1. Il codice civile italiano compie ottanta anni di onorato servizio.
E’ stato indiscutibilmente uno dei pilastri del nostro ordinamento giuridico, unitamente al codice penale ed ai codici di procedura civile e penale che lo avevano preceduto di pochi anni. Emanato in un periodo particolarmente drammatico della storia patria, nell’infuriare della guerra e quando era ormai al crepuscolo il regime fascista che lo aveva tenuto a battesimo, quel codice è tuttavia sopravvissuto in epoca repubblicana e, sia pure con ripuliture, integrazioni e ritocchi destinati a renderlo compatibile con il nuovo assetto costituzionale, è giunto sino ai giorni nostri conservandosi nel complesso intatto nella sua struttura e nei suoi caratteri fondamentali. Ciò testimonia della solidità del suo impianto, ma nondimeno il tempo scorre ed è evidente che ottanta anni sono tanti, specie ove si consideri quanti e quali importanti mutamenti sono frattanto intervenuti nel nostro vivere sociale e nel contesto politico-economico che la normativa codicistica mira a disciplinare. Ed ecco porsi inevitabilmente, allora, la domanda se non sia venuto il momento di rimettervi mano a questo vecchio codice, per rimodellarlo in tutto o in parte.
E’ tempo di ricodificazione?
Difficile rispondere, perché la domanda implica in realtà una molteplicità di interrogativi. Si tratta di capire non solo e non tanto se il codice, così com’è, sia o meno ancora in grado di svolgere la funzione per cui è stato creato, ma anche, in termini più generali, se la stessa idea della codificazione sia ancora adeguata al nostro tempo; ed, infine, qualora si ritenga che, almeno in astratto, un moderno ordinamento giuridico tuttora abbisogni di uno strumento normativo di questo tipo, non si può fare a meno di chiedersi se i meccanismi di produzione legislativa di cui siamo soliti servirci siano oggi presumibilmente in grado di condurre a compimento, con risultati felici, un’opera così complessa quale sarebbe l’emanazione di un nuovo codice civile o anche solo la rielaborazione organica di intere parti di quello vigente.
In altri paesi europei, segnatamente in Francia ed in Germania, importanti revisioni di parti dei codici ivi vigenti sono state compiute negli scorsi decenni; ma è controverso se i risultati siano del tutto soddisfacenti.
2. Anche il codice civile, al pari di qualsiasi altro testo normativo, è un prodotto della storia, e la storia conosce spesso movimenti pendolari. Benché sian cose note, non è mai inutile, perciò, gettare brevemente uno sguardo indietro per rammentare che il codice nostro codice, come quasi tutti quelli emanati nei paesi di civil law, è figlio di quella straordinaria opera di ingegneria giuridica che fu il Code Napoleon, il quale a propria volta era frutto di un’epoca di straordinari rivolgimenti politici e sociali ed il cui impianto è sopravvissuto pur dopo che quella stagione ebbe termine.
Al tramonto dell’ancien régime, con l’affermarsi delle idee dell’Illuminismo e del giusnaturalismo, era apparso vieppiù impellente il bisogno di sottrarre il cittadino al rischio di arbitrio del potere assoluto, favorito dalla sovrapposizione di fonti giuridiche diverse, talvolta oscure e mal coordinate, per riuscire a dotare la società di regole giuridiche generali, astratte e ben chiaramente intellegibili. La codificazione napoleonica, al pari di tutta la codificazione ottocentesca scaturitane, è il prodotto di quel clima: esprime, appunto, l’esigenza di elaborare un insieme di regole giuridiche sistematiche ed ordinate, idonee perciò ad essere interpretate ed applicate in base a criteri tecnico-giuridici rigorosi e predefiniti: la certezza del diritto è la sua bandiera.
Pur dopo la chiusura della parentesi napoleonica, nonostante la restaurazione, la gran parte degli stati italiani preunitari, come già accennato, tenne ferma la normativa codicistica elaborata sul modello francese, poi largamente ripresa anche nel primo codice dell’Italia unita del 1865 ed, infine, nel codice civile tuttora vigente.
Era forse venata di utopia l’idea che un codice, composto da disposizioni legali chiaramente formulate e ben ordinate, potesse garantire l’assoluta certezza del diritto, eliminando ogni margine di discrezionalità applicativa e riducendo il giudice, secondo la celebre espressione di Montesquieu, a mera bouche de la loi. Già a Sant’Elena, stando a quel che riferisce Las Cases nel suo Memoriale, Napoleone si rammaricava che l’opera disordinata degli interpreti avesse macchiato la purezza del disegno giuridico del suo Code civil, rischiando di comprometterne le finalità. Del resto anche Manzoni, degno nipote di Cesare Beccaria, nella sua Storia della colonna infame deprecava l’arbitrio del giudice, da lui considerato «in somma la stessa cosa che, per iscansar quel vocabolo equivoco e di tristo suono fu poi chiamata potere discrezionale», non mancando però poi di osservare che un tal potere discrezionale «i savi legislatori cercano non di togliere, che sarebbe una chimera, ma di limitare ad alcune determinate e meno essenziali circostanze, e di restringere anche in quelle più che possono» (Storia della colonna infame, Tipografia Guglielmini e Redaelli, Milano, 1840, riprodotta da Vincenzo De Paolis Editore, Milano 1981, p. 777).
La dialettica tra diritto codificato, opera del legislatore, e diritto vivente di formazione giurisprudenziale è certo assai più antica, e si può dire che risalga alle origini stesse dello ius, ma è divenuta vieppiù attuale nell’epoca delle grandi codificazioni moderne. Nel succedersi delle stagioni la bilancia ha oscillato, talvolta dando più peso all’esigenza di certezza e prevedibilità del diritto, sforzandosi perciò di limitare gli ambiti di discrezionalità interpretativa del giudice, altre volte riconoscendo la necessità di modulare l’applicazione della regula iuris all’infinita varietà delle specifiche vicende umane e, di conseguenza, dando maggiore spazio alla funzione lato sensu creativa dell’interpretazione giurisprudenziale.
Quel che comunque appare oggi evidente è che il vento della storia ha pian piano scompaginato le rigorose costruzioni geometriche del positivismo giuridico. I codici, ed in particolare il codice civile, con la loro pretesa di esprimere in modo completo e sistematicamente ordinato le principali regole giuridiche alle quali dovrebbe essere improntato il funzionamento della società, han perso vieppiù di centralità. E’ sopraggiunta quella che, con una fortunata espressione, uno dei più avvertiti giuristi del nostro tempo, Natalino Irti, ebbe a definire L’età della decodificazione, così appunto intitolando un notissimo saggio (originariamente pubblicato sulla rivista Diritto e società, 1978, pp. 613 e segg., poi ristampato in un volume dal medesimo titolo, edito da Giuffrè, Miano 1986). Conviene riprendere alcuni passaggi dello scritto di Irti. «I linguaggi delle leggi, molteplici e discordi, prolissi ed ambigui, declamatori e programmatici rendono ormai impossibile un linguaggio unitario del diritto civile». Col proliferare di leggi speciali, ispirate a logiche autonome, aggiunge ancora Irti, «il codice civile … subisce così un rovesciamento di funzioni: non diritto generale ma residuale», sicché «il nostro non è tempo di nuove codificazioni, né di riforme generali con cui ci si illuda di mutare struttura e funzione del codice vigente». Ed in questo sistema sempre più policentrico, ormai scevro dall’ideologia tolemaica cui era ispirata la codificazione, Irti ravvisa non soltanto la crisi della centralità del codice, ma, in termini ancor più generali, la crisi dello Stato moderno.
Da sponde opposte anche giuristi assai diversamente orientati, tutt’altro che inclini a rimpiangere un presunto paradiso perduto della certezza del diritto, come ad esempio Paolo Grossi, giungono ugualmente a svalutare la funzione dei codici, scorgendovi il residuo di una concezione giuridica accentratrice, ormai superata dal tramonto del mito del legislatore onnipotente, e rinvengono nel dinamismo stesso della società le vere e più profonde radici del diritto. Ed infatti Grossi (Ritorno al diritto, Laterza, Bari, 2015, p. 6) scrive che la pretesa di fissare nei codici un complesso di previsioni normative dettagliate e complete «non sarebbe in grado di tener dietro all’incessante divenire sociale, economico e tecnico» da cui è caratterizzata quella che egli definisce «la post-modernità».
Dobbiamo allora concludere che i codici, ed in particolare il codice civile, hanno fatto ormai il loro tempo? Dobbiamo accingerci a riporli in un cassetto, questi codici, o eventualmente a sfogliarli solo di tanto in tanto, magari aspettando che ci si dischiuda dinanzi un futuro diritto costruito in gran parte su algoritmi decisori?
Ne dubito. Pur senza negare fondamento alle riflessioni cui ho appena fatto cenno e pur essendo incontestabile il ridimensionamento dell’importanza del codice civile nell’attuale ordinamento giuridico, una conclusione così radicalmente negativa mi parrebbe quanto meno affrettata. E’ indubbio che viviamo in un’epoca di disordine normativo, dovuto in parte al notevole ampliamento del raggio di azione del diritto anche in aree del vivere civile in precedenza trascurate, in parte al tumultuoso sviluppo di nuove tecnologie, che pongono inediti problemi di regolazione giuridica con un’urgenza cui spesso il legislatore non riesce a tener dietro, ed in parte al sovrapporsi ed all’intrecciarsi di fonti normative diverse, anche sovranazionali, ed alla difficoltà di dar vita ad orientamenti giurisprudenziali sufficientemente stabili ed univoci. Un disordine normativo che potrebbe, per certi aspetti, richiamare quella situazione di incertezza e quei rischi di arbitrio ai quali, come si è ricordato, l’età delle codificazioni aveva cercato di porre rimedio. Scorgere in tutto questo un ritorno al medioevo del diritto sarebbe sicuramente eccessivo, ed è sempre azzardato mettere sul medesimo piano situazioni e vicende storiche prodottesi in tempi assai diversi. Quel che mi pare indubbio, però, è che anche oggi l’instabilità del sistema giuridico e la progressiva perdita di organicità dell’ordinamento si traducano in fattori di incertezza, che la società avverte come patologici ed ai quali sente il bisogno di porre argine.
3. Sin dalla fine del secolo scorso è andata vieppiù maturando la consapevolezza che il diritto, per sua stessa natura, è divenuto un sistema così complesso da risultare necessariamente caotico, ma che proprio per questo – per dirla con Taruffo (Aspetti del precedente giudiziale, in Criminalia, 2014, p. 56) – occorre, oggi più che mai, cercare di farvi emergere almeno delle “isole di ordine”. Ed, infatti, negli ultimi decenni ci si è sforzati di elaborare svariati testi normativi, denominati un po’ approssimativamente talvolta codici e talvolta testi unici, con la finalità di disciplinare in modo più o meno completo importanti settori dell’ordinamento (il testo unico bancario, il testo unico della finanza, il codice del consumo, il codice dei contratti pubblici, il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ecc.). Si tratta, ben vero, di testi normativi con una portata circoscritta a specifici ambiti dell’ordinamento, il che parrebbe dunque confermare la tendenziale perdita di centralità del codice civile. E si tratta di normative di settore che risentono quasi tutte fortemente dell’influenza del diritto sovranazionale europeo, frutto di tradizioni giuridiche in parte diverse da quella alla quale è ispirato il codice civile. Accade sovente che il legislatore europeo adoperi concetti ed espressioni non facilmente trasponibili nel diritto nazionale: si pensi, ad esempio, al diverso modo in cui il diritto unionale intende la nozione di impresa (estesa anche alla libera professione), oppure alla tendenziale estraneità al diritto europeo di concetti tipici del nostro diritto, quali la distinzione tra nullità ed annullabilità degli atti o tra diritti soggettivi ed interessi legittimi. Donde, talvolta, la difficoltà anche solo di armonizzare istituti e linguaggio tradizionali, propri del codice civile, con quelli di nuovo o diverso conio di cui si avvalgono le normative di settore improntate al diritto sovranazionale, e la conseguente diffusa abitudine a dettare definizioni e principi generali valevoli solo in ambiti circoscritti. Queste molteplici fonti normative, pur essendo distinte e formalmente separate dal codice civile, hanno caratteristiche per certi aspetti diverse dalle leggi speciali che al codice già in passato facevano corona. Ambiscono infatti ad avere un carattere di organicità e sistematicità loro proprio, quasi a rispondere, in ciascun ambito specifico, a quella medesima esigenza di maggior certezza e prevedibilità del diritto che sin da principio ha storicamente costituito, come si è visto, il fondamento stesso delle codificazioni.
Stando così le cose, sarei propenso a credere che il codice civile, pur se privato della sua corona di sovrano assoluto dell’ordinamento, non abbia perso ogni utilità ed ogni funzione.
Già più di sessant’anni fa Rosario Nicolò, ponendo l’interrogativo su cosa debba rappresentare un codice di diritto privato in una società moderna, formulava un’alternativa e si chiedeva se «esso debba essere un corpus, il più completo possibile, di norme precise e analitiche per tutti gli istituti della vita giuridica, ispirate al rigoroso tecnicismo degli iniziati, o se piuttosto non debba essere un tessuto di principi, sui filoni fondamentali dell’esperienza giuridica, che, per la loro capacità espansiva e la loro flessibilità, possano, attraverso l’integrazione di fonti normative a carattere meno impegnativo di un codice (leggi speciali, usi, ecc.), e attraverso il penetrante lavoro dei giuristi, teorici e pratici, che vivono e comprendono quella esperienza, adeguarsi più da vicino al ritmo della evoluzione delle nostre strutture sociali» (voce Codice civile, in Enc. dir., Giuffré, Milano, 1960, vol. VII, p. 241).
Se oggi si vuole ripensare il codice civile, mi sembra che la risposta debba orientarsi in favore della seconda delle due alternative prospettate da Nicolò. In un ordinamento giuridico che è fittamente popolato da leggi speciali e da normative di settore più o meno organiche ed è strettamente intrecciato con un ordinamento sovranazionale europeo a propria volta assai composito e mutevole, mi pare chiaro che la funzione del codice andrebbe ricercata non tanto e non soltanto nei singoli ambiti (persone, famiglia, successioni, ecc.), nei quali le regole codicistiche ormai spesso convivono con testi normativi più specifici, con cui esse potrebbero comunque essere meglio coordinate, quanto soprattutto nell’individuazione di un nucleo di principi generali capaci di assicurare un minimo di unitarietà all’ordinamento nel suo complesso e destinati a fungere da filo conduttore.
D’altronde, è quello che in larga misura già avviene, ogni qual volta è appunto a regole generali dettate dal codice civile che si fa riferimento: in materia, ad esempio, di correttezza e buona fede nei rapporti intersoggettivi di qualsiasi tipo, di responsabilità civile derivante da qualsiasi causa, di prescrizione dei diritti, e via dicendo.
In una prospettiva de iure condendo varrebbe forse la pena di ripensare il codice non come strumento regolatore dell’intera gamma dei rapporti civili, ormai troppo vasta e variegata, ma come momento di coordinamento tra le molteplici discipline di settore, definendo quel tanto di principi generali che ad essi sono comuni. Quindi, inevitabilmente, un codice destinato a contenere più clausole generali che non regole dettagliate e specifiche, nella convinzione che tali clausole, per quanto se ne voglia diffidare scorgendovi il Cavallo di Troia di un’incontrollata discrezionalità giudiziaria, sono oggi il principale strumento per realizzare quelle “isole di ordine” evocate da Taruffo. E si potrebbe allora provare ad introdurre o a rielaborare in termini generali nel codice civile, a titolo d’esempio, temi trasversali o comunque di larga portata, quale l’abuso del diritto, i cosiddetti danni punitivi, la tipologia ed i caratteri distintivi delle diverse forme di invalidità – assoluta o relativa – degli atti giuridici, la rilevabilità d’ufficio o ad istanza di parte dei loro diversi possibili vizi negoziali, l’obbligo di rinegoziare i contratti in presenza di sopravvenienze impreviste, i rapporti tra concorrenza sleale e diritto antitrust.
Compito quanto mai arduo, che non dovrebbe prescindere da forme di collaborazione approfondita e sistematica della dottrina, anche al di là delle pur lodevoli iniziative già spontaneamente in tal senso intraprese da associazioni accademiche.
4. Resta però aperto l’ultimo, forse il più spinoso, degli interrogativi ai quali ho prima fatto cenno.
Se la principale funzione di un codice civile è quella di assicurare il massimo possibile di coerenza organica e di sistematicità alle linee portanti dell’ordinamento nel vasto ambito del diritto civile, è di tutta evidenza che deve trattarsi di un’opera di alta ingegneria giuridica, come indubbiamente lo era il prototipo napoleonico e come lo sono stati e lo sono i codici emanati in Italia nella prima metà del secolo scorso. Se così non fosse, se cioè il codice contenesse disposizioni ambigue, ispirate a principi contraddittori, o comunque formulate in modo poco chiaro e perciò potenzialmente foriere di ulteriori incertezze e di inevitabile maggiore litigiosità, allora la sua principale funzione ne risulterebbe tradita. Non si può certo pretendere di richiamare in vita il mito di una certezza del diritto totale ed assoluta e mi rendo conto che anche il linguaggio del legislatore non può non risentire del mutamento dei tempi, ma, se ci si accinge ad un’opera di sistematizzazione che serva a tracciare i limiti entro i quali l’indispensabile discrezionalità interpretativa è fisiologica ed a fornire al giudice ed a tutti gli operatori giuridici i punti cardinali del loro delicato compito applicativo, è indispensabile riuscire a delineare un quadro di riferimento chiaro, coerente e ben costruito. Altrimenti è meglio rinunciarvi.
Allora, pur senza indulgere nella solita, stucchevole, laudatio temporis acti, è doveroso chiedersi se oggi, in un un’epoca che anche in ambito giuridico potrebbe definirsi di Pensiero debole (parafrasando il titolo di una nota opera filosofica di Gianni Vattimo, edita da Feltrinelli nel 2009), vi siano o meno le condizioni per condurre a buon fine un’operazione di codificazione all’altezza del compito. Non è tanto questione della capacità di scrivere più o meno bene i testi normativi, quanto del meccanismo stesso col quale lo si fa.
Non ho la pretesa di trattare qui approfonditamente del modo in cui si producono oggi le leggi nel nostro paese, ma un fugace sguardo al retrobottega del legislatore basta per rendersi conto dell’esistenza di non pochi seri problemi, che in particolare si presentano quando si tratti di varare testi di legge di ampio respiro, che richiederebbero un’elaborazione assai attenta e raffinata in ogni dettaglio. L’emanazione di normative complesse comporta, fatalmente, la necessità di far ricorso allo strumento della legge delega, dando perciò vita ad una dialettica tra Parlamento e Governo che non sempre però si sviluppa in forme virtuose. Per testi legislativi di carattere generale e di grande portata, quali sono certamente i codici, è anche frequente il ricorso all’opera preliminare di commissioni di esperti, sia per redigere progetti di legge delega sia per provvedere poi alla stesura della normativa delegata. Spesso accade, però, che tali commissioni di studio siano lasciate un po’ troppo in balia di se stesse, senza che il decisore politico fornisca loro indicazioni sufficientemente chiare sugli obiettivi di fondo che intende perseguire. Ma, se il progetto riformatore non è sin da principio sorretto da une forte volontà politica, è alto il rischio che la coerenza del disegno messo a punto dalle commissioni di studio possa risultare poi compromessa da interventi estemporanei nel corso dell’iter parlamentare, sotto la spinta di interessi particolari non sempre compatibili con la coerenza complessiva del testo.
Accade poi spesso che i criteri direttivi enunciati nelle leggi di delega non riescono ad evitare gli opposti inconvenienti di un eccesso di dettaglio o di un eccesso di vaghezza. Deleghe troppo evanescenti e generiche mortificano la funzione stessa del Parlamento, come soprattutto si verifica nel caso delle leggi di recepimento di direttive europee, con le quali al Governo viene demandato il compito di recepire una lunga serie di direttive, senza che però sia previamente enunciato alcun criterio di scelta tra le numerose e rilevanti opzioni che quelle direttive lasciano aperte alla discrezione dei legislatori nazionali. Ma accade anche, al contrario, che in taluni casi il legislatore delegante si periti di rendere fin troppo specifiche le proprie direttive, e che allora il Governo, quasi per reazione, si adoperi in qualche modo per sottrarvisi, magari esercitando solo parzialmente alcuni profili della delega, col risultato di modificare il quadro complessivo che il legislatore delegante aveva tracciato (penso, ad esempio, ad alcuni dei criteri dettagliatamente enunciati nella legge n. 155 del 2017, in base alla quale il Governo ha poi emanato il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza senza però attuare, o attuando solo parzialmente taluni importanti criteri di delega).
5. Ritorno allora alla domanda che mi ero posto da principio. E’ tempo di rieditare il codice civile? Mi accorgo però di non riuscire a darvi una risposta.
Sarebbe tempo di ricodificazione, forse sì: perché l’esigenza di restituire maggior ordine alla normativa si avverte ed un codice più moderno e meglio capace di esprimere con chiarezza i principi generali del diritto civile servirebbe. Ma non sempre basta l’ottimismo della volontà e non sono sicuro che, nell’Italia di oggi, vi siano le condizioni storico-politiche indispensabili per realizzare in modo soddisfacente un simile obiettivo.
Relazione svolta in occasione del convegno celebrativo degli ottanta anni del codice civile, tenutosi in Roma il 21 giugno 2022, nella sede della Corte di cassazione, su iniziativa del Consiglio superiore della Magistratura