione di notizie vere (…) quando comporta denigrazione è vietata». «È assai raro» – così si spiegava – «che si dica del concorrente tutta la verità in maniera obiettiva e completa, mentre la difficoltà con cui il pubblico recepisce le repliche dell’imprenditore denigrato si traduce in danni irreparabili a carico di quest’ultimo»: «meglio allora risolvere ogni incertezza con una soluzione sicura che escluda dalle fonti di informazione di un certo mercato tutti i suoi operatori» [6].
In effetti, il testo della norma dell’art. 2598 n. 2 cc («… diffonde notizie o apprezzamenti sui prodotti e sull’attività del concorrente, idonei a determinarne il discredito …») risulta disponibile anche a una simile interpretazione; e forse pure la favorisce. Di certo, tuttavia, il silenzio serbato sul punto della verità non la impone [7]. È chiaro, del resto, che la detta interpretazione viene ad accreditare visioni «corporativistiche» della norma – che sono decisamente superate [8] – e in via correlata assume una prospettiva attenta al solo lato dell’offerta di beni, con esclusivo riferimento, per di più, agli interessi immediati dei singoli, particolari produttori.
2.2 La risalente idea appena riferita, che afferma la compiuta irrilevanza dell’exceptio veritatis, può oggi dirsi a livello di principio ormai abbandonata. Nei fatti, in punto di definizione della regola base del sistema vigente, l’opinione dominante della letteratura si è spostata sulla linea della possibile rilevanza della verità del fatto denigratorio imputato al concorrente. Per assumerlo, in specie, quale elemento dotato di rilievo legittimante, i.e. scriminante dell’illecito concorrenziale. Ciò, a condizione che la relativa enunciazione risulti nel concreto rispettosa del cd. principio di continenza: e sia quindi manifestazione «civile»: così, esemplificativamente, non offensiva, né aggressiva, né esagerata [9].
Com’è naturale, il passaggio appena accennato risulta legato all’emersione di una concezione più «moderna» della regolamentazione della materia della concorrenza tra imprenditori. Concezione meno chiusa, cioè, sul settore (o ceto) dei produttori. Per l’effetto, più aperta e fiduciosa al mercato [10], e in definitiva orientata al medesimo.
Come pure è evidente, peraltro, il compimento dell’indicato passaggio evolutivo ha anche prodotto – cessata la rilevanza esclusiva del fatto denigratorio – la crescita di una buona dose di indeterminatezza, prima di tutto applicativa.
In effetti, la nozione di continenza appare nozione passibile di più letture, anche molto diverse tra loro. Del resto, pure quella di «verità» non manca di proporre più varianti anche su di un livello di ordine meramente applicativo: da quella di fatto «rigorosamente vero» a quello di fatto verosimile, per dire, a quello di fatto solo putativamente vero, secondo un ventaglio di ipotesi che la pratica non manca di mostrare.
2.3 Passando dalla letteratura al dato giurisprudenziale, si può anche qui osservare come la tendenza degli anni più vicini appaia seguire, come linea di massima, la prospettiva qui sopra riassunta. Rispetto alla posizione di questa, peraltro, appaiono particolarmente opportuni due ordini di precisazioni.
Il primo risponde a una valutazione molto diffusa nell’ambito della dottrina. In molti casi – si deve dunque riscontrare – l’adesione dei giudici all’orientamento più aperto, della rilevanza della verità, è risultata solo di principio, quando non propriamente di facciata ovvero meramente programmatica, perché «intermediata» da una lettura particolarmente restrittiva (sostanzialmente preclusiva, si potrebbe fors’anche dire) della regola di continenza. Per svolgere solo un esempio, ma particolarmente significativo, ancora nel 2016 si è deciso nel senso dell’irrilevanza in concreto della verità del fatto denigratorio, perché «nel caso di specie, le denigratorie affermazioni, ben lungi dal rispondere ad esigenze pubbliche, erano finalizzate al vantaggio personale, consistente nell’acquisizione dei clienti della concorrente» [11]. In questa prospettiva, è allora da apprezzare positivamente la «minimizzazione» della regola di continenza che la recente sentenza del Tribunale vicentino, evocata in apertura, viene a operare [12] (in questo alquanto agevolata, si deve pure constatare, dai peculiari contorni della fattispecie concretamente giudicata).
Per più versi collegato al primo, l’altro rilievo muove da un’osservazione di recente svolta da un autore importante. «Latitano» – così si è notato – i «riscontri giurisprudenziali di legittimità» nel senso favorevole all’exceptio veritatis: per trovare «la prima volta» in cui la Suprema Corte abbia dato peso forte, reale all’exceptio – si è pure aggiunto – occorre spingersi, a ben vedere, sino alla sentenza di Cassazione 31 ottobre 2016, n. 22042 (come inerente al notissimo contenzioso innescato dal libro di Bernardo Caprotti, Falce e carrello: le mani sulla spesa degli italiani) [13].
Diversa da questa è la valutazione proposta dalla sentenza del Tribunale vicentino che, tra le altre cose, va propriamente a predicare la sussistenza di una «linea interpretativa consolidata» della Corte a favore dell’exceptio veritatis: così accomunando, in particolare, a quella del 2016 la lontana decisione di Cass., 15 luglio 1965, n. 1535 (così pure ponendola come alpha del relativo orientamento).
Più che contrapporsi, in realtà i due giudizi si muovono su differenti livelli. Uno si accontenta, per così dire, di una comunanza solo generica; si accontenta, per meglio dire, della semplice segnalazione che l’exceptio veritatis è finalmente uscita dal limbo delle cose assolutamente irrilevanti per il diritto della concorrenza. L’altro procede invece verso lo specifico, per constatare come la sentenza del 2016 diminuisca sensibilmente il peso della continenza, per l’effetto così accrescendo quello della verità: «in presenza di notizie a apprezzamenti veritieri sui prodotti e sull’attività del concorrente» – puntualizza la detta sentenza – «un illecito concorrenziale a norma dell’art. 2598 n. 2 c.c. è ravvisabile solo quando (e negli stretti limiti in cui) siano contestualmente formulate vere e proprie invettive e offese gratuite nei confronti del concorrente, che traggono cioè mero spunto o pretesto nella diffusione delle notizie veritiere» [14].
Ciò posto, è appena il caso di annotare che, nei tempi attuali, la sostanza della materia in discorso viene a nutrirsi – né potrebbe essere altrimenti – di questi più sottili distinguo.
3.1 La comunicazione denigratoria e non inveritiera come fattore di informazione del mercato
Posto il descritto contesto del diritto vivente sul fatto di «denigrazione concorrenziale» di cui all’art. 2598 cc, l’impressione di fondo che se ne ritrae è che, a tutt’oggi, l’exceptio veritatis si limiti a rivestire i panni della semplice esimente di un fatto che in sé stesso, in quanto denigratorio cioè, si palesa e qualifica comunque nei termini di un illecito.
Questo, per vero, al di là dell’avvenuto riconoscimento – che si può anzi ipotizzare come ormai definitivo – che, se pur proviene da un concorrente, la notizia vera ben può orientare la domanda di beni (cfr. sopra, n. 2.2, testo e nota 8). E anche al di là delle pur importanti acquisizioni che di recente sono state guadagnate dalla giurisprudenza della Cassazione (n. 2.3, in fine).
In definitiva, forte è l’impressione che il carattere non inveritiero del fatto denigratorio – sostanzialmente cessato di essere assunto come dato irrilevante per il diritto (a questo esterno, per meglio dire) – si trovi adesso a basculare tra la sponda del dato solamente tollerato e quella del dato accettato nei termini di fatto accidentale ed estrinseco (su questa seconda linea v. la sentenza di Cass., n. 22042/2016, più volte citata).
A me pare sia invece da chiedersi, oggi, se – rovesciata la prospettiva - lo sguardo non debba essere gettato più in là. Se dunque la comunicazione al mercato di un fatto non inveritiero non sia – quand’anche denigratorio di un prodotto o di un’attività concorrente – dato da favorire e incoraggiare, in quanto per l’appunto (fatto interno alla concorrenza e) portatore di utili notizie per il mercato medesimo: tanto che si tratti di dato oggettivamente materiale, quanto che si tratti pure di un apprezzamento. E correlativamente, con diretto riferimento al punto normativo della concorrenza tra imprenditori di cui all’art. 2598 cc, se il carattere non inveritiero del dato comunicato non debba essere assunto come criterio guida nell’orientamento della ricostruzione e interpretazione della disciplina concorrenziale dettata da tale norma in punto di denigrazione.
3.2 L’estrema delicatezza del tema, che le poste domande evocano, per i rischi, che allo svolgimento della prospettiva suggerita come risposta potrebbero rimanere attaccati, è del tutto evidente. Come pure appare scontata l’inadeguatezza, per una conveniente trattazione della materia, della presente sede.
Debbo pertanto limitarmi, qui, all’indicazione di qualche rapido spunto a sostegno della detta opzione. Che, d’altra parte, tralascia l’orizzonte generale della concorrenza denigratoria, che pur il tema all’evidenza possiede, per concentrarsi senz’altro sul mercato delle imprese bancarie e dei servizi di investimento: non solo perché a questo appartiene la fattispecie tipo alla cui analisi è rivolto il lavoro, ma anche perché riflette una materia particolarmente sensibile, in sé, alla problematica dell’informazione messa a disposizione del pubblico [15].
In effetti, il piano della fattispecie rappresentata dalle vicende che in questi anni hanno interessato la banca, cui si riferisce il caso giurisprudenziale menzionato in apertura del presente lavoro, dà riscontri davvero illuminanti in proposito. Come sopra si è già accennato (cfr. n. 1), amplificato e massificato in maniera opportuna, il «piccolo» consiglio dato dalla banca concorrente sarebbe stato senz’altro utilissimo al milieu (in termini effettivi, per l’appunto, non già solo potenziali).
Si potrebbe obiettare, forse, che le notizie denigratorie – e allarmistiche, volendo – tendono, in quanto tali (ex ante, cioè), a disincentivare il risparmiatore, a dissuaderlo dall’investire i propri denari. Anche a questo proposito, tuttavia, la fattispecie proposta dai prodotti della banca, che nella fattispecie contenziosa sopra evocata (nel n. 1) risultava «denigrata», viene a fornire una replica sferzante, quanto decisiva sul piano (almeno) della realtà degli accadimenti. La replica si esprime, anzitutto, nella notazione del fatto stesso del crack di tale banca. E se è possibile, naturalmente, che la comunicazione non inveritiera e denigratoria venga nei fatti ad acutizzare la crisi dell’emittente, mi pare difficile pensare, peraltro, che un simile rischio possa dare peso all’idea del silenzio in funzione della stabilità. Ché, se la stabilità della singola impresa bancaria è intesa in funzione di tutela dei suoi clienti, la stessa esige piuttosto attenta e scrupolosa vigilanza preventiva, con interventi pronti a bloccare sul nascere la crisi (nel caso estremo distribuendo la «perdita» secondo il principio della parità di trattamento) [16].
D’altro canto, l’informazione portata sul mercato da un concorrente viene pure a svolgere una funzione di supplenza di quanto non venga – per una ragione o per altra – reso noto al pubblico dalle autorità di vigilanza.
Questo punto è proprio di vertice, a me pare: per escludere la liceità, e dunque pure l’utilità e/o opportunità, della divulgazione di una notizia (non inveritiera, e tuttavia) denigratoria dell’impresa – quale relativa, nel caso concreto, alla proiezione nel futuro della capacità produttiva di questa –, non basta certo ipotizzare che la conoscenza della Banca d’Italia della relativa notizia sia coperta dal segreto di ufficio. Né, peraltro, occorre scrutinare se sia davvero così sul piano del diritto vigente [17]. Per reggere un simile assunto, bisognerebbe arrivare sino al limite estremo di affermare che la diffusione di questo tipo di notizie risulta in sé stesso, oggettivamente, vietata. E pure individuare una ragione effettivamente in grado di sostenere un assunto di questo genere.
Non si può non ricordare, poi, che, sul piano della disciplina di settore, il testo unico bancario e il testo unico dell’intermediazione finanziaria contengono ampi spazi dedicati all’informazione del mercato. Il riferimento va, naturalmente, alla normativa del Tuf sull’informazione dovuta dagli emittenti (prospetti, informazione societaria, …); ma va anche (e forse più ancora) alle regolamentazioni di trasparenza delle operazioni, che i detti testi vengono a prescrivere. In effetti, la cura dell’informazione − che contrassegna tali testi (a mezzo di clausole generali e di norme di dettaglio, come pure dettate delle relative fonti regolamentari) − risulta propriamente destinata a beneficio, oltre che della clientela, anche delle imprese concorrenti (esemplari, da quest’angolo visuale gli artt. 116 e 123 Tub), sì che queste meglio possano confrontarsi sul mercato [18].
Del resto, la stessa normativa regolamentare sull’adeguatezza delle operazioni di investimento da proporre alla clientela suppone – così a me pare, almeno – una diffusa circolazione delle notizie attinenti alle imprese concorrenti: ché, altrimenti, sarebbe difficile pretendere dagli intermediari un’effettiva professionalità nella valutazione dei prodotti delle imprese altrui.
4. 4. (Segue) Conseguenze operative
Nel portare a termine le presenti note, occorre ora dare, rispetto al concreto contesto della disciplina dell’art. 2598 cc, qualche segno operativo che discenda dall’assunzione di una prospettiva in cui la notizia non inveritiera, seppur denigratoria, sui prodotti e/o attività di un concorrente viene intesa nei termini di dato interno, fisiologico del mercato.
4.1 Particolare rilevanza mi pare possa assumere, in proposito, il punto della materia probatoria. Sin quando si ritiene che l’atto di concorrenza sleale sia integrato, in sé e per sé considerato, dal mero aspetto denigratorio della notizia divulgata, l’onere della prova del fondamento non inveritiero della notizia medesima non può atteggiarsi se non nei termini della prova liberatoria, per intero così ricadendo il relativo onere sul soggetto che informa il mercato. Secondo quanto indica, del resto, lo stesso – tradizionalissimo – riferimento alla veridicità del fatto nella chiave concettuale di un’«exceptio».
Non così accade invece − è chiaro − nel caso in cui si ritenga l’informazione resa dal concorrente come fattore fisiologico di svolgimento delle dinamiche di mercato: in questo contesto assumere a regola di giudizio la presunzione di falsità della notizia denigratoria appare inaccettabile. In una simile prospettiva il fatto denigratorio si manifesta, di per sé stesso, come dato tendenzialmente «neutro».
La stessa non conduce, dunque, a predicare una specie di automatica presunzione di veridicità della notizia denigratoria. In realtà, la materia qui in esame non sembra prestarsi particolarmente all’adozione di soluzioni preconfezionate e standard. Essa sembra affidarsi, piuttosto, a valutazioni di tratto fluido ed elastico, come ritagliate sugli specifici contorni delle diverse fattispecie concrete volta a volta esaminate: nel caso pure appoggiandosi, in determinate circostanze, al criterio della vicinanza della prova (comunque senza pregiudizi o preconcetti di sorta).
4.2 Del resto, il tema del rilievo probatorio deve anche fare i coni con il peculiare oggetto del giudizio, come rappresentato dalla verità del fatto denigratorio, o meglio del carattere non inveritiero di questo. Nell’ottica dell’informazione del mercato, in proposito il giudizio dovrebbe valutare, più che l’effettiva verità storica del fatto in quanto tale, l’attendibilità e/o ragionevolezza dello stesso con riferimento al tempo in cui la notizia è stata divulgata e alle conoscenze disponibili in quel momento.
Nei confronti dei fatti materiali, tale indicazione dovrebbe tradursi nella ricerca della verità presumibile in quel dato momento, come desumibile da fonti (o altre ragioni) oggettivamente attendibili e in presenza di una almeno relativa sufficienza di disponibilità delle fonti. Per quanto riguarda gli apprezzamenti che si risolvono in giudizi prognostici, com’è nel caso esaminato dal Tribunale vicentino, la valutazione del carattere non in veritiero dovrebbe in particolare concentrarsi, a me pare, sulla oggettiva ragionevolezza dello stesso, come fissata sul metro della diligenza professionale di ordine tecnico.
4.3 Pure il requisito della continenza – i.e. delle corrette modalità di espressione del fatto denigratorio – dovrebbe essere fatto oggetto, nel contesto della prospettiva indicata, di un’adeguata rivisitazione. D’altronde, al di là dell’apprezzabile suo «alleggerimento» portato in questi tempi dalla Cassazione (cfr. nel n. 2.3), il detto requisito – una volta che le regole della concorrenza non vangano più considerate come un affare esclusivo dei produttori – finisce per apparire un po’ in crisi di identità, se così si può dire.
Nella prospettiva dell’informazione sembra contare – più che un’asettica «civiltà» espressiva – l’obiettivo della facilità percepibilità da parte dei consumatori, nel contempo resi avvertito che la notizia è «seria», non già fatta oggetto di storpiature o iperboli (appena il caso di aggiungere che non giova certa alla comprensione una comunicazione che sia formata da toni particolarmente accesi) [19].
Posta la detta funzione, non sembra risultare circostanza in sé rilevante, poi, quella della non novità della notizia, e nemmeno lo sono, sempre come criterio orientativo, il fatto in sé della comparazione tra prodotti e comunque la sussistenza di altri elementi che denuncino che la notizia è portata a conoscenza del pubblico in funzione di un diretto interesse del concorrente: a rilevare, in effetti, pare essere non altro che la notizia in quanto tale. Potrebbe invece manifestarsi cosa importante, a livello di «forma contenuto» della comunicazione, che la relativa espressione contenga almeno un’indicazione minimale (o pure simbolica) delle ragioni che la sorreggono; o che comunque palesi chiara la disponibilità del concorrente informatore di mostrare, a richiesta, le circostanze che fondano il convincimento che ha espresso [20].
[1] Si tratta del provvedimento del Tribunale di Vicenza, 18 settembre 2017, Giudice D. Morsiani. Il provvedimento è pubblicato integralmente su Dirittobancario.it. La massima è la seguente: «Non costituisce atto di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 2 c.c. il comportamento della banca che nel maggio 2014 pubblica sul proprio quindicinale di informazione la stringa “PS: largamente sconsigliabile la partecipazione all’aumento di capitale della Popolare Vicenza”».
[2] Al riguardo, è da rilevare il carattere «insolito» della vicenda: è invero raro, per quanto a mia conoscenza almeno, che nel sistema italiano si accenda una questione di concorrenza sleale tra banche e ancor più che al riguardo si giunga ad aprire una controversia giudiziaria. Per altro verso, pure è da rilevare come nella specie il momento della «comparazione» tra imprese – che è aspetto assai frequente nell’ambito generale della concorrenza denigratoria – risulti parecchio sfumato, se non propriamente implicito (seppur inequivoco). E ancora va rimarcato che, nel caso in esame, la denigrazione non incrocia fatti materiali veri e propri, bensì un giudizio: e prognostico e, altresì, di ordine strettamente tecnico.
[3] La detta circostanza fa sì che il fatto denigratorio venga alla luce in un contesto per così dire protetto. Nel senso che l’aumento di capitale, che ne viene coinvolto, si è mosso all’interno dell’area vigilata dalla Banca d’Italia e della Consob, che pure all’epoca non ritennero di intervenire.
[4] Secondo la normativa degli artt. 21 ss. Tuf, gli intermediari – per la peculiare professionalità che ne deve caratterizzare l’azione – hanno tra gli altri il compito di portare ai loro clienti una comprensibile sintesi dei risultati delle indagini che hanno condotto sui titoli oggetto di potenziale investimento (ex art. 21 comma 1 lett b), gli stessi «devono», in specie, «operare in modo che [i clienti] siano sempre adeguatamente informati».
[5] Cfr. l’audizione del 2 novembre 2017 e l’audizione – testimonianza del 9 novembre (congiunta, quest’ultima, a quella di Carmelo Barbagallo, capo del dipartimento vigilanza della Banca d’Italia) di Angelo Apponi, direttore generale di Consob, avanti alla Commissione bilaterale d’inchiesta sul sistema bancario e finanziario: sulla Popolare di Vicenza «non abbiamo ricevuto nessuna informazione sul prezzo da Banca d’Italia»; che il prezzo delle azioni della Popolare potesse essere stabilito con procedure che venivano a renderlo «arbitrario o quasi» è venuto ad emergere, per la Consob, «a seguito della nostra ispezione del 2015» (minuti dal trentesimo in poi).
[6] Così G. A. Guglielmetti e G. Guglielmetti, Concorrenza, in Nss. Dig. it, ed. 4, Dir. Priv. Sez. Comm., III, Torino, p. 325 (i quali, in coerenza con un’impostazione di stampo corporativo, ammettevano peraltro la denigrazione non inveritiera quando portata come legittima difesa).
Per un primo, basico check sulle tesi emerse in materia di rapporti tra verità denigratoria e concorrenza sleale vds., di recente, M. Libertini e A. Genovese, Disciplina della concorrenza, in Comm. del cod. civ. diretto da E. Gabrielli, artt. 2575 – 2642 a cura di D. Santosuosso, Torino, 2014, pp. 548 ss.
[7] Si è soliti richiamare in proposito anche la norma dell’art. 10 bis, n. 2, della Convenzione d’Unione, che per l’appunto viene senz’altro a vietare le «allegations fausses» (cfr., ad esempio, A. Vanzetti e V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, ed. 7, Milano, 2016, p. 81).
[8] È noto che, considerato per la sua origine storica, «l’istituto della concorrenza sleale risente profondamente della sua matrice “corporativa” di disciplina volta e regolare i rapporti interimprenditoriali sul mercato» (R. Pardolesi, Impresa, mercato e intervento statale, in Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento a cura di N. Lipari, Bari, 1974, p. 734). La normativa dettata nell’art. 2598 cc è risultata, tuttavia, sufficientemente elastica e flessibile (soprattutto perché costruita in gran parte a mezzo di «concetti giuridici indeterminati») da potere essere oggi riletta in chiave di «insieme di norme poste dall’ordinamento statale per fini di utilità sociale relativi al buon funzionamento del mercato, anche nell’interesse dei consumatori e indipendentemente da (e talora in contrasto con ) gli interessi e le valutazioni delle categorie imprenditoriali destinatarie delle norme di cui si tratta» (M. Libertini e A. Genovese, nota 7, p. 487).
[9] Indicazioni ad esempio in G.L. Ubertazzi, Comm. breve alle leggi su Proprietà intellettuale e concorrenza, ed. 6, Padova, 2016, p. 2341 ss.
[10] R. Pardolesi, Exceptio veritatis e furore denigratorio: “Falce e carrello” in Cassazione, in Foro it., ottobre 2017: «l’impostazione di un tempo, che negava rilievo all’exceptio veritatis, … si vuole oggi risulti superata dalla precisazione che le informazioni veritiere, idonee a orientare il consumatore in un mercato realmente concorrenziale, non possono essere illecite». In questi precisi termini si esprime pure Cass., 31 ottobre 2016, n. 22042.
[11] Così App. Milano, 1 aprile 2016, pubblicata in Giurisprudenza delle imprese.
[12] «Presupposti di liceità dell’espressione di un’opinione critica come quella in esame, anche si valutata in relazione all’applicazione delle regole di leale concorrenza di cui all’art. 2598 c.c., sono la verità (anche putativa) del fatto presupposto e la sua rappresentazione in forma civile». L’enunciazione di principio svolta dal Tribunale appare sostanzialmente accostabile, in ultima analisi, a quella che è stata di recente formulata da Cass., 31 ottobre 2016, n. 22042, su cui vds. subito appresso nel testo.
Prosegue il provvedimento del Tribunale di Vicenza osservando che «i successivi sviluppi hanno dimostrato quanto fondato fosse il consiglio dato da Finanza News [n.d.a., il nome del bollettino della banca concorrente], in quanto il prezzo delle azioni di Banca Popolare di Vicenza è drammaticamente crollato. Non può quindi rimproverarsi all’autore delle note in esame di avere espresso un giudizio sulla prospettiva di investimento derivante dagli aumenti di capitale del 2014 dell’attrice fondandosi su fatti inveritieri: fatti che giustificavano un giudizio come quello in esame già al tempo in cui esso venne formulato».
[13] Così, in particolare, R. Pardolesi, op. cit. in nota 7.
[14] Sul punto della nozione di «verità» rilevante, la sentenza esclude che le «vicende genericamente verosimili» possano mai possedere un qualche efficacia scriminante.
[15] Il che peraltro non esclude affatto – il rilievo è scontato – che le stesse regole base non possano (se non debbano) essere riferite anche a settori in ipotesi anche meno «sensibili» di quello direttamente in analisi.
[16] Ancora, vale la pena di osservare, a replica e obiezione ulteriore, il trattamento pesantemente deteriore – di marginalizzazione, se non di compiuta esclusione - che la disciplina dell’art. 3 del decreto legge del giugno 2107, di cessione della azienda ad altra banca, ha riservato agli investitori delusi dalla Popolare: costituzionale o meno che sia tale normativa (sul punto si può rinviare al lavoro, redatto con U. Malvagna, «Banche venete» e problemi civilistici di lettura costituzionale del decreto legge n. 99/2017, in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 15, 2017), appare comunque molto difficile ipotizzare – per gli investimenti del futuro – un atto produttivo di un disincentivo maggiore di questo.
Per il rilievo che «una forte protezione dell’investitore» si pone come «elemento determinante per la fiducia dell’investitore» vds., di recente, E. Grossule, Affidamento sull’intermediario e obblighi di informazione in esecutivis, in Banca, borsa, tit. cred., 2015, II, p. 426.
[17] Le osservazioni accennate nel testo si fermano, propriamente, sulla linea del fatto ovvero, se si preferisce, del diritto che risulta essere praticato dall’Autorità.
Sul piano della lettura delle norme, peraltro, il richiamo al segreto d’ufficio – a cui si è appellato il Capo del dipartimento vigilanza della Banca d’Italia a proposito delle vicende inerenti alla banca Popolare di Vicenza – non può convincere. Per tre ordini di ragioni, a me pare, che si dispongono su livelli diversi tra loro.
Il primo livello è dato da ciò che la lettera dell’art. 7 del Tub esclude espressamente l’«opponibilità» del segreto di fronte all’autorità giudiziaria (comma 1) e alla Consob (comma 5), tra gli altri. Il secondo livello è che la norma dell’art. 7 fa riferimento, sul piano testuale, alla comunicazione a terzi di «notizie, informazioni e dati», non alla giustificazione di provvedimenti e valutazioni.
Il terzo livello è che il sistema, che attualmente si trova disegnato nel Tub, assegna alla Banca d’Italia poteri ispettivi, conformativi e sanzionatori, gran parte dei quali sono oggettivamente destinati a non rimanere segreti (senza violazione dell’art. 7) e che, ove assunti, vengono senz’altro a orientare il mercato. Si pensi, così, al potere di convocare «gli amministratori, i sindaci e il personale delle banche» e di ordinare la convocazione degli «organi collegiali» delle medesime; di «adottare (…) provvedimenti specifici (…) riguardanti anche (…) il divieto di effettuare determinate operazioni, anche di natura societaria, e di distribuire utili o altri elementi del patrimonio, nonché (…) il divieto di pagare interessi» (art. 53 bis Tub); ma si pensi anche all’ampio ventaglio − in sé penetrantissimo − delle «misure inibitorie» che l’art. 128 ter consegna al potere dell’Autorità in funzione di trasparenza dei prodotti immessi sul mercato dalla singole banche.
Considerati pure il numero e il peso delle crisi bancarie di questi anni (cfr. il cenno svolto sopra, n. 3), non sembra azzardato affermare, in conclusione, che quello di incremento dell’efficienza operativa delle autorità di vigilanza del comparto finanziario costituisca a tutt’oggi (non meno, per fermarsi al passato prossimo, di quanto lo fosse al tempo dell’emanazione della cd. legge sul risparmio, n. 262/05) uno dei problemi centrali per l’economia del nostro Paese.
[18] Cfr. il mio Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013, spec. p. 79.
[19] Forse una sponda utile al riguardo potrebbe essere data, in proposito, dalla norma dell’art. 21, comma 1, cod. cons., là dove considera «ingannevole» l’informazione che, «seppure di fatto corretta», «induce o è idonea in errore il consumatore» (ma un simile accostamento dovrebbe, per la verità, essere meditato con forte attenzione).
[20] Secondo quanto avvenuto nel caso deciso dal Tribunale di Vicenza, la pubblicazione del giudizio denigratorio sul proprio bollettino aziendale contenendo tra l’altro un implicito, quanto inequivoco, invito a informarsi presso la stessa Banca che lo ha messo in circolazione.