Magistratura democratica
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Il giudice e la legge penale

di Domenico Pulitanò
professore emerito di diritto penale
Le usuali discussioni sul rapporto giudice/legge riguardano il problema dell’interpretazione. Le teorie dell’interpretazione non sono teorie sui poteri del giudice. Problemi ermeneutici si pongono per qualsiasi interprete; le differenze tra i fabbricanti di interpretazioni sono di autorevolezza o di potere decisionale

1. Giudice e legge: un problema di struttura dell’ordinamento

Sul rapporto giudice-legge propongo, in un corso dedicato alla storia della magistratura (giugno 2019), alcune riflessioni nell’ottica del penalista che si è confrontato con tale problema in vesti diverse: da magistrato in anni lontani (1967-1980), poi da professore universitario e avvocato.

Il rapporto del giudice con la legge è una questione di struttura degli ordinamenti giuridici. La teoria formale del diritto può dire che la giurisprudenza è fonte, ha un suo posto nella costruzione a gradini dell’ordinamento giuridico. Le decisioni giudiziarie (la giurisprudenza) sono un formante del diritto vivente, dice una descrizione oggettiva di come gli ordinamenti giuridici funzionano. Il formante giurisprudenziale non ha valore formale di legge, dice un’ermeneutica descrittiva di ordinamenti (come il nostro) di civil law.

Sul rapporto fra legislazione e giurisdizione, di particolare rilievo è la sentenza della Corte costituzionale n. 230 del 2012 [1]: non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 cpp, «nella parte in cui non prevede la revoca della sentenza di condanna nel caso di mutamento giurisprudenziale (decisione delle Sezioni Unite)» che escluda che un certo tipo di fatto sia previsto come reato. L’ordinanza di rimessione credeva di poter desumere dalla giurisprudenza della Corte Edu la retroattività del mutamento giurisprudenziale favorevole. La Corte costituzionale ha riaffermato il modello di legalità fondato sulla riserva di legge e la soggezione del giudice soltanto alla legge. Anche l’orientamento delle Sezioni Unite ha valore “essenzialmente persuasivo”, e può essere disatteso «in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione». Le stesse Sezioni unite possono «trovarsi a dover rivedere le loro posizioni».

Le usuali discussioni sul rapporto giudice/legge riguardano il problema dell’interpretazione. Le teorie dell’interpretazione non sono teorie sui poteri del giudice. Problemi ermeneutici si pongono per qualsiasi interprete [2]; le differenze tra i fabbricanti di interpretazioni sono di autorevolezza o di potere decisionale.

Principio di legalità significa primato della norma generale e astratta, «principio costitutivo della sintassi giuridica dello stato di diritto» [3]. La certezza come «specifica eticità del diritto» [4]: non orizzonte ultimo dell’etica, ma esigenza di garanzia in un ordinamento che dispone di poteri di coercizione.

2. Uno sguardo agli anni ’60-‘70

Negli anni ’60 era cresciuta e si esprimeva in forme nuove nella magistratura la presa di coscienza delle rilevanza politica (per la vita della polis) della funzione giurisdizionale [5]. Nel Congresso del settembre 1965 della Associazione nazionale magistrati, la relazione di Giuseppe Maranini definì l’attività giurisdizionale come funzione di indirizzo politico-costituzionale. La mozione finale, approvata all’unanimità, era stata concordata dalle tre correnti Magistratura democratica, Magistratura indipendente e Terzo potere: «Spetta al giudice, in posizione di imparzialità e indipendenza nei confronti di ogni organizzazione politica e di ogni centro di potere: 1) applicare direttamente le norme della Costituzione quando ciò sia tecnicamente possibile in relazione al fatto concreto controverso; 2) rinviare all’esame della Corte costituzionale, anche d’ufficio, le leggi che non si prestino ad essere ricondotte, nel momento interpretativo, al dettato costituzionale; 3) interpretare tutte le leggi in conformità ai principi contenuti nella Costituzione, che rappresentano i nuovi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statuale».

Il congresso di Gardone divenne punto di riferimento (o mito fondativo) di orientamenti che si contrapponevano alla magistratura più tradizionalista, arroccata su indirizzi ancora chiusi rispetto al novum costituzionale, e su una gestione gerarchica dei problemi d’interpretazione, della quale erano strumento versioni ingenue o maliziose dell’idea del giudice bocca della legge [6]. Nella discussione si sono intrecciati i temi della politicità/apoliticità della funzione giudiziaria e la questione del rapporto giudice-legge. L’emancipazione da tradizioni autoritarie e conformismi burocratici è stata segnata anche da un’idea di giurisdizione che (con variazioni d’accento e di presentazione teorica) assunse la forma di rivendicazione di maggiori spazi in sede ermeneutica, col supporto di teorie dell’interpretazione e dell’argomentazione giuridica.

Negli anni ‘70, uso alternativo del diritto e giurisprudenza alternativa furono sia parole d’ordine (formule retoriche, non teoriche) sia bersaglio critico di indirizzi contrapposti [7]. Il rischio cui gli indirizzi innovatori erano esposti era di capovolgere il mito illuminista del giudice bocca della legge in un modello ideologicamente soggettivistico, o suscettibile di essere frainteso in tal senso. Già all’epoca mi resi conto che «anche posizioni tutte incentrate sul garantismo non sempre hanno colto che la base di questo è proprio nella oggettività del quadro di riferimento (normativo e valutativo) e del modo di porsi processuale del giudice»; e ho prospettato l’esigenza di «superamento della centralità del problema dell’interpretazione, che ha segnato e spesso continua impropriamente a segnare il nodo appariscente (e apparente) del contrasto fra giudici progressisti e conservatori» [8].

La ricerca del volto costituzionale del diritto penale [9] ha alimentato la critica all’autoritarismo del codice Rocco. Si deve ad input provenienti dalla magistratura lo smantellamento, ad opera della Corte costituzionale fin dall’inizio della sua attività, di aspetti inaccettabili della vecchia codificazione fascista, e poi l’aggiustamento di tanti profili problematici della legislazione anche recente. Risalgono agli anni ’70 le prime riforme d’ampia portata (novella di parte generale del 1974, ordinamento penitenziario del 1975), e le prime importanti sentenze della Corte costituzionale sul principio di legalità in materia penale: n. 177/80 (sulla determinatezza della fattispecie, in materia di misure di prevenzione, avvio di una linea solo di recente ripresa dalle sentenze nn. 24 e 25 del 2019); n. 50/80 sulle pene fisse (di rigetto, ma indicazione di principi che hanno trovato applicazione in epoca recente: n. 222/18); n. 26/79 (la prima sentenza sul principio di proporzione in materia di pene); n. 131/79 (incostituzionalità della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva). Nel 1981 la famosa sentenza n. 96 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 603 cp (delitto di plagio): nell’onere di «descrizione intelligibile della fattispecie astratta deve logicamente ritenersi implicito l’onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà». Il rapporto con il mondo dei fatti è costitutivo del diritto come ordinamento di fatti del mondo, e sta a fondamento del principio di legalità penale.

Sulla giustizia penale si riversano problemi nuovi. Problemi drammatici come il terrorismo, a partire dalle bombe del 12 dicembre 1969; problemi d’intervento nel mondo del malaffare finanziario o amministrativo; problemi collegati a nuove sensibilità (emblematico il problema ambiente). Si avviò la ricerca, già all’interno della legislazione vigente, di strumenti (norme penali sostanziali e istituti processuali) che potessero essere utilizzati in direzioni non considerate da interpretazioni e prassi precedenti. È il capitolo dei pretori d’assalto e della cd. supplenza giudiziaria, ambigua formula che evoca una miscela non ben definita (o diversi tipi di miscela) di profili politici e giuridici, e deve la sua fortuna mediatica alla carica polemica che in vario senso se ne può trarre, in chiave critica verso la magistratura (accusata di fare troppo) o verso altre istituzioni (accusate di fare troppo poco).

Anche indirizzi di maggiore attivazione della macchina giudiziaria penale (talora apprezzabili, talora discutibili) sono stati presentati usando il gratificante linguaggio del garantismo: gli strumenti penali come garanzia di interessi meritevoli di tutela. Garantismo collettivo, o garantismo dinamico, secondo una formula proposta negli anni ’70 nel mondo dei magistrati (credo sia caduta nell’oblio). All’epoca dedicai una riflessione critica [10] verso l’uso del lessico del garantismo come bandiera ideologica sia per il polo liberale delle garanzie e dei limiti, sia per il polo contrapposto, quello “autoritario” dell’uso di poteri istituzionali per finalità di tutela.

Risalgono alla fine anni ’70 questioni di legittimità costituzionale in malam partem, contro il ritrarsi del penale in certe materie (interruzione di gravidanza, inquinamento idrico). Il riferimento al bene giuridico, che nella dottrina era visto come criterio liberale di delimitazione del penale, veniva capovolto a pretesa di tutela penale obbligatoria. La Corte costituzionale ha saggiamente risposto con sentenze di inammissibilità, fondate sul principio di legalità (competenza esclusiva del legislatore sulle scelte di incriminazione) [11].

3. Problemi dell’interpretazione

Paolo Grossi, grande storico del diritto e critico delle mitologie giuridiche della modernità, in un discorso ai giovani magistrati [12] ha parlato di «spostamento dell’asse portante dell’ordinamento dal legislatore all’interprete: il testo non ha una realtà autosufficiente, ma ha compiutezza solo nell’interpretazione». Non fa proprio il linguaggio della creatività: «il diritto non lo crea nemmeno il legislatore, tanto meno il giudice». Sottolinea «il nesso genetico fra società e diritto, la sua intima storicità»; guarda con simpatia a «ordinamenti alieni dal concepire il giuridico intrinsecamente vincolato al potere politico». Nell’assegnare un posto di rilievo agli interpreti, e segnatamente al giudice ordinario, specifica che «una diversa considerazione la si deve fare per il giudice penale», avendo in materia penale «una peculiare rilevanza la riserva di legge».

Il lessico della creatività [13] è esposto a rischi di torsione soggettivistica e di fraintendimento, «rispetto a visioni aproblematiche della creatività giurisprudenziale» è opportuno usare «accortezza critica» [14]: il lessico della inventio (ricerca e ritrovamento) proposto da Grossi, ha il pregio di evocare un’attività conoscitiva e un oggetto di conoscenza.

Diversità di opinioni e di sensibilità possono dipendere «dal punto di osservazione nel quale ciascuno si colloca, a seconda che siano messe a fuoco problematiche proprie del diritto e del processo civile o di quello penale» [15]. Le riflessioni che qui propongo, pur riguardanti problemi più generali, hanno come sfondo profili specifici del penale.

Il diritto penale – secondo un approccio (o un linguaggio?) molto radicale – avrebbe la rilevante particolarità di non vivere fuori del processo; i testi di legge sarebbero mere proposte di comportamento, aspettative di norme [16] la cui creazione sarà fatta dal giudice. La riduzione del diritto penale al giudizio del giudice azzera il senso che il diritto penale ha nella vita quotidiana: regole di comportamento che possono e debbono essere conosciute e rispettate. Il diritto che definiamo criminale guardando ai precetti, e penale guardando alle sanzioni, vive innanzi tutto nell’osservanza dei precetti, così come gli altri settori dell’ordinamento vivono nel dare forma ad attività e rapporti sociali.

Al di là dei linguaggi, anche molto diversi, delle teorie dell’interpretazione, ritengo vi siano consensi di fondo. Consenso sulla priorità dell’interpretazione letterale, con la consapevolezza che un problema esegetico serio non può essere risolto con la lettura di un dizionario. Consenso sulla dimensione “di sistema” dell’interpretazione del diritto. Consenso sulla rilevanza ermeneutica dei principi costituzionali [17]. Consenso sulla priorità logica del procedimento ordinario di interpretazione rispetto a eventuali questioni di legittimità costituzionale [18]. L’interpretazione conforme si inquadra nel tradizionale canone dell’interpretazione sistematica [19], e deve in concreto legittimarsi come tale.

Nel mondo dei giuristi italiani (anche dei penalisti) la moderna ermeneutica filosofica è entrata come «una sorta di koiné filosofica della cultura contemporanea» [20]; non metodo, ma «riflessione sulle condizioni non epistemologiche dell’epistemologia», «rifiuto di una logica contrappositiva e antagonistica tra progetti filosofici e affermazione di una logica di apertura, di dialogo, di mediazione» [21].

Le teorie che fanno riferimento alla filosofia ermeneutica [22] si interessano delle condizioni per la comprensione del diritto. La realtà fa resistenza al possibile arbitrio di interpretazioni che pretendano di negarla: anche con riguardo al diritto, è «fuori discussione che esistono fatti indipendentemente dall’interpretazione», e che vi sono interpretazioni sbagliate. Ma allora «c’è una verità e un’erroneità dell’interpretazione e nell’interpretazione» [23]. L’approccio ermeneutico si presenta come impresa conoscitiva, che ha a che fare con la possibile verità nell’interpretazione.

A un livello più generale di quello dell’interpretazione giuridica, è stato ribadito – contro ogni deriva soggettivistica – che «bisogna iniziare ogni discorso sulla libertà di interpretazione da una difesa del senso letterale» [24]. Può essere difficile (talora impossibile) dire quale sia la migliore interpretazione di un testo, ma è possibile escludere interpretazioni sicuramente sbagliate. Come strumento di comunicazione, il linguaggio “funziona” nei modi (e nei limiti) che sperimentiamo ogni giorno, nella vita quotidiana, nella attività scientifica, e anche nelle aule di giustizia.

Il linguaggio funziona, bene o meno bene, anche nel mondo artificiale del diritto: nella maggioranza dei casi si arriva a interpretazioni sicure, o comunque largamente condivise. Sono i punti di crisi – non marginali – entro questo scenario, a dare lavoro alle fabbriche che producono, discutono, decidono su interpretazioni controverse.

Le nostre precomprensioni (anche di noi giuristi) riflettono l’immagine del mondo propria della nostra cultura, dal punto di vista dell’esperienza quotidiana, prescientifica, del vivere e dell’agire degli uomini: il mondo della storia [25]. Ne è parte essenziale l’affidamento nella ragione; ne fa parte la scienza del nostro tempo, con i suoi metodi, le conoscenze acquisite, i suoi problemi.

Per quanto concerne la ragionevolezza assiologica, nelle società pluraliste si confrontano e talora si scontrano differenti concezioni sostanziali del bene e del giusto. Le più significative divergenze d’interpretazione e applicazione derivano da precomprensioni divergenti sugli stessi principi costituzionali, e su funzioni e limiti del diritto penale. Hanno a che fare con la tensione di fondo del problema penale: garantismo liberale versus finalità di tutela “autoritaria”. I problemi ermeneutici più delicati coinvolgono concezioni relative ai principi materiali del sistema, al telos e ai confini degli istituti, ai significati della legalità, al principio di uguaglianza nelle sue varie dimensioni (ragionevolezza, proporzione).

4. Nomos e logos

Per i giudici, i problemi ermeneutici si presentano come problemi di qualificazione di fatti concreti. Nel processo, il cd. sillogismo giudiziario è l’ultimo tratto di un percorso ermeneutico e probatorio [26] più o meno complesso, che ha come premesse (problemi da risolvere “a monte”) da un lato l’accertamento del fatto, e dall’altro lato la ricognizione del senso (Sinn) della norma della cui applicazione si discute [27]. Le interpretazioni del diritto tengono conto di sussunzioni già avvenute (affermate o rifiutate). Il circolo o spirale ermeneutica parte dall’interpretazione della norma, «presupposto ontologico della sussunzione, la quale poi, una volta compiuta, rappresenta un nuovo risultato ermeneutico» [28]. Casi nuovi possono essere (non sempre!) occasione per ripensare (confermare o modificare) interpretazioni normative, per chiarire il senso di elementi di fattispecie.

Il giudice supremo, quello che fa giurisprudenza, non è giudice del fatto. L’aggancio col giudizio di fatto è il controllo sulla motivazione. Importanti sentenze della Cassazione penale che hanno a che fare con la razionalità del giudizio di fatto, talora collegata all’affermazione di un principio di diritto che costituisce la premessa del problema probatorio. Di questo tipo è la sentenza forse più famosa delle Sezioni unite penali della Corte di cassazione italiana all’inizio di questo secolo [29], la quale, investita di un conflitto di giurisprudenza in materia di causalità omissiva, accanto a principi in puro diritto ha enunciato, sotto forma di principi di diritto, criteri relativi alla prova scientifica, il cui statuto è logico o epistemologico. Il giudice di legittimità, custode del nomos, è qui custode anche del logos, controllore della correttezza epistemologica del giudizio di merito.

Un’espressa enunciazione su ambito e limiti della funzione di nomofilachia si ritrova nella sentenza Cozzini [30] del 2010: «La Corte di legittimità non è per nulla detentrice di proprie certezze in ordine all'affidabilità della scienza, sicché non può essere chiamata a decidere, neppure a Sezioni Unite, se una legge scientifica di cui si postula l’utilizzabilità nell’inferenza probatoria sia o meno fondata […]. Tale valutazione attiene al fatto, è al servizio dell'attendibilità dell'argomentazione probatoria ed è dunque rimessa al giudice di merito che dispone, soprattutto attraverso la perizia, degli strumenti per accedere al mondo dalla scienza…. il controllo che la Corte Suprema è chiamata ad esercitarne attiene alla razionalità delle valutazioni che a tale riguardo il giudice di merito esprime».

Evidenziando i limiti del giudizio di legittimità, la sentenza Cozzini mette in guardia dall’attribuire il valore di precedente giuridico alle conclusioni raggiunte di volta in volta in singoli processi, relativamente allo stato del sapere scientifico su un dato problema: il sapere scientifico non è questione di nomos, di norme o di interpretazioni normative su cui possa essere esercitato il potere di nomofilachia della Corte suprema. È questione di fatto, che nel giudizio di cassazione può venire in rilievo se e in quanto si traduca in vizi di motivazione [31]: il modello di razionalità probatoria fa parte del sapere esigibile dal giudice, e il suo rispetto è sottoposto al controllo della Corte suprema.

5. Ermeneutiche del fatto

La qualificazione giuridica di un fatto presuppone l’accertamento dei suoi aspetti giuridicamente rilevanti: non solo aspetti materiali (per esempio: quali parole l’imputato ha detto?) ma anche significati culturali (sono parole offensive?). Vi sono dunque problemi definibili di interpretazione del fatto: non di verifica materiale, ma di ricognizione di significati di un fatto ben individuato nella sua materialità. Concezioni culturali e normative indipendenti dal diritto vengono in rilievo sia per l’interpretazione giuridica (la ricognizione del significato della norma, la concretizzazione di istituti – come la colpa – che rinviano a regole non formalizzate) sia per la ricognizione di profili non meramente materiali del fatto concreto, e per l’esercizio di poteri discrezionali.

Il giudice ha bisogno di un sapere sul mondo, necessario sia all’accertamento e all’ermeneutica del fatto, sia alla comprensione del diritto. Al livello minimo sono in gioco la competenza linguistica, il sapere di base in essa incorporato, e una cultura giuridica che è anche humanarum rerum notitia. Per l’accertamento di fatti materiali è necessario un sapere fattuale, talora scientifico, talora di semplice esperienza comune. Nella prova del fatto è in gioco l’universalità dell’epistemologia e del sapere su come è fatto il mondo; un sapere wertfrei, avalutativo, indipendente da premesse di valore. Nell’ermeneutica del fatto (e anche del diritto) è in gioco una saggezza (prudentia, fronesis) anche assiologica, relativa a valori. Nel processo è importante che tutto questo possa essere messo in discussione, ed eventualmente diventare oggetto di verifica probatoria.

La questione dei saperi necessari per il giudizio di fatto è messa a fuoco da un acuto studioso americano in un manuale sul ragionamento giuridico [32], nel capitolo intitolato a “diritto e fatti”. «Risolvere questioni di fatto costituisce una parte cruciale del ragionamento e dell’argomentazione degli operatori del diritto, a tutti i livelli del sistema giuridico». Il giudice fa perno, sebbene in modo non evidente, su fonti informative fattuali non filtrate nel contraddittorio processuale, talora (non sempre) formulate mediante la citazione di materiali non giuridici, valutate alla luce della cultura ed esperienza di cui il giudice dispone. Da qui il problema: come le «proposizioni empiriche che necessariamente fanno parte della creazione giudiziale di diritto, e molte volte della sua applicazione», possano essere controllate – messe in dubbio, confermate, confutate – «piuttosto che essere semplicemente fatte passare per conoscenza generale o per ciò che i giudici ritengono essere, non sempre correttamente, e non sempre indipendentemente dal loro retroterra culturale, la saggezza comune dell’umanità».

Anche la ragionevolezza assiologica va ricercata in una dimensione intersoggettiva. L’interpretazione dell’ordinamento è impresa intersoggettiva, cui partecipa la comunità interpretante [33]. Il principio di legalità esclude riduzioni soggettivistiche della ragionevolezza assiologica. In uno studio intitolato alla politica della legalità, un serio filosofo del diritto ha indicato fra gli impegni del giurista un distanziamento ideologico che eviti l’irriflessa riproposizione di propri valori personali: c’è bisogno di «un’area di cecità istituzionale dove le varie identità politiche, religiose, etniche ecc. non abbiano alcun peso come fattori discriminanti» [34].

Indagini sui valori socioculturali nella giurisprudenza furono avviate negli anni ’60, in un clima culturale che metteva in discussione la cultura giuridica tradizionale [35]. È un programma di lavoro (di ricerche e riflessioni) che sarebbe bene riprendere, su tutti gli aspetti della decisione giudiziaria penale che fuoriescono dalla nomofilachia del giudice di legittimità, ma non dall’esigenza di custodia della razionalità del giudizio di fatto. Paradossalmente, l’interesse crescente per il diritto giurisprudenziale, centrando l’attenzione sulle ermeneutiche giuridiche, non ha favorito un’attenzione mirata alle ermeneutiche del fatto, ai saperi a ciò necessari, e alle culture sottostanti.

Anche alla luce dell’esperienza, ritengo che questi problemi siano cruciali per il diritto penale. A livello giudiziario, problemi di ermeneutica del fatto si presentano con più frequenza dei problemi di pura interpretazione giuridica. Si presentano in particolare là dove l’ipotesi d’accusa abbia ad oggetto vicende complesse, o faccia riferimento a fattispecie ricche di elementi normativi, o ad istituti che fanno rinvio a regole non formalizzate dal diritto (si pensi alla colpa).

6. Problemi della legalità debole

Nella riflessione sul rapporto giudice/legge, un’attenzione mirata dovrebbe essere rivolta ai problemi posti da istituti e fattispecie la cui determinatezza (capacità descrittiva) sia di difficile ricostruzione. Li definirei problemi della legalità debole.

È interpretazione (inventio, ritrovamento di un diritto non creato dall’interprete) anche la concretizzazione di clausole generali: un problema non estraneo nemmeno al mondo del diritto penale (si pensi alle definizioni di istituti di parte generale, e a fattispecie costruite su elementi “normativi”) [36]. Le applicazioni debbono potersi giustificare come fondate su principi di diritto.

Problemi particolarmente spinosi sono problemi legati a istituti sia di diritto sostanziale (misure di sicurezza, o di prevenzione) sia processuali (misure cautelari) che non sono “di giustizia”, nel senso in cui è tale l’accertamento di reati e la conseguente applicazione di pena. Gli standard di determinatezza legale e/o di valutazione processuale sono meno rigorosi di quelli che reggono il giudizio sulla responsabilità penale; fuoriescono, cioè, dal paradigma del garantismo fondato sul principio di legalità e sulll’in dubio pro reo come suo risvolto processuale [37]. Il lievitare delle misure di prevenzione, nella legislazione recente, è un capitolo di grande (e inquietante) attualità [38].

Con riguardo al sistema delle risposte al reato, il principio di legalità lascia spazio alla discrezionalità giudiziale (improponibile con riguardo ai presupposti della responsabilità). Anche qui il primo problema è di interpretazione dei criteri legali, che il detentore di potere discrezionale è tenuto a seguire. Il problema specifico è lo spazio lasciato aperto all’esercizio del potere. Un potere che nella realtà del nostro ordinamento è talora «enorme» [39], per il combinarsi di spazi di discrezionalità molto dilatati con la vaghezza dei criteri (tendenzialmente onnicomprensivi) di cui all’art. 133 cp.

La legislazione penale dei decenni della Repubblica è segnata da una grande instabilità delle pene edittali, e di altri elementi significativi del sistema delle risposte al reato. Ciò rispecchia concezioni diverse sulla giustizia e/o sulle funzioni del penale, e diversi approcci di politica generale che incidono sulle politiche del diritto penale. Tendenzialmente, le riforme dei decenni della Repubblica – a partire dalla novella di parte generale del 1974, la prima incrinatura del codice Rocco – hanno scaricato sulla magistratura la mitigazione di vecchi e nuovi rigorismi legislativi. L’ordinamento penitenziario ha introdotto novità dirompenti. Al di là delle oscillazioni di linee politiche e nell’opinione pubblica, nel discorso pubblico sulle pene sembra prevalente un’ottica retributiva, moralistica, talora vendicativa, alimentata dall’ideologia della vittima [40]. Nella cultura giuridica mantengono maggior forza orientamenti (più o meno) liberali.

Nella prassi il quadro generale è (forse) di prevalenza di commisurazioni appiattite sui livelli minimi, motivate con formulette pigre, ma ragionevoli sullo sfondo di cornici edittali tropo severe. Lo spirito del tempo spinge, in talune materie, verso commisurazioni anche molto rigorose. La dismisura di cornici edittali e la disciplina delle circostanze (in particolare il bilanciamento fra aggravanti e attenuanti) fanno della commisurazione della pena un punto di crisi della legalità.

Nella gestione delle risposte al reato, negli spazi affidati alla discrezionalità giudiziale ha di fatto l’ultima parola la coscienza del giudice. In un ordinamento fondato sul principio di legalità, il giudice non può essere oracolo di giustizia, il suo potere deve essere sottoposto a vincoli controllabili. Su questo punto, cruciale per la qualità di giustizia che il sistema produce, molti problemi restano aperti.

7. Primato della legge e libertà degli interpreti

Il rapporto giudice/legge interessa direttamente le parti in ciascun processo. La difesa nel processo penale cerca di muoversi fin dove possibile nel solco della giurisprudenza. Là dove la parte abbia interesse e argomenti per chiedere una revisione di indirizzi giurisprudenziali, la strada è la stessa che la Corte costituzionale ha additato, nella sentenza n. 230/2012, per qualunque giudice intenda disattendere un indirizzo già affermato: un onere di adeguata motivazione.

Il giudice, soggetto soltanto alla legge, con adeguata motivazione può discostarsi dal mainstream giurisprudenziale. La parte ha diritto a una risposta del suo giudice, su tutti i punti di fatto e di diritto in cui si articola l’accusa o la difesa; una risposta che, in diritto, tenga conto delle ragioni introdotte; soprattutto se si tratta di ragioni nuove, nelle conclusioni o negli argomenti.

Emerge qui un filo che lega le mie esperienze di giovane giudice e poi di avvocato: un’esigenza di libertà di parola (cioè di argomentazione) di fronte al dictum di qualsiasi autorità, in nome di una legalità alla quale qualsiasi autorità è soggetta. Chiedere e dare ragioni in un contesto aperto, vincolato alla legge e non a precedenti fabbricati altrove, è un’esigenza comune a tutti i fabbricanti di interpretazioni: allo studioso, alla parte nel processo, al singolo giudice.

È qui che il primato della legge generale e astratta mostra in pieno il suo valore di garanzia di fronte all’esercizio di qualsiasi potere (compreso quello del giudice). Ferma l’esigenza di coerenza degli indirizzi giurisprudenziali, un ipotetico vincolo rigido al precedente – negato dalla Corte costituzionale – mi parrebbe di dubbia compatibilità non solo con l’art. 101 Cost. (soggezione dei giudici soltanto alla legge), ma anche con la sostanza del diritto di difesa.

Per la dottrina giuridica, l’esame di punti critici è un campo importante d’interesse intellettuale ed etico. L’orizzonte degli studiosi è la libertà di ricerca, il compito (Beruf, professione e vocazione) della produzione di cultura: che è non solo scienza wertfrei, ma anche riflessione sui valori, guidata da interessi di valore. Sta qui la specifica dignità e responsabilità della dottrina, anche di fronte alla giurisprudenza e al cosiddetto diritto giurisprudenziale.

Per il giudice la ricerca e la pronuncia di verità fattuali e del diritto applicabile è anche esercizio di potere, ed in ciò sta una differenza fortissima rispetto agli altri ricercatori di verità, cui il giudice imparziale può essere accostato [41]. Di fronte ad ogni esercizio di potere c’è un’esigenza di controllo, che, se non può essere affidato ad un potere formale, è comunque affidato all’uso della libertà di pensiero e di parola.

8. Diritto e giustizia

Chiudo con una riflessione sulla giustizia penale affidata al giudice. Parto dai principi enunciati dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 24/2017, in dialogo con la Corte UE: «gli ordinamenti costituzionali degli Stati di civil law … ripudiano l’idea che i Tribunali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente definito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire» (§ 9).

Emerge qui la ripulsa del giudice di scopo, pur dentro un sistema della cui razionalità è parte essenziale l‘idea dello scopo [42], la complessa teleologia del diritto criminale/penale e dei meccanismi del law enforcement, L’applicazione della legge punitiva concorre a definire, insieme alla qualità delle garanzie liberali, il contributo della giurisdizione penale alla complessiva tenuta della legalità e alla tutela degli interessi legalmente protetti. In ciascun singolo processo, il giudizio è vincolato a criteri di stretta legalità e di razionale verifica dell’ipotesi d’accusa al di là d’ogni ragionevole dubbio; non agli scopi di politica criminale cui pure il sistema nel suo insieme dovrebbe servire. Nel campo di tensione fra il polo autoritario e il polo delle garanzie, il giudice è autorità di garanzia, simboleggiata dalla bilancia.

Il lessico della giustizia esprime un dover essere del diritto e della sua applicazione. Ma diritto e giustizia sono concetti diversamente definiti. Gli ordinamenti giuridici moderni si sono formati in un processo di secolarizzazione, di emancipazione del diritto da vincoli di dipendenza da particolari concezioni religiose o morali. il positivismo giuridico postula la separazione del diritto dalla morale.

La distinzione concettuale fra diritto e morale, fra diritto e giustizia, fonda la «possibilità logica di instaurare una relazione tra diritto e morale» [43]: consente di sottoporre il diritto positivo a un controllo critico in nome di valori che lo trascendano. Significa apertura a un pluralismo di valori etici e politici che possano legittimamente confrontarsi, con pari libertà e dignità.

Il carattere coercitivo del diritto penale, insito nel proibire sotto minaccia di pena e nel punire i trasgressori, trae con sé esigenze specifiche di legittimazione e delimitazione: il fine di tutela non necessariamente giustifica i mezzi (un qualsiasi mezzo). Nel penale è in gioco non la moralità tout court, ma, più specificamente, la moralità della coercizione [44], oltre che la sua razionalità tecnica. È per questo che «il rapporto con l’etica si propone, per il diritto penale, in termini di problematicità accentuata» [45].

Su ciò che può essere oggetto di criminalizzazione, e sui criteri di attribuzione della responsabilità, nel nostro mondo di democrazia liberale richiediamo criteri di legittimazione stringenti e condivisi. Quanto ai sistemi punitivi, la grande variabilità nei tempi e nei luoghi rispecchia differenze fortissime fra le valutazioni e le politiche legislative. Anche nelle commisurazioni di pena emergono, in casi delicati, differenze molto forti nelle valutazioni “di giustizia”.

Anche là dove non vi siano dissensi sulla giustizia dell’attribuzione di responsabilità, la giustizia della risposta sanzionatoria – legalmente prevista e/o giudizialmente applicata, o semplicemente proposta – è sempre discutibile sul piano etico-politico. In una società aperta, valutazioni diverse sulla giustizia del punire hanno pari dignità di principio. Prendere sul serio l’ethos liberale implica il prendere le distanze dalla pretesa che la contingente valutazione di un ordinamento giuridico, o la nostra valutazione personale, o una concreta commisurazione discrezionale della pena, siano la giustizia punitiva tout court, la giusta misura o la migliore di tutte.

Lungi dall’esonerare da riflessioni e argomentazioni sulla giustizia dei modi del minacciare e punire, l’irriducibile discutibilità dei modelli punitivi dovrebbe essere tematizzata dalle teorie sulla pena, come premessa uno stile di riflessione e discussione (e anche di commisurazione giudiziaria) che tenga conto delle differenze fra le concezioni di giustizia penale presenti nella società, e della differenza concettuale (e del possibile scarto concreto) fra diritto e giustizia.



[1] Fra i tanti commenti: V. Manes, Prometeo alla Consulta: una lettura dei limiti costituzionali all’equiparazione tra diritto giurisprudenziale e legge, in Giur. Cost. 2013, pp. 3474 ss.; V. Napoleoni, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in Dir. pen. contemporaneo, 2012, n. 3-4, pp. 164 ss.

[2] V. Villa, Lineamenti di una teoria pragmaticamente orientata dell’interpretazione giuridica, in Cass. Pen. 2005, p. 2425; G. Giacobbe, La giurisprudenza come fonte del diritto?, in Iustitia, 2015, pp. 313 ss.

[3] L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, in Questione giustizia trimestrale, n. 4/2016, p. 23 http://questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2016-4_03.pdf.

[4] F. Lopez de Onate, La certezza del diritto, Giuffrè, Milano 1968 (la prima edizione è del 1942).

[5] C. Guarnieri, Magistratura e politica in Italia, Il Mulino, Bologna, 1992; A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, Bologna, 2012: E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 2018.

[6] Un esempio: A. Iannuzzi, Relazione al II congresso nazionale dell’Unione magistrati italiani, Ravenna, settembre 1968 (l’Umi era l’associazione cui aderivano i magistrati usciti dalla Anm, fra cui la maggior parte dei magistrati di grado più elevato).

[7] Posizioni fra loro diverse in AA.VV., L’uso alternativo del diritto, a cura di P. Barcellona, Laterza, Roma-Bari 1973.

[8] D. Pulitanò, Giudice negli anni ’70, De Donato, Bari-Roma 1977, pp. 31 ss.

[9] Testo di riferimento, F. Bricola, Teoria generale del reato, in Novissimo Digesto italiano, 1973.

[10] D. Pulitanò, Sui garantismi, in Democrazia e diritto, 1980, pp. 677 ss.

[11] D. Pulitanò, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in Riv.it. dir. proc. pen., 1983, pp. 484 ss. La Corte costituzionale ha saggiamente risposto con sentenze d’inammissibilità.

[12] Reperibile nel sito cortecostituzionale.it, inserito in P. Grossi, L’invenzione del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2017, pp. 114 ss.

[13] Usato per esempio da A. Lamorgese, L’interpretazione creativa del giudice non è un ossimoro, in Questione Giustizia trimestrale, n. 4/2016, pp. 115 ss.

[14] G. Preterossi, La magistratura di fronte alle derive post-democratiche, in Questione Giustizia trimestrale, p. 77, http://questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2016-4_06.pdf.

[15] R. Rordorf, Editoriale, Questione Giustizia trimestrale, n. 4/2016, p. 3 http://questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2016-4_01.pdf.

[16] M. Trapani, Creazione giudiziale della norma penale e suo controllo politico, in Arch. Pen. Web, n. 1-2017, 1pp. 15 e 29.

[17] «L’orizzonte generale dei valori-guida espressi nella Costituzione non può non divenire la precomprensione dell’interprete del diritto positivo nell’accostarsi ai testi normativi»: G. Zaccaria, La comprensione del diritto, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 98.

[18] «La identificazione della norma è il prius per giudicare se vi sia o meno conformità a Costituzione e tale identificazione non può essere fatta che per mezzo della interpretazione del testo normativo»: G. Azzariti, Discorso nella seduta inaugurale del secondo anno di attività della Corte, in Giur. Cost., 1957, pp. 878 ss. La priorità del procedimento ordinario di interpretazione è espressamente affermata dalla Corte costituzionale fin dalla prima sentenza relativa a un problema di determinatezza di una norma penale (n. 27 del 1961).

[19] R. Bin, L’interpretazione conforme. Due o tre cose che so di lei, in Rivista AIC, n.1/2015.

[20] G. Zaccaria, La comprensione del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 82.

[21] G. Zaccaria, op. cit., p. VII.

[22] G. Zaccaria, La comprensione del diritto, Laterza, Roma-Bari 2012; F. Viola, Il diritto come arte della convivenza civile, in Riv. di filosofia del diritto, 2015, n.1; M. Vogliotti, Il risveglio della coscienza ermeneutica nella penalistica contemporanea, in Riv. di filosofia del diritto, 2015, p. 9

[23] G. Zaccaria, Tre osservazioni su New Realism ed Ermeneutica, in Ragion pratica, n. 43, Dicembre 2014, pp. 341 ss.

[24] U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano, 1990, p. 26.

[25] K. Engisch, Vom Weltbiold des Juristen, Heidelberg1965.

[26] M. Barberis, Cosa resta del sillogismo giudiziale?, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2015, p. 172.

[27] Alla distinzione fra Sinn e Bedeutung, o fra analoghe coppie concettuali, nella dottrina penalistica fa più volte riferimento O. Di Giovine, Considerazioni su interpretazione, retorica e deontologia in diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 113. In argomento cfr. V. Villa, Lineamenti di una teoria pragmaticamente orientata dell’interpretazione giuridica, in Cass. pen. 2005, p. 2432.

[28] K. Engisch, Introduzione al pensiero giuridico, Giuffrè, Milano 1970 (con presentazione di A. Baratta).

[29] Cass., Sez. unite, 10 luglio 2002, Franzese (est. Canzio).

[30] Cass., sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786, Cozzini, in materia di esposizioni ad amianto e di prova della causalità in relazione al mesotelioma. In Cass. pen. 2011, pp. 1679 ss., con nota di R. Bartoli. Fra i molti commenti, P. Tonini, La Cassazione accoglie i criteri Daubert sulla prova scientifica, in Dir. pen. e processo, 2011, pp. 1341 ss.

[31] Lascio fra parentesi la questione di come il giudice di merito possa riuscire a distinguere il sapere disponibile dalla scienza spazzatura, e le questioni relative al merito scientifico delle diverse tesi che si confrontano nei processi penali. La scienza giuridica non ha competenza in materia di scienze naturali, e può restare a guardare dalla riva la battaglia scientifica. Magistrati e avvocati, invece, sono nel campo di battaglia; debbono discutere anche di scienza, come di ogni altra questione di fatto.

[32] F. Schauer, Thinking like a lawyer. A new Introduction to Legal reasoning, 2009. In traduzione italiana: Il ragionamento giuridico, Carocci, Roma, 2016. Citazioni da pp. 263 ss.

[33] Evocata da A. Giusti, Giurisdizione e interpretazione in Cassazione, in Questione Giustizia trimestrale, n. 4/2016, p. 141, http://questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2016-4_11.pdf.

[34] C. Luzzati, La politica della legalità, Il Mulino, Bologna 2005, p. 94.

[35] AA.VV., Valori socioculturali della giurisprudenza, con introduzione di L. Bianchi d’Espinosa e premessa di D. Greco, Laterza, Bari 1970. Anche il sottoscritto è stato coinvolto in questa iniziativa, sul tema del buon costume.

[36] Un recente riesame: D. Castronuovo, Tranelli del linguaggio e ‘nullum crimen’: il problema delle clausole generali nel diritto penale, in La legislazione penale on line, 5 giugno 2017.

[37] L. Ferrajoli, Diritto e ragione, Laterza, Bari-Roma, 1989.

[38] F. Palazzo, Per un ripensamento radicale del sistema di prevenzione ante delictum, in Criminalia, 2017, pp. 133 ss.

[39] F. Basile, L’enorme potere delle circostanze sul reato e l’enorme potere dei giudici sulle circostanze, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, pp. 1743 ss.

[40] Dalle cronache di questo periodo apprendiamo di richieste draconiane di pena, per imputati di delitti colposi obiettivamente molto gravi: un campo in cui la considerazione dei profili soggettivi della responsabilità – che dovrebbe essere decisiva, alla luce sia del principio di colpevolezza sia dei principi sulla pena – finisce per essere oscurata.

[41] H. Arendt, Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

[42] V. Liszt, La teoria dello scopo nel diritto penale, Giuffrè, Milano 1962.

[43] A. Baratta, Positivismo giuridico e scienza del diritto penale, Giuffrè, Milano, 1966, p. 102. Cfr. anche H.L.A. Hart, Il positivismo e la separazione tra diritto e morale, in Contributi all’analisi del diritto, Milano, 1964, pp. 107 ss.; U. Scarpelli, Cos’è il positivismo giuridico, Edizioni Scientifiche Italiane, Milano, 1965; N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Edizioni di comunità, Milano, 1965.

[44] Il diritto penale è in grado di fornire alla legge morale la «forza coattiva e repressiva che la legge morale in sé non aveva»: (F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 40).

[45] C. Pedrazzi, Diritto penale, in Dig. pen., 1990, p. 645.

09/07/2019
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