Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

I giudici di Perugia sul caso Shalabayeva: «Fu rapimento di Stato»

di Roberta Barberini
già Sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione

Le motivazioni della sentenza del caso Shalabayeva delineano un quadro inquietante, a carico dei funzionari italiani ritenuti responsabili. L’accusa rivolta al Kazakistan di violare sistematicamente i diritti umani e civili e perseguitare e calunniare il dissenso illumina di luce sinistra la vicenda della espulsione della donna e della bambina, e rende attuale e scottante la questione del rapporto fra difesa dei diritti umani e cooperazione internazionale con regimi autoritari.

1. «L’espulsione e il trattenimento di Alma Shalabayeva rappresentano un unicum nella storia giudiziaria italiana nella quale il collegio non rintraccia né elementi di ordinarietà né di approccio burocratico, ma al contrario, individua chiari segnali di accanimento persecutorio. In definitiva, avvenne un rapimento di Stato».

E’ quanto si legge nelle motivazioni della sentenza, con cui i giudici di Perugia hanno condannato tutti gli imputati del procedimento seguito alla «deportazione» di Alma Shalabayeva e della figlia Alua, di sei anni, avvenuta nel 2013.

La Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov, fu, secondo i giudici: prelevata a mano armata dalla propria villa di Roma, espulsa in tempi rapidissimi dall’Italia, caricata su un aereo privato messo a disposizione dalle stesse autorità di Astana, spedita in Kazakhstan, per rientrare a Roma dopo mesi di furiose polemiche, un annullamento della cassazione del decreto di convalida del trattenimento al CIE, e la revoca in autotutela del decreto di espulsione prefettizio.

La condanna investe l’ex capo e funzionari della squadra mobile di Roma e dell’ufficio immigrazione e relativi funzionari, il giudice di pace che convalidò il trattenimento della straniera nel CIE, l’Ambasciatore e altri diplomatici del Kazakhstan in Italia.

L’operazione di polizia sarebbe stata sostanzialmente eterodiretta dall’Autorità kazaka, che avrebbe avuto come obiettivo la cattura di Ablyazov, indicato dal Kazakhstan come pericoloso terrorista. Gli stessi kazaki individuarono poi nella espulsione della donna e della bambina verso il paese di origine, un’arma micidiale di pressione nei confronti del dissidente.

 

2. Il Tribunale di Perugia, nel delineare la gravità della vicenda, la accosta alle renditions della guerra al terrorismo e sottolinea come il Kazakhstan sia messo all’indice dalla comunità internazionale per le violazioni di diritti umani e per l’utilizzo della pratica della tortura nei confronti degli oppositori.

Nel 2013 era precisamente in atto una epurazione degli oppositori del regime di Nursultan Nazarabayev. Alla espulsione della Shalabayeva seguì, infatti, l’estradizione dalla Spagna di un’ex guardia del corpo Ablyazov, la cattura di Ablyazov stesso in Francia e la condanna, in Astana, del più famoso prigioniero politico del Kazakhistan, Vladimir Kozlov, per aver istigato all’odio e alla violenza gli operai del petrolio che manifestavano nel sud del Paese.

 

3. I giudici hanno riconosciuto la sussistenza di varie falsità ideologiche - dirette o per induzione - in atti determinanti del procedimento di espulsione (dal decreto di espulsione, al verbale di udienza di convalida, al nulla osta alla espulsione da parte della Procura), nonché del reato di sequestro di persona commesso da pubblico ufficiale con abuso dei poteri inerenti le funzioni.

Falso sarebbe stato anzitutto il presupposto per l’attivazione dell’iniziativa espulsiva, e cioè l’avere la straniera fatto ingresso illegale in Italia attraverso il confine del Brennero nel 2004.

In seguito, sarebbe stata dolosamente omessa non solo la verifica, ma la stessa menzione, nei vari atti del procedimento, di circostanze fondamentali, note alle Autorità procedenti, che avrebbero impedito, a norma di legge, l’espulsione. Il titolo espulsivo era, anzi, illegittimo fin dall’origine, come già aveva dichiarato la Cassazione, nell’ordinanza n. 17407 del 30.7.2014 (est. Acierno): «la conoscenza della effettiva identità della ricorrente, la validità del passaporto diplomatico centroafricano, oltre al possesso di ben due titoli di soggiorno in corso di validità….inducono a ritenere del tutto privo delle condizioni di legittimità il titolo espulsivo ab origine e, conseguentemente, il successivo ordine di accompagnamento coattivo e trattenimento presso il CIE».

Va sottolineato come fosse stata appunto la ritenuta, palese illegittimità del titolo espulsivo, ad indurre la cassazione a discostarsi, nell’ordinanza n. 17407/2014, dall’ indirizzo giurisprudenziale limitativo della sindacabilità dei presupposti del provvedimento di convalida.

La S.C. evocò la sentenza della Corte Costituzionale n. 105 del 2001, nonché i principi consacrati dalla giurisprudenza della Corte EDU[1] per affermare il dovere, per il giudice di pace, di entrare nel merito dei presupposti di legittimità del decreto quando, come nel caso di specie, a venire in rilievo sia una violazione della libertà personale. E ciò in ragione «delle stesse modalità fattuali (l’irruzione notturna avente... una finalità diversa dalla generica prevenzione repressione dell’immigrazione irregolare….la contrazione dei tempi di rimpatrio … la rapida successione temporale dell’emissione del provvedimento, della sua esecuzione coercitiva tramite accompagnamento coattivo, non essendo stato riconosciuto il diritto al rimpatrio mediante partenza volontaria … lo stato di detenzione e sostanziale isolamento della ricorrente, dall’irruzione alla partenza, hanno determinato nella specie un irreparabile vulnus al diritto di richiedere asilo e di esercitare adeguatamente il diritto di difesa».

Argomenti, questi, utilizzati dal Tribunale anche per il riconoscimento del reato di sequestro di persona nonché – sotto il profilo del falso ideologico – per la condanna del giudice di pace che emise il provvedimento di convalida del trattenimento al CIE, che, si dice, avrebbe dovuto rilevare l’illegittimità sia del decreto prefettizio di espulsione che del provvedimento questorile di esecuzione.

 

4. La sentenza dedica, poi, ampio spazio alla disamina delle circostanze che avrebbero impedito l’espulsione in forza di norme internazionali ed interne: non poteva non essere noto agli imputati che la Shalabayeva era un soggetto ‘’vulnerabile’’, ai sensi dell’art. 19 T.U. immigrazione. La straniera aveva, invero, avanzato fin da subito istanza di asilo politico e riferito circa i gravi rischi che avrebbe corso in Kakakhstan.

Le condanne per falso ideologico derivano appunto dall’avere gli imputati taciuto, nel procedimento espulsivo, le circostanze ostative loro note. Da cui l’integrazione, in via diretta o indiretta (per induzione in errore), dei reati di falso ideologico.

I giudici richiamano le norme poste a protezione dello straniero che, nel suo Paese, sia esposto al rischio di persecuzione, o a danni gravi alla propria incolumità .

Viene in rilievo anzitutto la cornice internazionale in cui si colloca la materia, rappresentata dalle norme di jus cogens che vietano la tortura da un lato, e da quelle sul non-refoulement dall’altro. 

Entrambi i divieti sono norme perentorie di diritto internazionale. Il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti rientra, inoltre, tra i più classici diritti civili e di libertà.

Quanto al principio di non–refoulement, esso trova il suo primo riferimento nella Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, dove la protezione è ricollegata al motivo (politico, religioso…) per cui è esercitata la minaccia. Il bene tutelato è, nella Convenzione, la ‘’vita o libertà’’ nello Stato destinatario.

All’interno dell’Unione europea, il principale riferimento è invece rappresentato dalla Carta dei diritti fondamentali: la lettura combinata degli artt. 18 e 19 della Carta unisce il divieto di refoulement e l’asilo e li identifica come diritti umani fondamentali.

 

5. Il tribunale passa poi a tracciare la cornice nazionale. Vengono qui richiamate le norme che vietano l’espulsione amministrativa dello straniero. All’epoca dei fatti l’articolo 19 del T.U. immigrazione sulle circostanze che ostano all’espulsione richiamava solo il classico divieto di respingimento[2]. Ancora non era espresso nella norma il richiamo al divieto di tortura, introdotto solo nel 2017, benché da tempo sancito – come sopra ricordato - da disposizioni di diritto internazionale. 

In cambio, l’art. 5, comma 6 del T.U. conteneva ancora il riferimento espresso alla protezione umanitaria, prima che il discusso decreto sicurezza [3] lo abrogasse , e la legge 18 dicembre 2020 lo introducesse nuovamente. 

Anche prima di ciò, era comunque pacifica, per la giurisprudenza, la immediata portata precettiva del diritto di asilo costituzionale[4], in tutta la sua estensione : invero, la tutela umanitaria assicurata dall’art. 10 della costituzione è più ampia di quella offerta, rispettivamente, dalla Convenzione di Ginevra a chi è a rischio persecuzione, nonché dalle Direttive qualifiche[5] e dagli altri strumenti internazionali a chi rischia la tortura o la pena di morte. L’art. 10 estende infatti il diritto di asilo ai richiedenti che provengono da paesi che negano le libertà fondamentali, e si fonda quindi su una condizione di vulnerabilità diversa ed ulteriore.

Le disposizioni in materia di divieto di espulsione  rappresentano l’interfaccia di quelle in materia di protezione internazionale ed, anzi, sotto alcuni aspetti assicurano una tutela più ampia: dall’ analisi della giurisprudenza, nazionale ed internazionale, emerge, invero, il principio secondo il quale il diritto (a carattere negativo ) dello straniero a non essere reimmesso in un contesto ad elevato rischio in ragione delle sue condizioni personali e delle sue idee - è più ampio del diritto (a carattere positivo) a vedersi riconosciuto lo status di rifugiato. In altre parole, non è detto che, nei casi in cui la legge nazionale o la stessa legge internazionale consentono di negare asilo allo straniero a rischio persecuzione, egli possa essere espulso. 

La stessa Corte di giustizia,[6] in sentenza interpretativa della direttiva 2004/83CE affermò  che «l’esclusione di una persona dallo status di rifugiato ai sensi dell’art. 12 n. 2 della direttiva non comporta una presa di posizione relativamente alla distinta questione se detta persona possa essere espulsa verso il suo paese d’origine». Il divieto di refoulement nei casi previsti dal diritto internazionale ha carattere assoluto, come, d’altra parte, ribadito sempre dalle sezioni civili della cassazione.

 

6. Anche la Corte EDU si è più volte pronunciata sul tema dei limiti alla potestà di espulsione. Vanno qui in particolare richiamate le sentenze di condanna riguardanti l’Italia. Fra le prime, quella [7] che impose all’Italia di non espellere verso la Tunisia Nassim Saadi, là accusato di reati di  terrorismo. 

Nell’occasione, furono enunciati i principi generali relativi alla responsabilità degli Stati contraenti in materia di espulsione ed agli elementi da considerare per valutare il rischio di esposizione a persecuzione e a tortura (art. 3 della CEDU ).

Altro caso noto fu, nel febbraio del 2009, la condanna dell’Italia per violazione dell’art. 3 nel caso Ben Khemais[8]; il mese successivo, poi, i giudici di Strasburgo decisero altri sette casi contro l’Italia, accogliendo le richieste dei ricorrenti, tutti cittadini tunisini, presenti in Italia da tempo e destinatari di decreto di espulsione, alcuni in base al decreto Pisanu del 2005, altri in base al Testo Unico sull’immigrazione del 1998. Da allora, le condanne nei confronti dell’Italia si sono susseguite.

Ancor più noto è il caso Abu Omar, che riguardava invece una espulsione verso l’Egitto – paese tristemente noto anche per i casi Regeni e Zaki.

La consegna straordinaria di Abu Omar fu duramente condannata a livello internazionale, in particolare da parte degli organismi posti a tutela dei diritti umani fondamentali. La Commissione Diritti Umani accusò l’Italia della violazione degli artt. 3 e 16 del Patto,[9] con riferimento al divieto di respingimento verso Stati ove la persona sia a rischio di persecuzione o a danni gravi alla propria incolumità, richiamando «il diritto assoluto di ogni persona di non essere espulso verso un Paese ove egli possa essere sottoposto a tortura o maltrattamento, e l’obbligo dello Stato, conseguentemente ed in ogni circostanza, di assicurare che ogni situazione sia presa in considerazione individualmente». 

 

7. Tutto ciò non è valso a prevenire in Italia una operazione che, anche a prescindere dalle modalità allarmanti con le quali sarebbe stata pianificata ed eseguita, si pone al di fuori dello stesso quadro di garanzie riconosciute dall’ ordinamento italiano.

Nel caso Shalabayeva, la condiscendenza delle autorità italiane verso quelle kazake ha – secondo i giudici – raggiunto il  paradosso: la donna e la bambina furono consegnate a queste ultime solo perché in casa non era stato trovato Ablyazov. In altre parole, esse furono prelevate ‘’al posto’’ di Ablyazov, con la finalità ultima di favorire la cattura di quest’ultimo. 

Le Autorità italiane avrebbero quindi consapevolmente messo a rischio la stessa incolumità della straniera, consegnandola ad una «dittatura che violava i diritti umani, anche praticando la tortura e la eliminazione fisica degli oppositori», in funzione del vero obiettivo, e cioè la rendition – così i giudici - di Ablyazov, indicato come terrorista, al Kazakistan.

D’altra parte, la cattura dello stesso Ablyazov, sarebbe stata sollecitata dal Ministro dell’Interno italiano in persona sulla base di un presupposto falso: Ablyazov, che era un importante oppositore del regime, era stato falsamente rappresentato, dalle autorità kazake, come un pericoloso terrorista internazionale, quasi certamente armato, mentre in realtà era solo accusato di reati finanziari.

 

8. La vicenda si presta a più ampie considerazioni.

Lo spostamento di strategia da reazione a prevenzione, dovuto al riconoscimento del potenziale letale di futuri attacchi terroristici, ha comportato considerevoli mutamenti strategici nei democratici paesi europei, a partire dal ruolo prioritario attribuito all’antiterrorismo: polizia più aggressiva; centralizzazione dell’attività antiterrorismo; procedure semplificate; maggior scambio di informazioni tra servizi di intelligence e polizia, criminalizzazione di attività preparatorie dell’attacco terroristico, come istigazioni, accordi ecc.

Accordi in materia di cooperazione internazionale, giudiziaria e di polizia, contro il terrorismo, vigono da allora anche con paesi terzi rispetto all’UE, Stati Uniti soprattutto, ma altri, anche islamici.

Gravi sono le conseguenze dell’attribuzione dell’etichetta di terrorista: molti degli ostacoli alla cooperazione internazionale sono stati rimossi a partire dal 2001 per facilitare le indagini contro il terrorismo. L’Unione europea, come stabilito per prima dalla risoluzione 1373 del Consiglio di sicurezza, consente ora l’estradizione di terroristi per reati politici ed anche in assenza del requisito della doppia incriminabilità, che normalmente impedisce l’estradizione se il reato non è tale anche nello Stato richiesto.

Anche il settore delle espulsioni sembra risentire di questo clima. E’ vero che l’espulsione non è, propriamente, uno strumento di cooperazione internazionale e, anzi, dovrebbe soddisfare esigenze di tutela dell’ordine pubblico interno, e non del paese di origine dello straniero. Per quello c’è l’estradizione. Va da sé che non sarebbe consentito utilizzare lo strumento dell’espulsione per finalità proprie dell’estradizione, al fine di eludere le norme e le garanzie stabilite per quest’ultimo istituto.[10] Comunque, quando l’espulsione viene impropriamente asservita alle esigenze dello Stato di origine, come nel caso di specie, essa finisce per diventare, lato sensu, uno strumento di cooperazione con tale Stato.

 

9. In tale quadro, il principale rischio in cui incorrono gli operatori, nella attività di prevenzione e di cooperazione internazionale contro il terrorismo, è quello di individuare la connotazione terroristica sulla base di logiche prettamente autoreferenziali; logiche, cioè, in cui la patente di terrorismo possa venire attribuita a certi comportamenti per il solo fatto che lo Stato contro cui si rivolgono li classifica come tali.

Questa logica ha portato a grave distorsioni, anche nei democratici paesi europei: non si dimentichi che tutti i governi europei, quando iniziò la guerra al terrorismo, invocarono la ragion di Stato per tentare di giustificare lo scandalo delle consegne straordinarie operate dalla CIA con il loro consenso.

La presente vicenda sembra iscriversi precisamente in tale quadro. L’allentamento della attenzione delle autorità italiane – ma ciò vale anche per altri governi - verso le violazioni di diritti umani, quando si tratta di espellere stranieri verso paesi alleati, o anche solo partner commerciali, non riguarda solo gli accusati di terrorismo, ma può avere, in tal caso, ben più gravi conseguenze: alcuni governi potrebbero approfittare della particolare natura del fenomeno e della stessa relatività della definizione di terrorismo per bollare come terroristi gli oppositori politici. 

Se la stessa UE, nel redigere la lista dei terroristi ai fini del congelamento dei beni, non osa spingersi troppo oltre nel sindacare l’attendibilità di segnalazioni provenienti da Paesi amici, l’affievolimento del controllo – stigmatizzato in questo caso come crimine - diventa gravissimo quando si tratta di espellere o estradare stranieri verso paesi come il Kazakhstan.

L’accusa rivolta al Kazakistan di violare sistematicamente i diritti umani e civili e perseguitare e calunniare il dissenso, rende attuale e scottante la questione del rapporto fra difesa dei diritti umani e cooperazione, con paesi amici, nel contrasto al terrorismo.

Lo scandalo dei sequestri di persona, delle prigioni segrete, dei trasferimenti clandestini verso Paesi che praticano la tortura è troppo grave perché le istituzioni nazionali continuino ad adottare la politica dello struzzo. Di fronte ai Parlamenti nazionali, alle opinioni pubbliche ed alle stesse istituzioni europee, la vicenda delle consegne straordinarie, tra le quali a buon diritto si può iscrivere l’espulsione della Shalabayeva, chiama i democratici governi europei ad un approfondito esame di coscienza sulle pratiche adottate nella guerra globale contro il terrorismo.


 
[1] In particolare Hokic e Hrustic c. Italia del 17. 12.2008 e Seferovic c. Italia dell’8.2.2011.

[2] «In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione».

[3] DL 4 ottobre 2018, poi legge 132/2018.

[4] Sul questa parte, diffusamente, si legga il recentissimo Rita Russo, Le tormentate vicende delle norme di chiusura del diritto di asilo, in Giustizia Insieme, 18.1.2021.

[5] 2004/83/CE e 2011/95/UE.

[6] Grande sezione, 9 /11/2010, procedimenti riuniti C-57/09 e C- 101/09, par.110.

[7] Grand Chambre, Saadi c. Italie – GC, n.37201/06 del 28 febbraio 2008.

[8] Seconda sezione, Ben Khemais c.Italie, n. 246/07 del 24.2.2009.

[9] Patto internazionale sui diritti civili e politici (New York, 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato dall’Italia il 15 settembre 1978). Si veda Human Rights Committee, 85° sessione 17 ottobre-3 novembre 2005- conclusioni – par. 10.

[10] Ciò avrebbe dovuto essere noto alle Autorità italiane, quantomeno dopo l’emersione dello scandalo delle consegne straordinarie e la condanna della pratica da parte di vari organi internazionali: non si dimentichi che, come a espressamente riconosciuto dalla Corte EDU, la pratica delle renditions si proponeva proprio di eludere l’applicazione delle norme che presidiano l’estradizione e, soprattutto, le relative garanzie.

02/02/2021
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