Ora che il 9 maggio scorso la Cassazione ha chiuso il processo per l'affondamento dell'imbarcazione albanese Katër i Radës, avvenuto nel canale d'Otranto il 28 marzo 1997, confermando le condanne per naufragio colposo dei due responsabili, arriva in non voluta coincidenza l'opera teatrale-musicale “Katër i Radës. Il naufragio” di Admir Shkurtaj, su libretto di Alessandro Leogrande con direzione di Pasquale Corrado, presentata domenica 12 ottobre alla Biennale di Venezia.
Il libro a cui si ispira l'opera, anch'esso scritto da Leogrande, oscillava tra il riportare lo speronamento della Katër da parte della Marina Militare, che provocò la morte di 81 persone, ad una volontà malvagia oppure ad una fatale idiozia: c'erano direttive criminali di governo, oppure “soltanto” un clima isterico, nel quale politici di primo piano invitavano a sparare sui barconi?
L'inchiesta penale scelse l'ipotesi dell'idiozia, anche per l'estrema difficoltà di individuare i responsabili della direttiva di compiere manovre di disturbo dei barconi a rischio di provocare speronamenti, come poi avvenne.
Qualche dubbio, però, nel libro rimaneva.
Da subito invece l'opera di Shkurtaj, prodotta dai Cantieri Teatrali Koreja per la regia di Salvatore Tramacere, si concentra sulla stupidità.
Ne è passato di tempo, e ricordare e raccontare è ciò che importa adesso.
All'epoca, un Berlusconi molto vitale si precipitò a Brindisi, pianse lacrime, promise posti di lavoro ai superstiti, ne assunse alcuni per qualche settimana in una delle sue ville.
Degli altri, invece, parlava Nanni Moretti nel film “Aprile”: “Il fatto che qui non sia venuto nemmeno un dirigente della sinistra è un sintomo della loro assenza politica, ma soprattutto della loro assenza umana, non gliene importa niente”.
Ne è passato di tempo, e interessano ancora le responsabilità politiche? La memoria alla fine ha dei limiti, e non è sempre regina della verità.
Conta di più la storia.
O la sua assenza, la feroce stupidità che non si cura di evitare o di ridurre al minimo le sofferenze inutili.
Alla Biennale di Venezia, alla presenza del presidente Paolo Baratta e di una delegazione del Consiglio d'Europa, il libro ha trovato compimento nell'opera.
Non è un caso che a scriverla sia stato l'albanese Shkurtaj, musicista preparato ma alieno da virtuosismi non necessari.
La sua musica contemporanea, che in altri compositori risulta scostante e autoreferenziale, era la più adatta a creare un racconto che mescola il senso di una tragedia antica e di un'ottusa modernità, e si avvale di artisti in parte italiani, ma ancor più albanesi, alcuni dei quali (il coro polifonico “Violinat e Lapardhase”) vestiti con costumi tradizionali: una multietnicità vissuta e non da presepio, frutto di una condivisione della tragedia che doveva pur realizzarsi, tra le due sponde dell'Adriatico.
La tensione drammatica era fortissima, con un crescendo che non lascia requie e culmina nell'impressionante finale, nel quale i fagottini che avvolgevano i bambini morti dei migranti (ma nel 1997 gli speronatori credevano che nascondessero armi) vengono deposti e ricevono l'omaggio degli anziani, mentre sullo sfondo si sollevano i vestiti dei naufraghi, come in una teologica resurrezione dei morti.
Cinque minuti di applausi per i musicisti cantanti e attori di questa preghiera laica, che viene da una memoria mite né rancorosa né arrendevole, e perciò capace di trasformarsi in storia, storia che si racconta.
Senza l'arte, forse non sarebbe stato possibile.