1. Una nuova tecnica decisoria per la Corte costituzionale
Con l’ordinanza n. 207 del 2018 la Corte costituzionale consegue due effetti: risolve una difficile questione, e, per arrivare a ciò, introduce nel suo bagaglio un nuovo strumento decisorio, potenzialmente gravido di sviluppi, che potremmo definire ad “incostituzionalità differita”.
Tanto il sostantivo, quanto l’aggettivo di tale ultima espressione meritano qualche parola esplicativa. Come si sa, nel nostro ordinamento l’illegittimità costituzionale è dichiarata con sentenza, e produce effetti dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Nel nostro caso, vi è invece un’ordinanza, priva della declaratoria di incostituzionalità, con cui la trattazione della causa è stata rinviata ad altra data. Ci soffermeremo a breve sia sulla compatibilità di simile modus procedendi con le attribuzioni della Corte, sia sugli effetti di inefficacia (come vedremo, “mediata da un giudizio”), da cui la disposizione impugnata resta in ogni caso affetta. Ora merita di essere posto in evidenza soprattutto il fatto che, senza alcun dubbio, la norma censurata è stata reputata contraria a specifici parametri costituzionali, sulla base di una motivazione del tutto assimilabile, per qualità ed estensione argomentativa, a quella propria delle sentenze.
Quanto al differimento della incostituzionalità, va detto che esso è il necessario precipitato della premessa: per quanto si guadagni tempo, deve arrivare il momento in cui al rilievo di illegittimità segue per forza di cose un adattamento ordinamentale che cancelli la norma censurata. Mentre, secondo il comune modo di procedere, quest’ultimo è introdotto dalla Corte per mezzo delle pronunce di accoglimento (ove il dubbio non sia superabile in via interpretativa), il caso Cappato apre la strada a due ipotesi alternative: la consueta decisione di illegittimità costituzionale, appunto differita temporalmente a quando la causa tornerà in trattazione, ovvero, e preferibilmente, un intervento del legislatore capace di emendare il vizio (si dirà poi perché l’una soluzione, a volte, non esclude l’altra). Come che sia, l’incostituzionalità esige un rimedio, ed esso giungerà differito o al tempo del novum legislativo, o a quello della definitiva pronuncia del giudice costituzionale.
È importante osservare, perciò, che merito e metodo della presente ordinanza cadono insieme, e che il secondo (il modo, del tutto originale, con cui si è formulata la decisione) in nulla intacca l’integrità del primo (il rilievo di incostituzionalità, dell’art. 580 cod. pen., nei sensi di cui in motivazione). In verità, sulla base del comunicato stampa che ha preceduto la pubblicazione dell’ordinanza, si era già aperta una discussione (lievissimamente prematura?) sul significato da attribuire alla pronuncia della Corte, e non erano mancate voci fortemente critiche, in ragione di un presunto diniego di giustizia che sarebbe stato opposto al rimettente, mediante il rinvio della pronuncia definitiva a data futura.
La lettura della motivazione spazza via ogni equivoco in tal senso, e rende palese che è già stata presa posizione sul dubbio di costituzionalità, ritenendo la disposizione impugnata illegittima. Sotto questo profilo, la Corte ha operato una drastica delimitazione della questione, che la Corte di appello di Milano aveva enunciato in termini assai larghi. Il giudice a quo aveva postulato, senza alcun limite, la sussistenza della libertà di porre fine alla propria vita, dalla quale sarebbe derivata l’illegittimità costituzionale dell’incriminazione di chi avesse cooperato al raggiungimento di tale obiettivo. La Corte riconduce l’incostituzionalità entro una dimensione più contenuta, che fa leva sul diritto costituzionale a rifiutare le cure (art. 32 Cost.) e modella pertanto la decisione sul caso del malato il quale, liberamente e consapevolmente, giunge a reputare contrario al suo senso di dignità il protrarsi delle sofferenze fisiche o morali connesse alla cura. Entro questi limiti, che trovavano già un saldo aggancio in casi già decisi in giurisprudenza (Englaro, Welby), oltre che in una sensibilità sociale assai diffusa, l’art. 580 cod. pen. è incostituzionale, nella parte in cui punisce chi agevola in qualsiasi modo l’esecuzione della volontà di morire, sia cooperando materialmente affinché si creino le condizioni necessarie (il caso dell’imputato nel giudizio a quo, che aveva accompagnato il malato presso la clinica svizzera ove sarebbe stato praticato il trattamento), sia infliggendo direttamente la morte.
Sono state in tal modo superate posizioni intermedie meno nette (pur sempre nell’ottica di una qualche forma di fondatezza), da quella che suggeriva di distinguere le due ipotesi appena accennate (ritenendo punibile la seconda soltanto), a quella che preconizzava un’interpretazione conforme difficilmente compatibile con il testo della dell’art. 580 cod. pen., fino all’estrema idea di arrestarsi innanzi alla molteplicità delle soluzioni astrattamente percorribili, in attesa di una parola del legislatore.
Si tratta, allora, di una decisione nitida, e dal dispositivo chiaramente enucleabile sulla base della motivazione. Tuttavia, come si è anticipato, la Corte (ed è qui la grande novità) omette di dichiarare l’incostituzionalità ai sensi dell’art. 136 Cost., e si limita a rinviare la trattazione della causa di circa dieci mesi, affinché il legislatore possa intervenire medio tempore per introdurre una disciplina conseguente al portato della pronuncia.
È questa, a ben vedere, una conseguenza della riformulazione del quesito posto dalla Corte di appello di Milano: se la Corte avesse riconosciuto il diritto costituzionale a suicidarsi in capo a chiunque, e senza ulteriori limiti, l’art. 580 cod. pen. avrebbe potuto essere travolto senza troppi problemi. Ma così non è: residua uno spazio di discrezionalità legislativa non solo quanto all’incriminazione di chi agevola il suicidio di chi sia sano (un caso per il quale la Corte esclude l’illegittimità della fattispecie penale), ma anche (ed è quanto qui interessa) di chi vi coopera a favore del malato, eppure nell’inosservanza delle cautele che il legislatore, secondo la Corte, è tenuto a introdurre nell’ottica di un equilibrato bilanciamento di valori (medicalizzazione del trattamento di fine vita; accertamento della libera e informata volontà del paziente; offerta di cure palliative; regolazione dell’obiezione di coscienza).
Si noti: non sono questi profili che la Costituzione affida, quanto all’opportunità di disciplinarli o no, alla discrezionalità legislativa, che semmai avrà ad oggetto i modi della regolazione, ma non la sua necessità. Nel ragionamento della Corte, il vuoto di tutela che viene aperto dall’incostituzionalità dell’art. 580 cod. pen. può e deve essere chiuso dal legislatore non necessariamente mediante lo strumento penale (ciò presupporrebbe un obbligo di tutela penale del bene giuridico che si è soliti escludere dal tessuto costituzionale), ma in ogni caso attraverso una dettagliata disciplina delle forme del percorso di fine vita. Come dire che, in assenza di questa disciplina, quel vuoto sarebbe a sua volta lesivo della Costituzione.
La Corte si è dunque trovata innanzi all’alternativa se dichiarare un’illegittimità costituzionale che, a suo dire, avrebbe a sua volta comportato un altro tipo di vulnus alla Costituzione, ovvero se astenersi mediante una pronuncia di inammissibilità, dalla quale sarebbe derivata la permanenza di efficacia della disposizione impugnata (benché incostituzionale!) e, nel giudizio a quo, la inevitabile condanna dell’imputato. Diversamente che in passato, il dubbio è stato risolto mediante la presente ordinanza a incostituzionalità differita, che, come subito si vedrà, cerca di superare, per quanto possibile, entrambi i gravi inconvenienti.
2. Primato della Costituzione e pronunce di inammissibilità
È importante avere presente, a questo punto, che l’alternativa sopra delineata non costituisce un’eccezione peculiare del caso di specie, ma un vero e proprio topos di giustizia costituzionale, in questa e in altre forme. Certo, il ragionamento manicheo ha il suo fascino: se vi è un’incostituzionalità, allora cessa ogni discrezionalità legislativa, e la norma andrà espunta dall’ordinamento; se, invece, c’è discrezionalità legislativa, allora la norma non è illegittima, perché rientra nell’arco delle opzioni aperte al legislatore, e quindi la questione di costituzionalità sarà infondata.
Questo modo di impostare il problema è in linea di massima corretto, ma resta refrattario a quelle pur numerose ipotesi in cui lo sviluppo dei principi costituzionali muove dal sindacato demolitorio di costituzionalità, ma non può rinunciare alla fase ricostruttiva propria della legislazione. Del resto, inverare la Costituzione è un obiettivo dalla trama assai complessa e composita, al punto che sarebbe ingenuo credere che ciascun protagonista (Corte, giudici comuni, legislatore) possa procedere sul proprio solitario cammino, senza raccordarsi, nei tempi e nei modi, con gli altri. In particolare, il dialogo tra processo legislativo e giustizia costituzionale è continuo, perché una pronuncia della Corte spesso non chiude la partita, ma semmai la apre, sollecitando i necessari adeguamenti normativi.
Gli esempi traibili dalla giurisprudenza costituzionale sono davvero numerosi. Ad esempio:
a) vi possono essere vuoti che l’ordinamento non può tollerare, come in presenza di leggi costituzionalmente necessarie (la legge elettorale: sentenza n. 1 del 2014) che la Corte non è in grado semplicemente di cancellare, senza con ciò compromettere la tenuta dell’ordinamento democratico;
b) può accadere che la dichiarazione di incostituzionalità comporti l’introduzione nel sistema di un’altra, perfino più grave, forma di incostituzionalità (sentenza n. 10 del 2015; ma si pensi anche all’eventuale illegittimità dell’art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui non estende il divieto del bis in idem a sanzioni amministrative reputate penali ex art. 7 Cedu, con la conseguenza del tutto irragionevole che, nel rapporto tra pena e misura amministrativa, prevarrebbe quella applicata casualmente per prima, pur in presenza di fatti identici: era l’ipotesi oggetto della sentenza n. 43 del 2018);
c) molto spesso, la Corte si arrende innanzi ad un’incostituzionalità alla quale possa porsi rimedio attraverso una pluralità di soluzioni normative divergenti, e tali da rendere l’intervento del giudice costituzionale privo di rime obbligate (sentenza n. 23 del 2013);
d) in particolare, una sottospecie del precedente caso si ha quando la lesione costituzionale richiede di essere colmata attraverso una completa riscrittura del sistema vigente, che la Corte non ha i mezzi di operare a causa della sua complessità ricostruttiva (si pensi all’introduzione di un rimedio preventivo per contrastare il sovraffollamento carcerario, come nell’ipotesi decisa dalla sentenza n. 279 del 2013).
Quel che è vitale tenere a mente, in questi e in casi analoghi, è che di fatto la Corte costituzionale, messa in crisi rispetto al modello kelseniano di legislazione negativa, ha seguito due linee di condotta disomogenee, ed entrambe ben rappresentate da importanti pronunce. Con la prima, e forse più frequente statisticamente, si è sottratta al compito di dichiarare l’incostituzionalità della disposizione impugnata, risolvendosi per l’inammissibilità della questione. Con la seconda, ha invece rivendicato a sé il potere-dovere di cancellare dall’ordinamento norme incostituzionali quali che ne fossero gli esiti (sentenza n. 113 del 2011), e pur quando ciò avrebbe comportato un necessario compito di ricucitura, e persino di totale rinnovamento, dell’ordito legislativo (è quanto accaduto, ad esempio, con la sentenza n. 278 del 2013, in ordine all’assenza di un procedimento legislativo che permetta di interpellare la madre biologica sulla persistenza del rifiuto a farsi conoscere dal figlio adottato da terzi). Dunque, entrambe le soluzioni convivono nel nostro sistema, e si alternano a seconda della sensibilità che di volta in volta risulta prevalere in Corte.
Certamente, il manicheo potrebbe obiettare (e di frequente obietta) che il compito della giurisdizione costituzionale è tradito da inammissibilità che lasciano vivere disposizioni illegittime, e che l’apertura del vuoto è pur sempre preferibile alla protrazione dell’assetto normativo contrario a Costituzione. Ma, bene o male che sia, la Corte talora gli ha dato retta, ma più spesso lo ha smentito, facendosi carico delle esigenze di tenuta complessiva dell’ordinamento.
Indubbiamente, nel seguire la linea della prudenza la Corte non ha mancato di sollecitare il dovuto intervento del legislatore, spesso mediante moniti destinati il più delle volte a cadere nel vuoto. Più di recente, si è ricorsi alla cd. incostituzionalità accertata, ma non dichiarata, ovvero a pronunce di inammissibilità alle quali si accompagna il riscontro in ordine alla incostituzionalità della legge, sicché, in difetto di una sopravvenienza normativa, il giudice costituzionale non si esime più dalla relativa declaratoria (sentenze n. 23 del 2013 e 279 del 2013; poi, sentenze nn. 30 del 2014 e 88 del 2018). Anch’esse, pertanto, si concretizzano anzitutto in decisioni di inammissibilità che, nel frattempo, permettono alla norma (incostituzionale) di avere applicazione, anche nel giudizio a quo.
È palese allora il progresso che il primato della Costituzione guadagna dalla nuova tecnica decisoria inaugurata oggi dall’ordinanza che si commenta. A mente fredda, infatti, non si può non riconoscere che vi è qui tutt’altro che una pilatesca volontà di procrastinare la decisione. Al contrario, pur accompagnandosi al doveroso rispetto degli spazi propri del legislatore, la Corte nella sostanza inverte il più consolidato trend delle inammissibilità per discrezionalità legislativa, in quanto ad un tempo:
a) impedisce l’applicazione della norma incostituzionale nel giudizio a quo;
b) ne paralizza (con i limiti che si diranno) l’efficacia su un piano più generale;
e infine
c) garantisce che, in tempi certi, essa sarà dichiarata illegittima, ove la legge non abbia provveduto ad emendarla dal vizio che l’ordinanza motivatamente riscontra.
Se si vuole, è proprio l’opposto di quanto potrebbe sembrare ad una prima lettura: l’enfasi posta sulle prerogative del legislatore sottintende non la facoltà, ma il dovere per quest’ultimo di intervenire a normare la materia, secondo le indicazioni della Corte. La tecnica dell’incostituzionalità differita non è un minus rispetto ad una immediata declaratoria di incostituzionalità dagli esiti dirompenti, ma piuttosto un plus, quanto all’effettività dei diritti costituzionali, rispetto alla radicata tendenza a rifugiarsi nella soluzione dell’inammissibilità.
Poi, resta certamente vero che, in linea astratta, il manicheo potrebbe lagnarsi che non venga disposto subito oggi quanto competerà con certezza ad un imminente domani, se il legislatore non assolvesse al suo compito. Ma a questa obiezione si replica agevolmente, e non solo opponendo alla pur nobile teoria costituzionale il principio di realtà tratto dalla pregressa giurisprudenza della Corte, ovvero le innumerevoli decisioni di inammissibilità che hanno segnato gravi pregiudizi all’attuazione della Costituzione. Vi è infatti anche da dire che, se il legislatore presterà la sua leale collaborazione, all’esito del percorso avremo un assetto normativo ben più armonico di quanto sarebbe seguito ad un’immediata pronuncia di incostituzionalità. Anzi (secondo il ragionamento della Corte) il solo a non essere a sua volta viziato per altri profili.
3. Incostituzionalità differita e Unvereinbarkeitserklärung
Il risultato raggiunto dalla Corte è tanto più rimarchevole, se si pensa che esso è conseguito non già manipolando gli strumenti del processo costituzionale, ma semplicemente valendosi del potere, proprio in linea di massima di ogni giudice, e della Corte in particolare, di rinviare a data certa la trattazione della causa, motivando le ragioni di questa decisione alla luce della particolare natura del problema di costituzionalità. Dunque, una mera ordinanza motivata di rinvio, alla quale non sono opponibili argomenti di diritto positivo in punto di ammissibilità o legittimità, tanto più che la Corte, perlomeno nel giudizio incidentale, è del tutto libera di stabilire il proprio calendario, anticipando o posponendo la trattazione della causa, rispetto alla data di proposizione del dubbio di costituzionalità.
Il conflitto tra costituzionalismo e legalismo, l’incertezza tra la morte di Sansone insieme con tutti i filistei (l’incostituzionalità, costi quel che costi) e la prudente navigazione di cabotaggio in attesa di tempi migliori (l’inammissibilità che salva il mondo) non è appannaggio italico, ma ovviamente riflette difficoltà e orientamenti di pensiero comuni alle altrui esperienze di giustizia costituzionale. Altrove, però, la soluzione che è stata trovata, proprio per rispondere ad analoghi problemi, ha implicato una forzatura giudiziale non di poco conto delle regole sul processo costituzionale. Le sentenze di mera incompatibilità in Germania (Unvereinbarkeitserklärung), con le quali si accerta l’incostituzionalità di una norma, senza però contestualmente dichiararla nulla, sono l’evidente modello della nostra ordinanza ad incostituzionalità differita, dalle quali divergono per il fatto che la pronuncia tedesca è di accoglimento, ma ad essa non si accompagna il rilievo della conseguente nullità. La norma è dunque privata di efficacia, ma resta valida fino ad intervento del legislatore. A parità di effetti, sia pure con approssimazione, corrispondono tecniche decisorie diverse. Ma, tra le due, solo la soluzione della nostra Corte è ineccepibile sul piano della legalità processuale, mentre quell’altro è uno strumento in origine pretorio, privo all’inizio di agganci legislativi (giunti solo successivamente, a giochi compiuti), che distorce gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità e si presta cosi a frequenti critiche.
L’ordinanza ad incostituzionalità differita è perciò un nuovo, e potenzialmente fertile strumento decisorio, la cui utilità è sottolineata proprio dalla circostanza che altri sistemi di giustizia costituzionale hanno ritenuto necessario dotarsi di meccanismi analoghi; al contempo, essa si basa su una soluzione, per così dire, più elegante tecnicamente, o comunque più rispettosa delle coordinate legali assegnate al giudice costituzionale.
C’è però un prezzo da pagare. Proprio per il fatto che l’incostituzionalità non è stata dichiarata, nulla sul piano giuridico obbliga la Corte a pronunciarla, quando la questione verrà trattata, e nel caso che il legislatore fosse rimasto inerte. La composizione del giudice costituzionale potrebbe mutare, le maggioranze ribaltarsi, il clima culturale evolvere. Ma, naturalmente, un esito che fosse diverso dalla incostituzionalità, ora annunciata senza incertezze, infliggerebbe al prestigio della Corte un colpo esiziale. Non si tratterebbe solo di condannare a morte il nuovo strumento decisorio, al quale ovviamente non sarebbe più possibile tornare. Verrebbe più in radice meno la fiducia nella coerenza intrinseca del sindacato di costituzionalità, esposto così ad una delegittimazione senza precedenti. Possiamo essere ragionevolmente certi che, nelle mani di un organo che ha dato prova nel corso degli anni di grande saggezza ed equilibrio, e che ha sempre gestito i rari overruling con accortezza, questo non accadrà.
Detto ciò, dobbiamo ora valutare in maggior dettaglio gli effetti della odierna decisione, e porne in luce i pur sussistenti tratti problematici.
4. Gli effetti dell’ordinanza ad incostituzionalità differita sulla disposizione impugnata
Un primo punto da discutere attiene alle sorti della disposizione impugnata, fino a quando la Corte non tornerà ad occuparsene. Il problema deve partire dal presupposto che la norma è certamente incostituzionale, nei sensi ricavabili dalla motivazione dell’ordinanza, ma non è stata dichiarata tale, sicché conserva formalmente validità nell’ordinamento. Da ciò derivano alcune conseguenze logiche.
Anzitutto, ed è il tratto più significativo, è assolutamente da escludere che la disposizione possa avere applicazione in un qualsivoglia giudizio. Quanto al processo a quo, ciò deriva pienamente dal fatto che esso resta sospeso, in attesa della decisione definitiva della Corte.
Ma analoga conclusione si impone con riguardo a qualunque altro caso in cui un giudice, nel corso di un giudizio, fosse chiamato ad applicare la norma raggiunta dalla dichiarazione di incostituzionalità differita. Fermo restando che, in tali casi, la rilevanza è in re ipsa, sarebbe solare la non manifesta infondatezza della relativa questione di legittimità costituzionale. In altri termini, il giudice sarebbe tenuto a sospendere il processo, e a sollevare a sua volta incidente di legittimità costituzionale (salvo a non ricorrere alla discussa, e assai discutibile, ipotesi della sospensione impropria), non essendo pensabile che trovi applicazione da parte sua una disposizione normativa, la cui incostituzionalità è già stata accertata dalla Corte stessa.
Si noti che, ancora una volta, tale conclusione non deriva da astruse teorie, o da forzature di sorta, ma è una facilissima declinazione delle regole proprie della giustizia costituzionale: il giudice ha il dovere di non applicare disposizioni che siano sospette di illegittimità costituzionale, sempre e senza eccezioni. Il caso opposto sarebbe dunque patologico, e costituirebbe per ogni effetto, e nei limiti in cui ciò rilevi processualmente, un vizio del procedimento, oltre che verosimile fonte di responsabilità disciplinare e civile del magistrato, per violazione manifesta della legge. Naturalmente, resta inteso che questo discorso vale a condizione che il caso tratto a giudizio corrisponda esattamente ai contorni dell’incostituzionalità, come già delineata dalla Corte (nel caso di specie, ad esempio, si dovrebbe trattare dell’agevolazione materiale del suicidio di un malato nelle gravissime condizioni descritte dalla Corte, e consapevolmente giunto alla decisione di porre fine alla propria vita). Ogni altra fattispecie (l’istigazione al suicidio; l’agevolazione del suicidio di una persona sana nel corpo) continuerebbe ad essere impregiudicata dall’ordinanza di incostituzionalità differita, che, al limite, potrebbe offrire spunti per reputare manifestamente infondati, o il contrario, ulteriori dubbi di costituzionalità, come di consueto soggetti al prudente apprezzamento del giudice che procede.
Alla condizione che si è appena enunciata, gli eventuali effetti della disposizione incriminata dovranno cessare, quando la loro protrazione, ancora una volta, dipenda dall’applicazione giudiziale: si può pensare al caso di una misura cautelare nel processo penale, di cui l’imputato, ma lo stesso pm potranno chiedere la revoca, per permettere al giudice di disporla ex art. 299 cod. proc. pen. per fatto sopravvenuto, con contestuale impugnazione della norma incriminatrice davanti alla Corte (più in generale, tornerà utile la prerogativa del giudice comune di rifiutare applicazione in sede cautelare alla norma sospetta, sollevando al contempo incidente di legittimità costituzionale).
Il punto dolente, piuttosto, si avverte nei casi in cui l’intervento del giudice non è contemplato, in quanto eventuale e comunque prematuro, ma la disposizione reclami comunque l’applicazione che compete alle norme che continuano a comporre l’ordinamento, e che non ne siano ancora state espunte formalmente. In tali casi, a meno di ragionare in termini di nullità della legge incostituzionale e di conseguente dovere di non applicazione da parte di qualunque operatore giuridico, e della pubblica amministrazione in particolare (la vecchia tesi di Onida, peraltro mai accolta), il problema è molto serio, perché non vi sono meccanismi idonei a scongiurare che la disposizione ad incostituzionalità differita spieghi efficacia (solo il giudice, nel corso di un giudizio, può e deve adire la Corte, sospendendo il processo e quindi impedendo che la disposizione produca i suoi effetti in via potenzialmente definitiva).
Il pm, pertanto, fino a quando non si troverà a domandare al giudice competente l’adozione di un provvedimento, sarà tenuto ad avviare le indagini e a proseguirle; nel corso del procedimento amministrativo, la legge ad incostituzionalità differita continuerà a governare l’azione della P.A.; gli stessi consociati, nelle loro attività (si pensi ad una normativa civilistica) dovranno conformare i propri interessi sulla base del quadro legislativo vigente, seppur morituro.
Paiono conseguenze necessitate alla luce della premessa sopra formulata in ordine alla perdurante validità formale della legge, e, in fin dei conti, implicate dalla stessa decisione della Corte di ricorrere al modus decidendi in discussione, perché, se si fosse voluto privare la norma di ogni effetto, allora la si sarebbe subito dichiarata incostituzionale, senza protrarre lo stato di agonia. Non vi è dubbio quindi che, per contrappeso, un fattore di entropia sia stato somministrato al sistema giuridico.
Tuttavia bisogna anche dire, a correzione di questa foschia, che, in ogni caso, non vi è fattispecie che non possa trovare il suo giudice, cosicché, a ben vedere, l’ordinanza ad incostituzionalità differita permette la sopravvivenza dell’efficacia della norma solo in via caduca, ovvero fino al punto in cui essa non sia soggetta ad un test giudiziale, al quale non può in nessun caso resistere.
Certo, vi è la possibilità che a questo test non si arrivi a causa dell’inerzia delle parti, e quando il giudice non possa attivarsi d’ufficio, con l’effetto di consolidare definitivamente l’esito incostituzionale (si pensi ad un provvedimento amministrativo non impugnato nei termini). Ma, anche qui, la situazione non è molto diversa dal rischio di incostituzionalità che il nostro ordinamento assume fisiologicamente, per ogni posizione giuridica che sia stata conformata in via definitiva prima della decisione di accoglimento della Corte, la quale, in termini di massima, non ha effetti sui rapporti esauriti. È vero che, nel nostro caso, l’incostituzionalità è già stata accertata. Tuttavia, si deve sempre tener presente che l’alternativa più probabile all’ordinanza ad incostituzionalità differita sarebbe stata l’inammissibilità della questione, con conseguente perdurante applicabilità della disposizione impugnata, persino nel giudizio a quo.
Inoltre, alcune clausole generali dell’ordinamento possono aiutare gli operatori giuridici a gestire l’interregno di una norma moribonda. Il criterio della buona fede in campo civilistico, il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, la soggezione del magistrato alla Costituzione possono suggerire non la disapplicazione della norma colpita dalla incostituzionalità differita, ma una gestione accorta dei procedimenti che da essa possano sorgere, rinviando, ad esempio e per quanto possibile, il momento applicativo (sarebbe curioso che un pm assegnasse priorità alla trattazione di un’ipotesi criminosa regolata dall’art. 580 cod. proc. pen., e che corrispondesse alla figura di illegittimità tratteggiata dalla Corte).
Del resto, la Corte stessa potrà calibrare il termine di rinvio (che è poi un termine di adempimento assegnato al legislatore) a seconda delle circostanze, restringendolo quando appaiano forti esigenze di certezza del diritto; né vi sarebbero in tal caso dubbi sulla legittimità del ricorso alla decretazione d’urgenza, al fine di superare l’impasse.
Detto questo, non si può nascondere che la nuova tecnica decisoria, come sempre accade, presenta lati problematici, e degni di un’indagine più meditata e approfondita della presente. Ciò significa che difficilmente essa diverrà la più frequente delle soluzioni alle quali la Corte si affiderà in futuro. Potranno esservi casi, vale a dire, in cui l’inconveniente di una perdurante validità formale della legge sarà reputato inaccettabile, o comunque sproporzionato rispetto ai vantaggi ottenuti. Ma resta il fatto che, da oggi, la Corte dispone di una nuova, acuminata freccia nel suo arco.
5. Condotta del legislatore e seguito presso la Corte dell’ordinanza ad incostituzionalità differita
Come è evidente da quanto finora detto, l’ordinanza ad incostituzionalità differita raggiunge il bersaglio solo se il legislatore, come suo dovere, coopera. In caso contrario, la Corte non potrà che prendere atto dell’omissione legislativa, dichiarando l’illegittimità della disposizione nel testo originario e immodificato. E, a quel punto, ogni argomento critico fondato sul mancato rispetto della discrezionalità legislativa sarà inevitabilmente spuntato. In linea di massima, queste sono le ipotesi che si possono verificare in concreto:
a) il legislatore non interviene: la norma è dichiarata incostituzionale;
b) il legislatore è sul punto di provvedere: non si può escludere un nuovo rinvio motivato della trattazione della causa davanti alla Corte;
c) il legislatore si attiva, ma in modo insoddisfacente, ovvero omettendo di rispondere davvero alle censure della Corte, e comunque lasciando in vita la portata incostituzionale della disposizione: la Corte, valendosi anche di una recente giurisprudenza giustamente meno incline alla restituzione degli atti per ius superveniens (sentenza n. 194 del 2018), trasferisce la questione sulla nuova, inadeguata normativa, e cancella la disposizione sia nella versione originale, sia nella versione modificata;
d) il legislatore appronta una congrua risposta normativa, che si rende applicabile alle stesse parti del giudizio a quo, come potrebbe accadere se fosse introdotto un rimedio che dia loro soddisfazione (avrebbe potuto essere il caso del sovraffollamento carcerario): la Corte dispone la restituzione degli atti al giudice rimettente;
e) il legislatore risponde come nel caso sub d), ma non provvede a regolare in via transitoria la posizione di chi ha osservato o violato la norma nel periodo precedente, ovvero delle stesse parti del giudizio a quo, quando tale novum non è loro estensibile. È infatti intuitivo che non sempre il sopravvenuto quadro normativo potrà rendersi legittimamente disponibile per queste persone, anche solo per la banale constatazione che certi requisiti e condizioni, introdotte dallo ius superveniens, non erano conoscibili quando la fattispecie si è realizzata nel passato. In queste ipotesi, non si può escludere che la Corte dichiari comunque l’incostituzionalità della norma, nel testo originario e nella parte in cui ha prodotto effetti fino all’entrata in vigore della novella legislativa. In presenza di una norma penale incriminatrice, è verosimile che la legge sopravvenuta, e più favorevole, trovi applicazione per i fatti pregressi, imponendo la restituzione degli atti. Nel caso Cappato, ad esempio, quand’anche il legislatore restringesse la punibilità ai casi in cui non sono state osservate particolari cautele prima di agevolare il suicidio (ad esempio, l’acquisizione di un consenso in forma scritta) sembrerebbe contrario allo spirito della legalità penale contestare all’imputato di non essersi conformato a tali cautele, che egli non poteva né conoscere, né prevedere quando ha posto in essere la condotta. Tuttavia, persino in tale materia potrebbero sorgere dubbi (che dire del caso in cui resti punibile la condotta di chiunque agevoli la morte senza avere una qualifica medica?), che sarebbe opportuno troncare alla radice da parte della legge, al fine di escludere recisamente la punibilità (va sempre rammentato che essa era prevista da una disposizione incostituzionale al tempo del fatto). A maggior ragione, è bene che il legislatore provveda in tal senso nei campi del diritto ove vigono principi diversi da quelli propri della materia penale, e nei quali, ad esempio, l’effetto retroattivo di una norma va espressamente disposto;
f) la normativa transitoria eventualmente adottata dal legislatore, a sua volta, potrà condurre alla restituzione degli atti, ovvero divenire oggetto del sindacato di costituzionalità, previo trasferimento della questione (ancora pendente) sulla nuova disposizione.
In conclusione, gli effetti della collaborazione o dell’inadempimento del legislatore sembrano gestibili dalla Corte senza soverchie difficoltà. Un’ulteriore ragione per apprezzare, al di là del caso che era in discussione, l’introduzione dell’ordinanza ad incostituzionalità differita nell’armamentario del giudice costituzionale.