Sommario: 1. Lo scenario della crisi di impresa modificato dalla Direttiva Insolvency e, soprattutto, dalla pandemia - 2. Il decisore politico deve saper guardare lontano - 3. Il bisogno di un mutato approccio culturale ai fenomeni della crisi, dell’insolvenza, dell’indebitamento - 4. Le diverse letture del recente intervento normativo attuato con il d.l. n. 118 del 2021 - 5. Emendarsi dal vizio nazionale di rinviare, differire, prorogare
1. Lo scenario della crisi di impresa modificato dalla Direttiva Insolvency e, soprattutto, dalla pandemia
Il meno che possa dirsi è che il percorso della riforma del diritto concorsuale, avviato per iniziativa del Ministro della Giustizia nel 2015 ma tuttora non giunto a pieno compimento, è assai tormentato. L’11 marzo 2016 lo stesso Ministro della Giustizia, sulla base dei lavori svolti da un’apposita commissione, presentò alla Camera un disegno di legge per delegare al Governo «la riforma organica della disciplina della crisi d’impresa e dell’insolvenza». La Camera impiegò oltre un anno e mezzo per approvarlo, quel disegno di legge, dopo avervi apportato non poche rilevanti modifiche e dopo aver stralciato dalla riforma il capitolo dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, che sin dall’inizio il Ministero dello sviluppo economico aveva visto con grande diffidenza. Il 19 ottobre del 2017 il Senato approvò definitivamente la legge delega, che prese il numero 155. Alla fine di quello stesso anno la legislatura però giunse a termine ed il Governo non fece in tempo ad emanare i previsti decreti delegati, pur essendone state frattanto predisposte in tutta fretta le bozze ad opera di un’ulteriore commissione ministeriale a tal fine forse un po’ troppo tardivamente nominata. Il compito di attuare la delega toccò quindi al Governo subentrante e si pervenne così all’emanazione del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), non senza però alcune ulteriori amputazioni, giacché la nuova compagine governativa preferì lasciar cadere anche la riforma dell’istituto della liquidazione coatta amministrativa (che è stata perciò riproposta senza modifiche nel testo del nuovo codice) e non dar seguito, se non assai parzialmente, al criterio di delega riguardante i criteri attributivi della competenza giurisdizionale. Lacuna particolarmente grave, quest’ultima, giacché la prevista attribuzione di una più vasta competenza ad alcuni ben individuati tribunali di maggiore dimensione sarebbe stata indispensabile per assicurare che i giudici addetti alla materia siano sempre dotati di un elevato tasso di specializzazione, e ciò è quanto mai importante tenuto conto dei delicati compiti assegnati a quei giudici, della stretta compenetrazione di profili giuridici ed economico-aziendali che caratterizza questa particolare branca del diritto e della ripetutamente invocata, ma non sempre davvero favorita, necessità di agevolare una più rapida definizione delle procedure.
Pur con tali liniti, quello venutosi così a delineare è comunque senza dubbio un disegno riformatore assai complesso e ciò aveva sin da principio suggerito di differire di diciotto mesi l’entrata in vigore di gran parte delle disposizioni contenute nel nuovo codice. Occorreva infatti approntare i necessari strumenti operativi (in particolare gli Organismi di composizione della crisi, da istituire presso le Camere di commercio, cui dovrebbe essere affidato il delicato compito di far funzionare i nuovi istituti dell’allerta e della composizione assistita della crisi), ed era necessario dar tempo a tutti i diversi operatori interessati di assimilare le non poche novità normative.
In questo intervallo temporale si sono però verificati due eventi, ben diversi tra loro e di ben differente portata, che hanno entrambi concorso a modificare lo scenario della crisi d’impresa: l’emanazione della Direttiva europea n. 2019/1023 del 20 giugno 2019 (c.d. Direttiva Insolvency) e, soprattutto, lo scoppio della pandemia da Covid-19 nei primi mesi del 2020.
Ovviamente la direttiva europea, che essenzialmente riguarda i piani di ristrutturazione preventiva delle imprese in crisi, gli strumenti di early warning idonei a rilevare tempestivamente i sintomi della crisi e le forme di esdebitazione attraverso cui consentire una seconda chance a chi sia incappato in una situazione d’insolvenza, non era un evento imprevisto. Nell’elaborazione del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza si era già largamente tenuto conto della proposta di direttiva allora nota e, quantunque il testo finale della direttiva presenti novità di un qualche rilievo rispetto alla precedente proposta, mi sentirei di dire che, per recepirla correttamente, sarebbe bastato un certo numero di modifiche ad alcune disposizioni del codice senza necessariamente differirne ancora l’entrata in vigore.
Ben più rilevanti sono stati, però, gli effetti della pandemia, che ha provocato un arresto nell’attività di una larga quantità di imprese con rischi per la tenuta complessiva del sistema industriale e della catena del commercio. In questo frangente, nel quale il legislatore è intervenuto anche con svariate disposizioni urgenti di sostegno all’economia nazionale, era inevitabile chiedersi se strumenti normativi pensati per fronteggiare la crisi di singole imprese in una condizione di mercato nel complesso normalmente funzionante fossero adeguati, almeno nell’immediato, a gestire una situazione di crisi generalizzata quale quella che si era andata improvvisamente delineando. Il clima convulso che ha caratterizzato i primi mesi successivi al manifestarsi della pandemia, con un frenetico succedersi di provvedimenti emergenziali di varia natura, si è quindi inevitabilmente riflesso anche sulla prospettiva di entrata in vigore del nuovo codice. Ciò ha suggerito, in un primo tempo, di rinviare i soli istituti dell’allerta e della composizione assistita della crisi, che rappresentano forse gli elementi di maggiore novità della riforma ma che si è reputato non potessero andare a regime in presenza di una situazione di difficoltà economica di così vasta portata; poi, più drasticamente, si è deciso di differire sino al settembre del 2021 l’entrata in vigore di tutte le disposizioni del codice non ancora già operative (alcune delle quali, peraltro, sono state nel frattempo immesse un po’ alla rinfusa nel corpo della pregressa e tuttora vigente legislazione concorsuale).
Ma non è bastato. Già con il c.d. decreto sostegni (d.l. n. 41 del 2021, modificato dalla legge di conversione n. 69 dello stesso anno) il legislatore ha provveduto a rinviare ad uno o due anni successivi all’entrata in vigore del codice l’attuazione del meccanismo dell’allerta esterna, cioè dell’onere posto a carico di alcuni creditori pubblici qualificati, quali l’Inps e l’Agenzia delle Entrate, di segnalare il ritardo significativo di un’impresa nell’assolvimento dei propri obblighi fiscali e previdenziali. Poi, all’avvicinarsi della nuova scadenza, essendo ancora tutt’altro che svaniti gli effetti della pandemia sul tessuto economico nazionale, l’attuale Governo, avvalendosi anche della consulenza di un’ulteriore commissione ministeriale frattanto nominata, ha avvertito la necessità non solo di differire nuovamente sino al 16 maggio 2021 l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza nel suo insieme, e sino al 31 dicembre 2023 l’attuazione degli istituti dell’allerta e della composizione assistita della crisi, ma anche di dettare una serie di disposizioni di immediata applicazione in parte modificative ed in parte del tutto innovative rispetto a quelle contenute nel codice rimasto frattanto in stand-by.
Non è il caso di esaminare qui le norme introdotte da quest’ultimo provvedimento normativo (d.l. 24 agosto 2021, n. 118); le riviste giuridiche specializzate in questo settore dell’ordinamento grondano già di commenti. Accennerò solo brevemente in seguito all’istituto della composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa, che mi pare di gran lunga la novità più importante sia per ragioni di ordine sistematico sia per le future prospettive che esso schiude. Ma prima mi si consenta di aprire una parenesi per svolgere una considerazione di ordine assai più generale.
2. Il decisore politico deve saper guardare lontano
Dire che la normativa di cui un paese è dotato rispecchia lo spirito dei tempi può apparire persino ovvio. Ma cosa è davvero lo spirito dei tempi, quello che i tedeschi chiamano zeitgeist, e cosa concorre a determinarlo? Se con questa espressione s’intende il modo di pensare corrente in una determinata epoca ed in una ben individuata società, i valori morali cui quest’ultima si ispira ed il senso comune (non necessariamente coincidente col buon senso) che ne pervade i comportamenti, allora è legittimo anche chiedersi in qual misura la normativa è in grado, a propria volta, di influenzarlo lo spirito dei tempi: se cioè, o fino a qual punto, le scelte del decisore politico possono indirizzare – e non soltanto riflettere – il modo di intendere di certi fenomeni che interessano la società ed ai quali essa reagisce secondo una determinata impostazione culturale più o meno diffusa.
Certo, è tipico dei regimi totalitari il tentativo di imporre all’intera società una ben definita visione della vita, nell’illusione di poter forgiare un uomo nuovo e, con esso, il carattere di un popolo o di una nazione. Il novecento ce ne ha dato esempi assai eloquenti. Anche nei regimi democratici, tuttavia, credo che il rapporto tra le scelte normative ed il modo di pensare corrente non sia mai del tutto univoco ed unidirezionale: è un rapporto dialettico, che consente ad un decisore politico lungimirante di stimolare ed incoraggiare mutamenti culturali per i quali il corpo sociale sia già in qualche misura maturo e però, al tempo stesso, postula che quei nuovi indirizzi normativi siano pian piano accettati, rischiando altrimenti di essere delegittimato chi li ha propugnati. Si tratta, dunque, di un processo alquanto complesso, che richiede tempo ed eventuali successivi aggiustamenti graduali, i cui esiti non sono mai del tutto facilmente prevedibili.
Da anni non si fa che parlare di riforme, un po’ in tutti i campi, ma per riuscire davvero a passare dalle parole ai fatti, per evitare che i conati riformatori restino soltanto tali e si traducano in una serie infinita di modifiche normative, spesso l’una contraria all’altra e prive di ogni effettiva valenza sistematica, per consentire cioè che il processo dialettico cui ho fatto cenno sia capace di produrre effetti virtuosi ed almeno relativamente durevoli, è indispensabile che il decisore politico sia, per un verso, ben capace d’interpretare le tendenze in atto nella società e, per altro verso, sappia però anche guardare lontano per comprendere come e fino a qual punto gli è possibile favorire alcune spinte rispetto ad altre ed indirizzarle verso obiettivi meritevoli di esser perseguiti nel medio e lungo periodo.
Non senza poi considerare che quando oggi si parla di decisore politico non si può fare più unicamente riferimento al legislatore nazionale, ma occorre tener conto degli indirizzi provenienti dalle istituzioni sovranazionali delle quali il nostro paese fa parte ed, ancor più in generale, delle organizzazioni e degli enti che con le loro azioni influenzano l’economia ed i costumi di vita di ampie aree del mondo. Al legislatore nazionale spetta perciò l’ulteriore non facile compito di coniugare gli indirizzi culturali prevalenti nel proprio paese con le non sempre del tutto coincidenti tendenze che si manifestano in una più vasta platea internazionale.
3. Il bisogno di un mutato approccio culturale ai fenomeni della crisi , dell’insolvenza , dell’indebitamento
Ma torniamo ora alla riforma del diritto concorsuale. Sia pure in un ambito delimitato, mi pare che il suo tormentato percorso stia mettendo assai bene in evidenza le difficoltà che incontra il nostro legislatore nello svolgere quelle funzioni sia di interprete sia di stimolatore dello spirito dei tempi, anche alla luce del quadro sovranazionale, cui ho fatto sopra cenno.
Sull’opportunità di differire l’entrata in vigore della riforma organica del diritto concorsuale si è già discusso in svariate occasioni, ed è forse ormai superfluo continuare a farlo (pur non tacendo che altri paesi – quali ad esempio la Spagna, dove il 5 maggio 2020 è stato approvato il Texto Refundido della Ley Concursal – non hanno esitato a dare immediatamente corso ad importanti riforme in questo stesso settore nonostante la sopravvenuta pandemia). Non sfugge però che, alle ragioni più o meno persuasive che hanno concorso a determinare questa decisione, si è aggiunta anche la diffidenza – se non proprio l’aperta ostilità – di una parte del mondo imprenditoriale nei confronti del nuovo codice. Una diffidenza che mi sembra esprima, almeno in qualche misura, la difficoltà di accedere a quel mutamento di approccio culturale – che chiamerei, per intenderci, la cultura dell’early warning – che il disegno riformatore chiaramente intende promuovere.
Senza poter qui entrare in dettagli, occorre ricordare che gli obiettivi principali della riforma sono individuabili, oltre che nell’intento di superare una stagione caratterizzata da un susseguirsi disordinato di provvedimenti legislativi improntati ad una visione parziale dei problemi del diritto concorsuale per approdare ad una riscrittura organica e coerente dell’intera disciplina, abrogando finalmente l’ormai obsoleta legge fallimentare del 1942, nel definitivo abbandono di una tradizionale visione colpevolizzante dell’insolvenza e nella valorizzazione degli strumenti potenzialmente in grado di prevenirla, favorendo, sempre che possibile, soluzioni della crisi idonee a salvaguardare la continuità aziendale anziché condurre ad esiti liquidatori assai meno soddisfacenti per tutti. Donde, come già accennato, la centralità di istituti come l’allerta e la composizione assistita della crisi: il primo volto a consentire la percezione precoce dei sintomi di crisi, che è condizione indispensabile per poter sperare di evitare che questa degeneri poi in insolvenza irreversibile, e l’altro destinato a fornire un adeguato supporto all’imprenditore in crisi nel non facile tentativo di trovare, con l’accordo dei creditori, una soluzione che consenta la prosecuzione dell’attività e salvaguardi il più possibile anche i posti di lavoro.
Tentativi di introdurre strumenti di tal fatta nel nostro ordinamento sono stati compiuti sin dal principio del secolo, ma senza risultati, anche a causa della resistenza di gran parte del mondo imprenditoriale, abituato piuttosto a mascherare sin quando possibile gli eventuali sintomi di crisi incipiente e preoccupato sovra ogni cosa di evitare che il diffondersi di notizie concernenti la cattiva salute di un’impresa possa inaridirne le fonti di finanziamento, precluderne l’accesso al credito e quindi far definitivamente precipitare la situazione. Non si tratta, evidentemente, di preoccupazioni campate in aria, e tuttavia l’esperienza di questi ultimi decenni ha ampiamente dimostrato che, quando realmente cominciano a manifestarsi difficoltà nel mantenere l’equilibrio economico e finanziario di un’impresa, la politica del nascondere la polvere sotto il tappeto non paga: il temporeggiamento, lungi dal migliorare la situazione, quasi sempre la peggiora. I tentativi di risanamento aziendale, che da alcun tempo il legislatore ha inteso favorire introducendo man mano nel corpo della vecchia legge fallimentare strumenti quali i piani di risanamento, gli accordi di ristrutturazione del debito, il concordato preventivo in continuità e via dicendo, non hanno prodotto nel complesso gli effetti benefici che si sperava proprio perché, nella maggior parte dei casi, vi si è fatto ricorso troppo tardi, quando oramai la situazione non era più rimediabile e gli sforzi per tentare ugualmente di risollevarla si sono perciò non di rado dimostrati più nocivi che utili. La parte più avvertita dello stesso mondo imprenditoriale se ne è resa conto e, durante i lavori che hanno condotto all’emanazione del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, anche Confindustria si è dichiarata favorevole all’introduzione di strumenti di allerta e composizione assistita della crisi che valgano a favorire l’indispensabile tempestività degli interventi risanatori. In ambito internazionale, del resto, questo approccio è ormai ampiamente condiviso e la filosofia dell’early warning è alla base sia della Raccomandazione della Commissione europea n. 2014/135 sia della successiva, già ricordata, Direttiva Insolvency.
Non è superfluo aggiungere che per il successo di simili strategie è altrettanto indispensabile che anche il ceto creditorio, ed in particolare il mondo bancario che di quel ceto costituisce la parte più rilevante, adotti un atteggiamento meno burocratico e difensivo di quanto in passato spesso non sia accaduto e si disponga ad una fattiva collaborazione nella ricerca di un risultato che, anche in una prospettiva sistematica e di più lungo periodo, valga a contemperare al meglio i diversi interessi in gioco. L’enfasi che in alcune disposizioni del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza è posta sul dovere di correttezza e buona fede, cui sono tenuti tanto il debitore quanto i creditori, ed in particolare sul dovere di questi ultimi di collaborare al buon esito delle procedure (art. 4, comma 3), sta appunto ad indicare l’importanza dell’atteggiamento culturale e dell’approccio soggettivo col quale è indispensabile che tutti i protagonisti di tali vicende si accostino agli istituti con cui s’intende far fronte alla crisi dell’impresa. Un approccio, questo, che comporta però anche l’abbandono di un’antica quanto assai radicata visione del debito (ed a maggior ragione dell’insolvenza) quasi come sinonimo di colpa e, conseguentemente, di una concezione per molti aspetti punitiva che a lungo ha improntato di sé gli istituti del diritto concorsuale, proprio per allontanarsi dalla quale il nuovo codice ha scelto altresì di non adoperare più nemmeno la parola fallimento, da sempre carica di valenze negative anche di ordine morale ed esistenziale, come del resto già hanno fatto altri ordinamenti europei. Il che, naturalmente, non significa che in siffatte vicende non possano talora nascondersi comportamenti fraudolenti, o comunque illeciti. Se ve ne sono essi vanno come tali smascherati ed opportunamente sanzionati anche sul piano penale (e qui occorrerebbe aprire un discorso sulla necessità di riformare funditus anche il diritto penale dell’insolvenza). Ma ciò non implica che sull’indebitamento e sull’insolvenza necessariamente debba aleggiare un pregiudizio negativo e, soprattutto, bisognerebbe evitare che un simile pregiudizio influenzi l’impostazione generale dell’impianto normativo: perché nell’ambito del diritto civile e commerciale la principale finalità della regolazione giuridica della crisi e dell’insolvenza, che sono accadimenti non certo auspicabili ma pur sempre possibili nello sviluppo fisiologico di qualsiasi attività umana, e specialmente dell’attività d’impresa, dovrebbe soprattutto consistere nel favorire con spirito laico la migliore gestione possibile dei molteplici interessi in gioco, destinati a combinarsi variamente a seconda delle circostanze, il cui equo contemperamento richiede la capacità d’intervenire caso per caso con tempestività e professionalità.
La precoce emersione dei sintomi della crisi, l’introduzione ed il rafforzamento di strumenti di risoluzione della crisi che salvaguardino il più possibile la continuità aziendale, l’abbandono della antica concezione punitiva del fallimento, l’esdebitazione del debitore incolpevole al quale è opportuno concedere una seconda chance: sono tutti tasselli di un medesimo quadro, tra loro collegati da un evidente filo logico. Tasselli già in parte rinvenibili nelle pieghe dell’ordinamento vigente, ma che la riforma organica del diritto concorsuale mira a completare ed a collocare in un quadro sistematico e coerente anche e proprio per stimolare quel mutamento di approccio culturale e quel diverso modo di guardare ai fenomeni della crisi, dell’insolvenza e dell’indebitamento in genere senza il quale ogni intento riformatore rischia di risultare sterile.
4. Le diverse letture del recente intervento normativo attuato con il d.l. n. 118 del 2021
Alla luce di tali considerazioni il recente intervento normativo, attuato col già citato d. l. n. 118 del 2021, si presta a diverse possibili letture.
E’ soprattutto l’ulteriore e così lungo rinvio dell’entrata in vigore degli istituti dell’allerta e della composizione assistita della crisi a poter dare l’impressione che abbia finito per prevalere quella diffidenza, cui già s’è accennato, costantemente nutrita da alcuni ambienti industriali e professionali nei confronti di tali istituti. Non sempre quod differtur non aufertur: è vero che gli effetti della pandemia potrebbero farsi sentire ancora per parecchio tempo, ma è difficile sottrarsi all’impressione che rinviare così a lungo l’operatività di istituti alla cui concreta realizzazione si stava lavorando già da più di un biennio possa preludere al loro definitivo accantonamento o che, quanto meno, ci si voglia ancora riservare di decidere se attuarli poi davvero oppure no. Impressione confermata dalla contemporanea introduzione del nuovo istituto del quale già s’è fatta menzione, la composizione negoziata della crisi d’impresa, che per alcuni aspetti si sovrappone alla composizione assistita di cui è stata rimandata la concreta attuazione; sicché è lecito supporre che, se e quando finalmente il codice entrerà completamente in vigore, occorrerà fare altre scelte perché quegli istituti dovranno essere in qualche modo coordinati o forse ulteriormente del tutto rimodellati.
Anche a prescindere dalle modifiche che il recente decreto legge potrà subire in sede di conversione, la progettata riforma sembra dunque ancora ben lontana dal punto di arrivo. Abbiamo di fronte un quadro che stenta a prendere forma. Credo peraltro che a ciò abbia concorso anche il modo con cui il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ha configurato gli istituti dell’allerta e della composizione assistita. Mi è già capitato in più occasioni di osservare che, anche e proprio per quella necessità di favorire i mutamenti di mentalità dei quali prima parlavo, sarebbe stato indispensabile far sì che tali istituti fossero concepiti per assolvere soprattutto ad una funzione di supporto per l’imprenditore in difficoltà, incoraggiandolo perciò ad avvalersene il più presto possibile; donde la loro collocazione al di fuori dell’ambito giudiziario, inevitabilmente più formale ed inquietante per l’imprenditore in crisi, ed i caratteri della riservatezza e della confidenzialità loro propri. Benché tali connotati siano stati in parte preservati, nella versione finale del codice ha preso corpo un’impostazione alquanto più burocratica e proceduralizzata, scandita da una molteplicità di termini di adempimento e di soglie di rilevanza, in cui sembra quasi che l’imprenditore sia chiamato a giustificarsi e difendersi piuttosto che ad essere coadiuvato, in un contesto che rischia perciò di evocare il clima di una procedura prefallimentare, rafforzato dalla previsione dell’intervento finale del pubblico ministero in caso di cattivo esito dei tentativi di risanamento. E’ come se quel cambio di passo insito nella cultura dell’early warning fosse riuscito solo a metà, e credo che ciò abbia non poco contribuito a riattizzare l’antica diffidenza di molti nei confronti dei nuovi istituti ed a favorirne il differimento, in un momento nel quale invece, se essi fossero stati intesi e recepiti davvero come strumenti di supporto, le difficoltà generate dalla pandemia maggiormente ne avrebbe suggerito l’adozione.
Sotto questo profilo il nuovo istituto della composizione negoziata della crisi, introdotto dal d.l. 118 del 2021, mi sembra però possa essere salutato con favore, al di là dei miglioramenti di dettaglio che potrebbero essere apportati alla sua disciplina.
Va premesso che, pur in assenza di una vera e propria procedura di allerta quale quella prevista dal codice della crisi, resta comunque fermo il dovere di attrezzare l’impresa in modo da poter percepire precocemente eventuali sintomi di crisi ed il correlato dovere di reagirvi tempestivamente ponendo mano agli strumenti offerti allo scopo dal legislatore, giacché entrambi tali doveri sono ben scolpiti nel secondo comma dell’art. 2086 del codice civile, opportunamente introdotto dallo stesso citato d. lgs n. 14 del 2019 e già pienamente in vigore (non merita qui soffermarsi a discutere se tali doveri riguardino solo gli imprenditori operanti in veste collettiva o anche gli individuali). La composizione negoziata si pone, quindi, come un ulteriore strumento al quale l’imprenditore in difficoltà può far ricorso per trovare una via d’uscita dalla crisi, ed in questo senso ben può dirsi che essa sia coerente con le finalità dell’early warning fatte proprie dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Rispetto agli istituti dell’allerta e della composizione assistita, come disegnati da quel codice, la composizione negoziata si presenta però assai più agile, più economica e molto più nettamente profilata in chiave mediatoria. E’ uno strumento del quale l’imprenditore può liberamente decidere di avvalersi per far sì che un soggetto terzo e professionalmente ben attrezzato favorisca le possibilità di una soluzione della crisi concordata con i creditori o, comunque, abbia un accesso più efficace e tempestivo alle diverse possibili procedure concorsuali previste dall’ordinamento. Uno strumento, dunque, che si sarebbe tentati di definire più “mite”, il ricorso al quale non inopportunamente viene anche qui incoraggiato con misure premiali, ma che dovrebbe nel complesso apparire privo del carattere ancora un po’ arcigno presentato dall’allerta e dalla composizione assistita.
La mancata entrata in vigore delle disposizioni con cui il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ha inteso dettagliatamente disciplinare i doveri di amministratori ed organi di controllo delle società in presenza di ben determinati indizi di crisi non esclude però – lo si è già detto ma è importante ribadirlo e sottolinearlo – il dovere degli amministratori dell’impresa di attrezzarsi adeguatamente per percepire tempestivamente gli eventuali sintomi di crisi ed il conseguente dovere di attivarsi senza indugio per l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi ed il recupero della continuità aziendale (ivi compreso, dunque, il nuovo strumento costituito dalla composizione negoziata), come prescrive il secondo comma del già citato art. 2086 c.c.; e neppure esclude, di conseguenza, il generale dovere degli organi di controllo di vigilare sul corretto adempimento di siffatti obblighi da parte degli amministratori, con il corredo dell’eventuale responsabilità degli uni e degli altri ove quei doveri siano rimasti inadempiuti.
5. Emendarsi dal vizio nazionale di rinviare, differire, prorogare
Che dire, allora, in conclusione?
Non si può non provare un certo senso di frustrazione quando, dopo anni di lavoro, miriadi di dibattiti in seminari e convegni, montagne di libri ed articoli di dottrina, ci si deve confrontare con l’ennesimo differimento nell’attuazione di un progetto di riforma che taluno aveva definito epocale, di certo esagerando, ma che senza dubbio era (ed è) ambizioso.
Continuo a credere vi sia un grande bisogno di una riorganizzazione sistematica del nostro diritto concorsuale, dopo decenni di interventi parziali, e mi parrebbe davvero un peccato se si perdesse l’occasione di porvi mano continuando invece ad indulgere nella prassi di una legislazione frammentaria, emergenziale e, quindi, inevitabilmente disordinata. Rinviare, differire, prorogare: è purtroppo un vizio nazionale, che mi auguro fortemente non si perpetui ulteriormente anche a questo proposito.
D’altro canto, per le ragioni che ho tentato sinteticamente di esporre, si può nutrire la speranza che le vicende da cui è stato caratterizzato il tormentato percorso della riforma del diritto concorsuale siano anche l’occasione per migliorane alcuni aspetti non secondari e per favorire il rafforzamento di una cultura giuridica moderna che sia maggiormente incline ad un’idea di giustizia possibilmente più conciliativa che aggiudicativa.