1. La qualità delle leggi: un breve excursus
L’attenzione per la qualità della normazione dura da tempo. Se ai giorni nostri si moltiplicano i corsi universitari e post-universitari sul drafting legislativo, sul piano dell’organizzazione del processo legislativo questa attenzione è documentata sin dagli anni ‘20 e ‘40 del secolo scorso con l’istituzione ed il rafforzamento dell’ufficio legislativo dell’allora Ministero di grazia e giustizia, pensato in origine come «ufficio generale di legislazione» e provvisto di una rilevanza esterna, come tale in teoria aperto alla presenza anche di personale esterno alla magistratura ordinaria, ben prima che si prevedesse in seno alla Presidenza del Consiglio dei ministri un apposito dipartimento per gli affari giuridici e legislativi.
Questi primi accorgimenti sul piano organizzativo si sarebbero rivelati insufficienti, se è vero che la denuncia delle leggi scritte male si sarebbe confermata ed anzi accentuata con il tempo, originando una corrente di studi, specie al principio degli anni ’60, incline a fondare una nuova “scienza della legislazione” (secondo la proposta di Longo che diede avvio ad un dibattito che vide gli interventi, tra gli altri, di Carnelutti, Chiarelli, Lucifredi, Mortati, Sandulli).
Lungo un itinerario assai ricco il punto di svolta, nella consapevolezza dei problemi e nella ricerca delle soluzioni possibili, può essere individuato nella presentazione alle Camere del Rapporto Giannini, nel 1979. In esso, come noto, una parte non secondaria dei mali della pubblica amministrazione era fatta discendere proprio dalla cattiva qualità della legislazione, in particolare di quella amministrativa, tacciata di oscurità e sovrabbondanza. Ne sarebbe derivata una intensa stagione contrassegnata da ricerche, iniziative e proposte i cui effetti si sono irradiati in diverse direzioni.
Del 1986 sono le prime circolari redatte congiuntamente dai Presidenti di Camera e Senato e dal Presidente del Consiglio dei ministri, sulle modalità di scrittura delle norme di legge, dove ad esempio si raccomandava l’uso dell’indicativo presente e della forma attiva del verbo, sconsigliando invece l’uso dei verbi modali e della doppia negazione, dove si raccomandava di numerare i commi degli articoli di legge e di specificare quali fossero le norme abrogate come anche, nel richiamarsi o nel fare rinvio ad altre disposizioni, di indicarne sinteticamente l’oggetto e non solamente gli estremi. Circolari che sarebbero state modificate ed aggiornate nel 2001 e che furono accompagnate da iniziative non dissimili anche a livello regionale, ad esempio ad opera della regione Toscana con i suoi Suggerimenti per la redazione dei testi normativi.
Di quegli anni sono anche le modifiche apportate alle modalità di pubblicazione delle leggi sulla Gazzetta ufficiale (con la legge 839 del 1984 e il testo unico di cui al dPR 1092 del 1985), con particolare riguardo ai testi coordinati dei decreti legge convertiti con modifiche ai fini di una loro più agevole consultazione, segno di una nuova attenzione per la documentazione giuridica e per le novità apportate dall’informatica.
A livello di fonti primarie, al rafforzamento del Governo e della Presidenza del Consiglio dei ministri a partire dalla legge 400/1988 si accompagnò la previsione, al suo interno, di un ufficio per il coordinamento dell’iniziativa legislativa e dell’attività normativa: quello che poi sarebbe divenuto l’attuale DAGL, istituito nel 1994 e disciplinato compiutamente con il d.lgs 303/1999.
L’attenzione del legislatore non si sarebbe fermata alla qualità della legislazione intesa come buona scrittura delle leggi. Il tema del drafting è divenuto parte di un discorso più ampio che guarda alla progettazione legislativa e all’intero “ciclo della regolazione” e di cui sono parte gli istituti, introdotti a cavallo del nuovo millennio in attuazione delle raccomandazioni dell’OCSE, dell’analisi ex ante sull’impatto della regolazione (AIR), dell’analisi tecnica normativa (ATN), della valutazione ex post sull’impatto della regolazione (VIR). Misure che nell’insieme sono volte a saggiare la conformità e la coerenza delle nuove disposizioni – in progettazione ovvero di recente approvate – rispetto ai diversi parametri normativi, nazionali e internazionali, rilevanti in un determinato ambito, nonché a valutarne l’incidenza e gli effetti, in una parola le ricadute, nei confronti di cittadini ed imprese.
L’estendersi dei compiti e il moltiplicarsi dei parametri, non più solo giuridici ma riguardanti anche profili e saperi diversi, spesso eminentemente tecnici, hanno spostato l’attenzione dal drafting ai draftsmen, ossia ai soggetti chiamati ad assumerne il peso quotidiano. E ci si è cominciati a chiedere se, attraverso i nuovi strumenti, si annunciasse la fine del monopolio dei giuristi; se l’approccio multidisciplinare dovesse significare il necessario coinvolgimento, anche nel momento della scrittura, di esperienze e matrici differenti.
L’obiettivo della qualità della normazione, fin qui perseguito per lo più a livello di staff e di uffici governativi (dove qualificazione professionale e scelta fiduciaria non sempre convivono al meglio), come dimostra l’art. 13-bis aggiunto alla legge 400/1988 e recante, non senza enfasi, «principi generali per la produzione normativa», ha visto naturalmente il necessario coinvolgimento anche del Parlamento attraverso, in particolare, la modifica dei regolamenti e l’istituzione di nuovi uffici come nel caso del Comitato per la legislazione sul finire degli anni ‘90.
Parlamento e Governo sono stati impegnati in un vasto programma di redazione di testi unici e di codici di settori avviato e perseguito nel corso degli ultimi venti anni, nel quadro di un disegno più generale di riordino normativo avviato a partire dalla legge 59 del 1997 in chiave di semplificazione, razionalizzazione e sistematizzazione della disciplina di singole materie o partizioni dell’ordinamento (ad esempio in materia edilizia, espropriativa, di lavoro pubblico, protezione dei dati personali, assicurazioni, diritto dei consumatori, contratti pubblici).
L’obiettivo della qualità della normativa chiama in causa, tuttavia, anche altri organi dello Stato.
Il Presidente della Repubblica, con i suoi rinvii (più frequenti con Ciampi, come avvenne ad esempio al tempo della riforma dell’ordinamento giudiziario nel 2004) e con i suoi messaggi alle Camere (come avvenuto più spesso con Napolitano) in occasione della promulgazione di leggi non immuni da critiche in fatto di coerenza e chiarezza; o anche, attraverso la sua moral suasion, in occasione ad esempio dell’autorizzazione dei disegni di legge o, soprattutto, dell’emanazione dei decreti legge.
La Corte costituzionale, il cui ruolo si è manifestato sin dalla storica pronuncia 364/1988 sulla scusabilità dell’ignoranza inevitabile della legge penale che – vi si legge nella motivazione, al punto 27 – può derivare dalla «assoluta oscurità del testo legislativo», e di cui in tempi recenti con sempre maggiore insistenza si è invocato un sindacato più forte sulla oscurità e sulla qualità delle leggi, per il tramite dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza (è il tema, ancora piuttosto discusso, della “giustiziabilità” della violazione delle regole di drafting su cui si veda, ad esempio, la sentenza 200/2012 riguardante un decreto legge con cui si era stabilita la soppressione di tutta la normativa con esso incompatibile, senza che fosse minimamente chiaro quale e quanta fosse).
Infine il Consiglio di Stato, nell’esercizio della sua funzione consultiva attraverso pareri resi in occasione di regolamenti o anche di codici di settore e, più di recente, di linee guida dell’ANAC in materia di contratti pubblici.
L’insieme delle novità così brevemente ricordate, sollecitate in origine dagli studiosi, anche in chiave comparativa, hanno alimentato a loro volta nuove riflessioni da parte della dottrina. Il tema della oscurità della legge e dello scadimento del linguaggio normativo, più in generale ancora dell’incertezza e della imprevedibilità del diritto, è divenuto assolutamente centrale nella discussione degli ultimi anni.
2. Disordine delle fonti e disordine delle parole
La coerenza e l’efficacia del disegno sin qui brevemente tratteggiato ha dovuto fare i conti con i cambiamenti che hanno attraversato e segnato il procedimento legislativo in Italia, modificandone profondamente i meccanismi e le tecniche, sebbene la Costituzione formale sia rimasta per lo più immutata da questo punto di vista.
Nicola Lupo ha osservato come per diversi decenni, almeno sino al punto di svolta del 1992, il modo di fare le leggi abbia riflettuto il dato sostanziale, “politico”, costituito dalla partecipazione tendenzialmente paritaria delle forze politiche, tanto di maggioranza quanto di minoranza, al procedimento legislativo; quasi in prosecuzione del patto fondativo, e del compromesso costituzionale all’origine della Repubblica, sottoscritto tra i partiti antifascisti.
Di questa tendenziale parità i luoghi e gli istituti più importanti furono, a livello parlamentare, le commissioni in sede deliberante nel procedimento decentrato e le votazioni a scrutinio segreto; tali da determinare la necessità di ricercare sui singoli progetti di legge un consenso che non fosse chiuso all’interno del perimetro della sola maggioranza parlamentare a sostegno del Governo.
Dopo il 1992 e la crisi dei partiti, mutato radicalmente il contesto “politico”, sposato un bipolarismo tanto rigido quanto fragile, il procedimento legislativo non è stato più lo stesso. La tendenza a legiferare a maggioranza si è rafforzata e ha finito per divenire la regola; il baricentro tra Governo e Parlamento si è incrinato sempre di più in favore del primo.
Le conseguenze sono state, per un verso, il dilagare della decretazione d’urgenza su materie le più varie, i cui contenuti sono destinati ad ampliarsi a dismisura in sede di conversione e dove il confronto in Parlamento è “strozzato” dalla prassi di maxiemendamenti sui quali il Governo pone sempre più spesso la questione di fiducia; e, per altro verso, il ricorso alla delegazione con leggi di delega che contengono criteri direttivi generici, talvolta poco più dell’oggetto, e che già prevedono in partenza la necessità di decreti correttivi.
In questo modo la regola di cui all’art. 70 Cost., secondo cui la funzione legislativa è esercitata dalle Camere, è andata erodendosi sempre più, come anche l’altra previsione che equipara il Governo a ciascun membro delle Camere quanto all’iniziativa legislativa.
Al di là dei profili che attengono più da vicino al disegno costituzionale della funzione legislativa e dei rapporti tra Governo e Parlamento, al mutato sistema delle fonti del diritto il cui accresciuto pluralismo (peraltro incoraggiato in più direzioni dalla stessa Costituzione) ha finito per “detronizzare” la legge (per riprendere un’espressione di Zagrebelsky), le tendenze appena ricordate si riflettono sul tema più specifico del drafting normativo.
L’urgenza, la fretta e l’episodicità che accompagnano il processo legislativo poco o nulla si conciliano con il ciclo della regolazione incentrato sugli strumenti dell’AIR e dell’ATN prima ricordati e che, in occasione dei decreti legge, o sono sacrificati del tutto oppure ricevono applicazione solo formale.
L’esperienza dei decreti legge omnibus rende del tutto recessivo lo sforzo e l’impegno verso la chiarezza e la coerenza degli atti normativi. Non di rado, attraverso il combinarsi e il succedersi di deleghe legislative e di decreti leggi, si assiste ad una duplice opera di composizione e di scomposizione del sistema normativo.
Prima, con la delega e i decreti delegati, si batte (anche mediaticamente) la via del riordino normativo e talvolta persino della ricodificazione; salvo poi, in occasione di successivi decreti legge, autorizzare interventi modificativi, derogatori o integrativi a quanto appena disciplinato che, se non restituiscono nuove incertezze, in ogni caso come minimo mettono in luce l’instabilità di quel riordino, sul quale non è dato confidare più di tanto.
L’ipertrofia normativa, già denunziata dal Rapporto Giannini quaranta anni fa e da allora proseguita, va messa in stretta relazione con la tendenza ad “amministrare per legge”; ossia a quel fenomeno per cui il momento attuativo delle previsioni di legge, che sarebbe demandato all’azione delle pubbliche amministrazioni e rimesso al loro prudente apprezzamento, è invece avocato dal legislatore che, per lo più attraverso la decretazione d’urgenza, sceglie lui come (e in favore di chi) si deve provvedere, al di fuori delle garanzie del procedimento amministrativo, lasciando all’amministrazione un compito meramente esecutivo che non ne impegna la responsabilità.
È così che, nella concretezza degli interventi del welfare state e nel quadro di una legislazione disordinata e caotica, la legge si arricchisce di contenuti nuovi, rispetto a quelli tradizionali della fattispecie e dell’effetto da essa ricavabile, attraverso – per riprendere l’elencazione dello storico del diritto Umberto Vincenti – «descrizioni di situazioni, argomenti giustificativi, dichiarazioni di intenti, fissazioni di scopi da perseguire» (l’inesorabile “al fine di…” che segna da tempo l’incipit innaturale di molte disposizioni). Il tutto si traduce in un’abbondanza di parole che, «prima di normare, vogliono spiegare, giustificare, introdurre, suggestionare e illudere», rivelando l’inarrestabile politicizzazione del linguaggio normativo.
Fin qui il discorso in generale sul drafting legislativo.
3. Le stagioni del codice civile
Venendo ora a trattare più da vicino i temi della possibile riforma del codice civile, muovo dalla considerazione secondo cui la codificazione per definizione è all’insegna dell’unità e della certezza dell’ordinamento; laddove, al contrario, il moto verso la legislazione speciale riflette la dinamica degli interessi emergenti nella (e dalla) società.
L’unità e l’unificazione si estendono anche al linguaggio, concettuale ed astratto, proprio della codificazione.
La frase di Stendhal, in una lettera indirizzata a Balzac, a proposito della sua abitudine di leggere ogni mattina qualche pagina del codice civile francese, per trovare il tono giusto prima di cominciare a scrivere, è tra le più note e più frequentemente ricordate, stamane anche dal prof. Ainis nel suo intervento, per elogiare la tecnica di redazione di quel testo.
Si è posto in luce il dato storico per cui il codice civile italiano del 1942, che condivide con quello francese il giudizio pressoché unanime quanto alla raffinata tecnica della sua scrittura, sia nato, nel segno dell’unificazione della disciplina dei rapporti civili e di quelli commerciali, mentre un regime moriva: il fascismo. Sopravvivendogli e affrancandosene. Al punto che, subito dopo la guerra, le proposte di abrogazione furono poche e molto flebili.
Si potrebbe molto discutere se vi sopravvisse perché non ne era stato contaminato, in quanto ancorato ad una visione liberale dei processi economici che nell’Italia repubblicana sarebbe prontamente riemersa, secondo la tesi prevalente, che ha un che di consolatorio e di autoassolutorio; oppure perché anche attraverso i codici, compreso quello civile, si è trasmessa e si è perpetuata la “continuità” dello Stato e dei suoi apparati, lungo una vicenda storica che dallo Stato liberale attraverso il fascismo conduce alla Repubblica, secondo un diverso orientamento che è proprio di una parte autorevole della storiografia del Novecento (e di cui la voce più limpida rimane quella di Claudio Pavone).
La Costituzione, e in particolare il principio di uguaglianza che la ispira, ha incoraggiato la differenziazione e la tendenza alla decodificazione. Ne sono stati esempi nei primi decenni gli interventi sulla proprietà, sulle locazioni, sui contratti agrari, soprattutto sulla disciplina dei rapporti di lavoro; prima ancora che l’armonizzazione avviata a livello europeo, attraverso soprattutto le direttive, avviasse una nuova stagione all’insegna della riscoperta degli status e della pluralità dei soggetti, per compensare vecchie e nuove debolezze. La differenziazione coinvolge anche i linguaggi delle leggi speciali, la cui comprensione è resa più difficile dalla frammentazione degli interventi e dall’utilizzo di formule e stili più tecnici e pragmatici a confronto con quelli del codice. Si parla di tecnolinguaggio; e si distingue tra termini tecnici e termini pseudo-tecnici.
Il recepimento delle direttive si è tradotto, tra le altre cose, nell’assimilazione della tecnica normativa propria del legislatore europeo; una tecnica che vede il ricorso ad elenchi di definizioni (ad esempio, per quanto riguarda le nozioni di consumatore, professionista, produttore, prodotto) e l’utilizzo di un linguaggio semplificante, impermeabile a molte delle categorie giuridiche della tradizione degli Stati membri.
L’abbandono o la dimenticanza delle categorie giuridiche accomuna il legislatore ai giudici dell’Unione europea, per quanto il fenomeno fosse già da tempo in atto, come sottolineato nei suoi scritti da Aurelio Gentili. Le sentenze della Corte di giustizia si muovono con molta e forse troppa disinvoltura nel campo del diritto sostanziale come anche di quello processuale, approfittando della mancanza di codici europei. Sebbene non siano mancati progetti e proposte dottrinali espressione della società civile, come i Principi redatti dalla commissione Lando, parte autorevole di quel secondo “mondo” che viene comunemente indicato come il diritto comune europeo dei contratti, dove invece l’approccio, liberato dalla ricerca del compromesso politico, è più meditato e più attento alla storia e alla comparazione giuridica.
Nel primo “mondo”, quello del diritto comunitario dei contratti, l’utilizzo di definizioni legali e l’impostazione pragmatica ed anticoncettualistica sono spiegati in nome dell’esigenza di garantire quanto più possibile l’uniformità del diritto (positivo) europeo, nella ricerca ogni volta di un punto comune e di una sintesi tra esperienze in origine così diverse. Un ruolo importante è giocato, inoltre, dalle esigenze legate alla traduzione (e alla traducibilità) dei testi normativi in lingue diverse, il che incoraggia l’impiego di un linguaggio volutamente atecnico. Tanto più che la prevalenza della lingua inglese, che è pur sempre la lingua della common law, deve conciliarsi con un substrato che riflette invece soprattutto i modelli francese e germanico.
Dello scarto che separa i due mondi, della non impeccabile (per non dire scadente) qualità del drafting delle direttive si è mostrata consapevole la stessa Commissione, come si ricava da una serie di sue comunicazioni dei primi anni 2000, contenenti linee di azione tese all’elaborazione di un «quadro di riferimento comune» dei concetti e delle categorie rilevanti.
Tornando alla Costituzione italiana, l’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale ha determinato nel tempo un movimento verso la legislazione speciale che ha spezzato e rotto l’unità del sistema. La stagione del disgelo costituzionale e della sua attuazione ha visto erodersi lo spazio del codice civile, in quella che è stata denominata e noi tutti conosciamo da tempo come l’età della decodificazione, secondo la fortunata definizione di Natalino Irti.
4. Una pagina del passato
Da una certa epoca in poi, sul finire della cosiddetta Prima repubblica, il rapporto tra Costituzione e codice si è andato capovolgendo.
La contestazione alla (e della) Costituzione nata dalla Resistenza, le critiche al compromesso costituzionale, da sminuire già solo perché frutto di un compromesso, le riforme realizzate male e quelle rovinosamente fallite, hanno finito per indebolirne il carattere fondativo nei confronti dell’ordinamento repubblicano; mentre con il nuovo millennio il Codice civile riacquistava forza, grazie alla sua presunta neutralità.
Nella frammentazione della disciplina di settore, soggetta a ricorrenti modificazioni, il Codice è apparso un porto dove rifugiarsi, un approdo sicuro, un presidio di ordine e di stabilità.
Ed è in questo quadro, di rinnovata (o forse mai davvero interrotta) centralità del Codice, che si torna a discutere di una sua riforma, all’interno di un più vasto movimento di ricodificazione del diritto privato, specie di quello contrattuale, che negli ultimi anni ha condotto alla riscrittura, per citare gli esempi maggiori, di parti importanti dei codici tedesco (2002) e francese (2016).
Nel nostro Paese per trovare un tentativo simile di riforma complessiva si deve tornare al lontano 1963 quando, con il disegno di legge delega n. 557/c, il Governo del tempo, presieduto da Giovanni Leone, annunciò un intervento che avrebbe dovuto comportare la modifica integrale del codice civile. L’annuncio non ebbe praticamente seguito ma gli studiosi dell’epoca, e tra loro Pietro Rescigno in particolare, definirono come velleitaria, se non persino arrogante, la pretesa di mettere mano al codice. Pretesa che, peraltro, non era rivolta a modificare neppure tutti i suoi libri ma, per lo più, il primo ed il quinto, evidentemente perché giudicati, non a torto se solo pensiamo all’allora diritto di famiglia, come più bisognosi di modifiche.
In pagine di consueta eleganza Rescigno spiegava la propria avversione al progetto con una difesa appassionata del Codice civile del 1942 che all’epoca aveva da poco compiuto venti anni, avendo avuto però cura di precisare come non fossero da accogliere le pregiudiziali chiusure formulate in passato da chi (come Vittorio Emanuele Orlando) si era fatto vanto di non avere mai avanzato proposte di riforma dei codici, benché fosse stato più volte Ministro della giustizia, o ancora da chi (come Alfredo De Marsico) aveva espresso l’opinione che solamente i regimi forti e le dittature fossero in grado di dedicarsi a progetti di codificazione.
A riprova di uno sfavore diffuso tra i giuristi dell’epoca, i punti salienti della relazione di accompagnamento al disegno di legge, dove la necessità della riforma organica era messa in relazione «alle nuove prospettive della società italiana», al «radicale evolversi della situazione giuridica familiare e delle comunità economiche», ai fenomeni di «ampliamento dei mercati interni ed internazionali», erano sottoposti a critica da Michele Giorgianni, nella convinzione che sarebbe stata sufficiente l’opera di rilettura e adeguamento svolta dalla dottrina e la giurisprudenza.
5. Le riforme annunciate e il linguaggio del legislatore
Ai giorni nostri – ora che il Codice di anni ne ha più di settanta, per quanto portati bene – i propositi di riforma per il codice italiano, propugnati ad esempio proprio dalla Associazione dei civilisti e rilanciati in alcune interviste dall’attuale Presidente del Consiglio, potrebbero dirigersi, in primo luogo, verso l’ammodernamento della disciplina delle associazioni e delle fondazioni e degli enti senza personalità giuridica, che il legislatore ha sin qui colpevolmente trascurato in occasione delle riforme negli anni Duemila delle società di capitali e del terzo settore. In un inventario delle materie possibili, più controverso sarebbe intervenire nuovamente in tema di diritto di famiglia, questa volta per disciplinare la possibilità di accordi prematrimoniali e in costanza di matrimonio, come anche su taluni aspetti della disciplina delle successioni, a cominciare da quella necessaria, da tempo considerati più vetusti. Ma è probabile che le attenzioni e gli sforzi maggiori si dirigano verso il libro IV e verso il diritto dei contratti, per rivederne, in particolare, il procedimento di formazione, il regime delle nullità, la disciplina delle sopravvenienze, alla luce in primo luogo di quanto emerso, in questi ultimi anni, nel diritto contrattuale europeo e nel diritto comparato.
Così facendo potrebbe mutare, dal mio punto di vista, il rapporto tra legge e giurisprudenza: prima ancora, il progetto stesso di riforma, preceduto dal dibattito degli ultimi anni su La crisi della fattispecie e sulla Eclissi del diritto civile, per citare i titoli di due scritti (rispettivamente di Irti e di Castronovo) che tutti abbiamo presente, registra probabilmente la reazione della dottrina dinanzi ad una giurisprudenza che era andata conquistando negli anni scorsi uno spazio molto (e forse troppo) ampio. Le teorie sulla cd. giurisprudenza normativa e una certa inclinazione delle Sezioni unite della Corte di cassazione ad indulgere nella elaborazione speculativa, nel “fare dottrina” – paradigmatica la pronuncia sulle nullità contrattuali a fine 2014 – ne sono la dimostrazione.
Dietro il proposito-bandiera di modernizzare il diritto civile mi sembra quindi che vi sia il disegno, più sostanzioso, di ripristinare il codice civile come la fonte primaria del diritto contrattuale. Nei confronti sia dei microsistemi sorti in passato alla periferia del Codice, che del ruolo sempre più creativo ed evolutivo assunto dalla giurisprudenza.
Quanto ai primi si discute da tempo del possibile inserimento nel codice civile dei loro principi generali “settoriali”, nel segno di una revisione per principi, che sembra preferibile alla proposta alternativa di introdurre dentro il codice civile per intero le discipline di derivazione eurounitaria, con il rischio che la loro instabilità finisca poi per contagiare il codice.
Quanto alla giurisprudenza il trasferimento nel codice degli orientamenti più consolidati, sperimentati attraverso il dosaggio delle clausole generali e il richiamo ai valori costituzionali, potrebbe servire a isolare taluni eccessi dettati da una sorta di paternalismo giudiziario, come è avvenuto per la regola di buona fede se pensata come uno strumento a disposizione del giudice in funzione demolitoria di un contratto “ingiusto” (mi riferisco, in primo luogo, alle ordinanze della Corte cost., nn. 248/2013 e 77/2014).
I vantaggi della codificazione del diritto giurisprudenziale sono individuati nella accresciuta legittimazione della regola, nella trasparenza e nella maggiore certezza giuridica. Dove la certezza si legga alla chiarezza e insieme rispondono ad una domanda di sicurezza, anche giuridica, che di questi tempi è molto avvertita e chiama in causa il fondamento stesso della sovranità statale, come sottolineato da Massimo Luciani.
Tra le possibili poste negative di una simile operazione va messo in conto il rischio che la traduzione in norma scritta del diritto giurisprudenziale non sia esatta o sia fatta con troppa fretta, prima che quel diritto si sia consolidato attraverso l’evoluzione giurisprudenziale (e in taluni casi, prima ancora, di quella scientifica). Un rischio che, peraltro, vale tanto per la codificazione ad opera del legislatore quanto per la nomofilachia delle corti superiori, tutte le volte in cui la decisione delle Sezioni unite o dell’Adunanza plenaria interrompa troppo precipitosamente, strozzandole sul nascere, le voci discordanti dei giudici delle corti inferiori.
Sul piano del metodo andrà valutato quale debba essere il posto dei principi generali all’interno di un Codice che, ideato e organizzato come un fitto reticolo di regole, ha sempre mostrato una certa ritrosia nel farne espressa menzione (se si eccettua l’art. 12 delle preleggi con il suo datato richiamo ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, per molto tempo quello di parità di trattamento in tema di società cooperative, di cui all’art. 2516, ha rappresentato uno dei rari casi di principi espressi), se il riferimento debba estendersi anche ai diritti fondamentali e, ancora, se, nel nuovo regolamento di confini tra la legge e la giurisprudenza, si intenderà procedere ad una specificazione di clausole generali quali l’abuso del diritto e la buona fede.
La gamma dei principi e dei diritti fondamentali è quanto mai vasta, avendo origine in fonti e sistemi diversi, che si sovrappongono: la Costituzione, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’efficacia e l’applicabilità diretta di tali principi – che, come indicato da Crisafulli, seguono le modalità del «più o meno», piuttosto che la forma del «tutto o niente» che Dworkin applica invece alle regole – è fortemente discussa nei rapporti tra privati.
Se questi possono dirsi i principali nodi da sciogliere di una riforma per ora solamente annunciata, andrà valutata la coerenza del disegno complessivo e sorvegliato lo stile del legislatore. Più spesso il timore che denunciamo, nei comuni discorsi sul drafting, è quello di un legislatore frettoloso e sciatto, che fa incetta di vocaboli generici. È probabile – per quanto non sia sicuro – che in occasione della riforma del Codice civile simili pericoli saranno scongiurati. Ma altre insidie si intravedono all’orizzonte. Ricordava Pietro Rescigno, ancora pochi anni fa, come ci sono termini e formule che appartengono al linguaggio della dottrina, chiamata a costruire concetti e categorie e a darne un ordine sistematico, ma non al vocabolario del legislatore.
Come a dire che la lingua della dottrina e quella del codice sono e dovrebbero restare distinti; che il legislatore non deve atteggiarsi a tecnico.
È accaduto tuttavia – e potrebbe accadere ancora – che il legislatore confondendo i ruoli si faccia prendere la mano e mutui il linguaggio della dottrina, appropriandosi delle sue categorie; oppure che ad imitazione dei considerando delle fonti comunitarie, indulga nel richiamo a principi generali, per fare sfoggio di erudizione o anche per furbesca malizia, tutte le volte in cui la sostanza sia diversa da ciò che appare e si voglia tenerla nascosta. Si avverte da sempre un certo scarto tra mondo e linguaggio che pervade non di rado i testi legislativi; ma da quando la comunicazione, politica in primo luogo, ha preso il sopravvento su tutto il resto e il legislatore si presenta talvolta come un oratore o come un tribuno, questa distanza si è fatta più vistosa, ponendo nuovamente al centro dell’attenzione «il problema della verità» ancora di recente indicato da Nicola Lipari nel suo studio sulle categorie giuridiche. Un discorso di verità si usa dire sempre, per lo più riferendosi al piano politico delle cose, nei commenti degli addetti ai lavori più attenti. Non di meno [e così concludo,] di un simile discorso avremmo bisogno anche dalle parti della legislazione.
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[NdA] È il testo dell’intervento tenuto all’incontro dell’Associazione civilisti italiani sul tema «Il drafting legislativo (per una revisione del codice civile)», Roma, 25 gennaio 2019, Università Roma Tre.