L’associazione degli allievi dell’Università degli studi di Milano (Algiusmi) ha scelto Edmondo Bruti Liberati come laureato benemerito per l’anno 2016, e ha organizzato in occasione del suo festeggiamento (28 novembre 2016) un convegno sul tema Magistratura e società, con riguardo ai rapporti con la politica, i media, l’avvocatura e l’università. A me è stato affidato l’onere (per me un onore) della presentazione di Bruti Liberati, come introduzione alla successiva tavola rotonda sul tema indicato. Ho pensato di proporre a Questione giustizia la laudatio di Edmondo, da cinque decenni un protagonista nel campo Magistratura e società, come contributo a una riflessione sempre aperta.
1. Risale agli anni dell’Università la mia conoscenza e amicizia con Edmondo. Abbiamo condiviso da giovani assistenti la frequentazione dell’Istituto penalistico della Statale di Milano. Nel periodo fra il mio (1967) e il suo (1970) ingresso in magistratura ricordo Edmondo già presente in assemblee di Magistratura Democratica. Abbiamo condiviso quella esperienza - coinvolgente e difficile - negli anni ’70, fino a quando ho lasciato la magistratura per l’Università.
Negli anni ’70 Edmondo era giudice del Tribunale di Milano; assegnato dapprima al Tribunale penale, poi al Tribunale di sorveglianza, nei primi anni di applicazione della riforma penitenziaria del 1975: un ruolo nuovo, tutto da costruire.
Gli anni ’70 furono un’epoca di confronto culturale e politico molto vivace, fra differenti concezioni della legalità e delle funzioni di magistrato. La magistratura più tradizionalista e più anziana, insediata nei luoghi di maggior potere, era arroccata su versioni apparentemente ingenue del mito dell’interpretazione letterale, usate a difesa del dominio interpretativo della Corte di cassazione e di indirizzi chiusi rispetto al novum costituzionale. Noi giovani di allora abbiamo vissuto o studiato come momento di svolta culturale il Congresso di Gardone della ANM, nel 1965: la relazione di Maranini definiva l’attività giurisdizionale come funzione di indirizzo politico costituzionale; la mozione conclusiva, approvata all’unanimità, parlava di potere-dovere del giudice di immediata applicazione della Costituzione, come fondamentale criterio di interpretazione, oltre che di invalidazione di norme incompatibili.
Si deve al circuito fra la magistratura (soprattutto la più giovane) e la Corte costituzionale lo smantellamento, nel primo periodo di funzionamento della Corte, di aspetti inaccettabili della vecchia codificazione fascista, e l’avvio di un faticoso, non ancora compiuto cammino di adeguamento del sistema penale (e processuale penale) ai principi costituzionali.
L’emancipazione da tradizioni autoritarie e da conformismi burocratici, agganciata alla svolta costituzionale, sul piano teorico si è talora rispecchiata in un’idea di giurisdizione che (con variazioni d’accento e di impostazione teorica) ha assunto il senso di rivendicazione di maggiori spazi in sede ermeneutica. Indirizzi innovatori erano esposti al rischio di capovolgere il modello illuminista del giudice pura bocca della legge in un modello ingenuamente o ideologicamente soggettivistico. La battaglia culturale è stata – ed è - su più fronti.
2. Nel 1981 Bruti Liberati viene eletto al Consiglio superiore della magistratura, nella lista di MD. Alla scadenza (1986) ritorna a Milano, alla Procura, e poi, dal 1992, alla Procura generale. Ritornerà alla Procura nel 2005, quale procuratore aggiunto, poi Procuratore capo dal 2010.
In un recente scritto dedicato alla ANM e alle correnti della magistratura, Bruti Liberati dice con autoironia di essersi “iscritto da giovane al Comitato centrale della ANM e a quello di una delle correnti, Magistratura Democratica”. Nella ANM è stato vicepresidente (1991), segretario generale (1988-1991 e 1995-1996), Presidente dal 2002 al 2005. Era in discussione, in quel periodo, la riforma dell’ordinamento giudiziario del ministro Castelli, per la cui modifica l’ANM si è impegnata con buoni risultati. Testimonianza di quel periodo è la relazione introduttiva al 27° congresso nazionale della ANM (Venezia, febbraio 2004).
Edmondo Bruti Liberati è stato attivo nell’associazionismo dei magistrati europei nella associazione MEDEL - Magistrats Européens pour la democratie et les libertés. Impegnato a livello europeo nella cooperazione giudiziaria e nel confronto tra i diversi sistemi giudiziari , come relatore in seminari presso École Nationale de la Magistrature (Francia), Consejo General del Poder Judicial (Spagna), Centro de Estudios Judiciários (Lisbona), ERA Accademia di diritto europeo Trier (Germania), Consiglio d’Europa (in particolare nei programmi diretti ai magistrati dell’Europa dell’Est). È uno dei sette magistrati europei firmatari, nel 1996 dell’“Appello di Ginevra” per “Uno spazio giudiziario Europeo”. Dal 1997 al 2007 Segretario generale della Societé Internationale de défense sociale pour une politique criminelle umaniste, Parigi- Milano. Dal 1999, per sei anni, Componente del Comitato di Sorveglianza su OLAF – Ufficio europeo Antifrodi Bruxelles - Unione Europea; nel 2005 Presidente.
Numerosi i suoi scritti dedicati a temi e problemi della magistratura. Fra i tanti, segnalo il contributo alla Storia dell’Italia repubblicana edita da Einaudi (La magistratura dall’attuazione della Costituzione agli anni ’90). La sua personale autorevolezza, nel campo dei problemi della giustizia, è autorevolezza di studioso, indipendente dalle cariche ricoperte.
3. Nello scritto sopra richiamato Edmondo cita una frase di Maranini (il relatore a Gardone ’65) che stimola a ripensare che cosa ci si attende da un magistrato: “saprei essere un mediocre consigliere di cassazione, ma non avrei il coraggio di fare il pretore, perché so che non avrei la necessaria preparazione”. Questa frase che suona paradossale, in controtendenza rispetto all’immagine corrente della gerarchia di funzioni giudiziarie, porta in primo piano il rapporto del giudice con un mondo che non si esaurisce nelle norme di legge. Il giudice di merito giudica su fatti; la preparazione per lui necessaria non è meramente giuridica, la sua responsabilità è innanzi tutto il giudizio sul fatto.
Nel modello illuministico, l’esigenza di un giudice imparziale sta in relazione al giudizio di fatto. Con le parole di Beccaria: è “necessario che un terzo giudichi della verità del fatto. Ecco la necessità di un magistrato, le di cui sentenze siano inappellabili e consistano in mere asserzioni o negative di fatti particolari” (Dei deliitti e delle pene, §. 3). L’idea del giudice ‘bocca della legge’ dà maggiore rilievo al giudizio di fatto: “Quando un codice fisso di leggi, che si debbono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni dei cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta, quando la norma del giusto e dell’ingiusto, che deve dirigere le azioni sì del cittadino ignorante come del cittadino filosofo, non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi non sono soggetti alle piccole tirannie di molti […]” (§. 4).
Nella sua vita di magistrato - prima di giudice, poi, molto più a lungo, di Pm – Bruti Liberati non ha cercato il cursus honorum tradizionale del giudice giurista che culmina nella Corte suprema di Cassazione. Si è impegnato nelle funzioni più calate nei fatti: magistrato di sorveglianza, applicatore di nuovi istituti nella dura realtà carceraria; negli anni della maturità, per tre decenni, pubblico ministero, indagatore su fatti e costruttore di ipotesi fattuali, prima che giuridiche.
Come giuristi teorici, i problemi del giudizio di fatto li lasciamo sullo sfondo, senza tematizzarli come problemi della scienza giuridica; come fossero (nel mondo penalistico) di competenza di un sapere poliziesco o tecnico, o semplicemente di senso comune. Da giuristi pratici sappiamo che proprio nell’accertamento dei fatti (prima nell’indagine e poi nel giudizio) e nella qualificazione di fatti concreti, si manifesta in pieno l’impatto della giurisdizione, non solo sulle parti del processo, ma sulla polis.
Contrariamente a quanto sembrano dire discussioni usuali sul rapporto fra giurisdizione e politica, non è dall’esistenza e ampiezza di spazi di ‘creatività’ interpretativa che dipende (nel bene e nel male) la politicità della funzione giudiziaria. La apoliticità (neutralità politica) che si vuole assicurata dai principi costituzionali, è un carattere essenziale della funzione, tanto più necessario quanto maggiore la politicità intrinseca (nel senso nobile del termine) del compito di imparziale attuazione della legge nel caso concreto.
La funzione del giudice imparziale (così Hannah Arendt in un’acuta riflessione su verità e politica[1]) è uno fra gli “importanti modi esistenziali di dire la verità”, accanto all’attività del filosofo, dello scienziato, dell’artista, e di chi indaga sui fatti: lo storico, il testimone, il cronista. E il giudice: la giurisdizione ha a che fare con il dispotismo e la fastidiosa contingenza di verità fattuali che per la politica rappresentano un limite indisponibile, “al di là dell’accordo e del consenso”. Il giudice imparziale è vincolato a verità di fatto che ‘fanno resistenza’ a qualsiasi potere, anche al potere del demos, e vincolato a valutazioni normative che sono il prodotto di decisioni della politica, vincoli di legalità che la politica ha posto anche a se stessa nelle forme proprie dello Stato di diritto.
La stessa giurisdizione è però anche esercizio di potere. Sta in ciò una differenza fortissima rispetto agli altri modi di ricerca della verità. I problemi di fondo della giurisdizione hanno a che fare con il suo carattere, ad un tempo, di istituzione di garanzia ed istituzione di potere.
4. Appunto il nesso fra questi due aspetti - garanzia e potere - lega tutti i piani dell’impegno di Bruti Liberati. Nell’attività giurisdizionale, la garanzia di legalità attraverso un corretto uso del potere. Nella politica associativa, l’impegno per una buona strutturazione istituzionale. Su entrambi i piani, l’impegno culturale.
“Potere e giustizia” è il titolo della postfazione di Bruti Libereati a un volume collettaneo intitolato “Governo dei giudici. La magistratura fra diritto e politica”. Siamo nel 1996, dopo gli anni di Mani pulite, in un contesto di polemiche e di tensioni. Bruti Liberati passa in rassegna la letteratura non solo italiana sul ruolo della giurisdizione. Trae da Hamilton (dal Federalist n. 78) una lezione di estrema attualità sul potere giudiziario, più debole rispetto agli altri in quanto diffuso e non accentrato, bisognoso di forti garanzie di indipendenza. Ai problemi di struttura delle istituzioni giudiziarie e all’esercizio del potere giudiziario Bruti Liberati dedica un impegno costante, ugualmente attento alle esigenze di funzionalità e ai limiti del potere (di ogni potere).
Cito ancora dal suo scritto sull’associazionismo giudiziario: “L’impegno nella sede associativa sui grandi problemi della giustizia, a dispetto della persistente cultura corporativa e della proclamata apoliticità costrinse i magistrati ad aprirsi alla nuova realtà della democrazia; si pose ben presto la esigenza di misurarsi in una riflessione sul ruolo del giudice in una società democratica e pluralista e di confrontarsi con il dibattito che sui temi della giustizia si svolge nella pubblica opinione. Il cammino sarà lungo e non senza battute di arresto e passi indietro, ma le dinamiche dell’associazionismo sono sin dal lontano 1945 operanti”.
Il riferimento al lontano 1945 – e non a indirizzi nati in decenni successivi – ricollega il senso dell’associazionismo giudiziario al ritorno della democrazia e all’uso pubblico della libertà di parola sui grandi problemi della giustizia, a dispetto della persistente cultura corporativa e della proclamata apoliticità. Al confronto pubblico sui problemi della giustizia – che sono problemi della polis - i magistrati hanno titolo a partecipare.
Il discorso pubblico (critico) di magistrati su sentenze e atti della magistratura suscitò forti resistenze. È una questione delicata: c’è un problema di salvaguardia dell’imparzialità della funzione giudiziaria (anche dell’apparenza di una reale e affidabile imparzialità), ma anche di riconoscimento della legittimità, per il magistrato, di avere – e di esporre pubblicamente - proprie concezioni sulle questioni di diritto (e non solo su quelle). In proposito Bruti Liberati cita Antonin Scalia, il grande esponente dell’indirizzo più conservatore nella Corte suprema americana. Un giudice senza proprie concezioni sarebbe empty-headed, una testa vuota. L’imparzialità è anche (ha bisogno) di apertura mentale, open-mindness.
Il problema di modi e limiti della partecipazione dei magistrati alla sfera pubblica tocca i rapporti con l’opinione pubblica e il mondo della politica. E tocca i rapporti con i media, sui quali Bruti Liberati dà indicazioni di saggia cautela: il magistrato non interviene, né direttamente né indirettamente, sui casi da lui trattati; non coopera, nemmeno con la sua semplice presenza, a legittimare processi paralleli; se interviene su problemi di diritto o di politica della giustizia, evita scrupolosamente di farsi coinvolgere in logiche di schieramento politico.
La regola dell’astensione, sottolinea Bruti Liberati, vale anche per il Pm. In un mondo ideale a me parrebbe coerente, in via di principio, un’uguale possibilità di rapporto con i media, per i fronti contrapposti del contraddittorio processuale: il pubblico inquirente e accusatore, e i difensori delle parti private. Di fatto (parlo per esperienza vissuta) accade che si formano circuiti fra i media e i Pm, in cui è il Pm a condurre il gioco, e i media amplificano talvolta (in casi molto delicati) risonanze distorcenti dell’attivarsi e dei provvedimenti della macchina giudiziaria.
Il circuito che va dal Pm ai media è un aspetto (e un fattore) della resa della politica al giudiziario, spinta all’estremo dall’idea illiberale - fatta propria da un movimento populista di successo - che un’informazione di garanzia possa, anzi debba essere valutata come di per sé ostativa a funzioni pubbliche. In questo contesto la cautela richiesta e praticata dal Procuratore Bruti Liberati è l’alternativa esemplare al protagonismo improprio di altri e ai teatrini del processo mediatico.
5. Il tema della libertà di parola e del confronto di ragioni è decisivo anche per il rapporto fra magistratura e avvocatura. Innanzi tutto nel processo, il luogo istituzionale in cui si incontrano: luogo di un dare e chiedere e valutare ragioni. Ragioni di diritto, e ragioni di fatto: accertamento di fatti, e interpretazione dei fatti, ricognizione di caratteristiche socioculturali rilevanti per l’incasellamento dei fatti entro il campo di riferimento di una norma.
Il magistrato del Pm è una parte, non un decisore imparziale. Parte imparziale, si dice (o si diceva?). Rappresenta interessi ‘parziali’, contrapposti ad altri: il polo ‘autoritario’ del diritto penale come strumento di tutela coercitiva. Il discorso dell’organo d’accusa, pur vincolato ad una deontologia pubblicistica, può avere bisogno di modularsi secondo strategie processuali, e può farlo legittimamente, in particolare per quanto concerne le tesi interpretative.
Anche per la parte contrapposta – l’avvocato difensore – è stata proposta la formula “imparziale parzialità“[2]. Al di là delle differenze di poteri e doveri del pubblico funzionario e del privato professionista, questa formula paradossale coglie un tratto comune ai ruoli di parte: tutti attraversati dalla tensione fra la parzialità nella rappresentanza d’interessi, la necessità di intelligenza dei problemi, e la pretesa di validità e di riconoscimento intersoggettivo dei propri discorsi in fatto e in diritto, che dà significato alla stessa difesa di interessi di parte.
La teoria giuridica è costruita sulla figura del decisore imparziale, il giudice, sia nella versione del giudice ‘bocca della legge’ sia nelle versioni del giudice che ‘crea diritto’. Il giudice ha il compito di verifica dei fatti, secondo standard che in penale sono particolarmente stringenti, e di ricognizione (o ricostruzione?) di contenuti normativi, secondo criteri di razionalità intersoggettiva e di obiettiva correttezza. Sotto questo aspetto è assimilabile al giurista teorico, ‘accademico’. La coincidenza non è però totale. Il giudice ha una responsabilità per l’esercizio di poteri: accerta fatti, talora formula giudizi prognostici; afferma eventuali responsabilità; applica sanzioni o misure cautelari. Dice il diritto applicabile nei casi decisi; esercita anche poteri discrezionali. Anche la astratta ‘interpretazione di legge’, quando è operata da un giudice nel processo, è esercizio di potere. Le decisioni concrete - le molteplici decisioni dell’insieme dei giudici - toccano corposamente, nel bene e nel male, il mondo dei fatti e della vita delle persone. La giurisprudenza ha una responsabilità istituzionale: per le applicazioni nei casi singoli (nei quali dovrebbe ‘fare giustizia’ risolvendo conflitti in conformità al diritto) e inoltre per la complessiva tenuta della legalità (nomofilachia).
Sul rapporto fra magistratura e avvocatura nel processo penale, vorrei sottolineare l’importanza del principio di soggezione del giudice alla legge, e della riaffermazione che ne è stata fatta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 230 del 2012, contro un’impostazione che credeva di poter desumere dalla giurisprudenza della Corte EDU la retroattività del mutamento giurisprudenziale favorevole. Per la parte del processo, che sostiene un’accusa o si difende davanti al suo giudice, principio di legalità e soggezione del giudice alla legge fondano la possibilità di un confronto di ragioni non vincolato a precedenti fabbricati altrove, e la ragionevole aspettativa (possiamo dire: il diritto?) ad una risposta del giudice che, in diritto, tenga conto delle ragioni prospettate, in particolare di ragioni nuove.
6. Alla pluralità di ruoli e culture professionali nel mondo del diritto si ricollega la riflessione finale sui rapporti fra magistratura e università, cioè sulla cultura giuridica. Giuristi teorici, senza poteri e responsabilità nell’arena processuale o nel traffico giuridico, possono muoversi liberamente nell’esercizio della libertà della scienza, fuori da condizionamenti esterni. Sono però esposti al rischio dell’accademia; talora si occupano di eleganti problemi che non esistono nel mondo dei fatti.
In una splendida scena del Faust di Goethe, che può valere come ironico contributo in un open-day di presentazione dell’università, Mefistofele, travestito da Faust, spiega ad un giovane le caratteristiche delle diverse facoltà. A proposito della teologia dà un suggerimento che potrebbe risultare applicabile in qualsiasi campo aperto a controversie: “La cosa migliore è che seguiate le lezioni di un solo docente e che giuriate sulla parola del Maestro. In tutto e per tutto, tenetevi alle parole! Allora arriverete, attraverso la porta sicura, al tempio della certezza”[3]. Osserva lo studente: ma dietro le parole ci deve pur essere un concetto. Risposta del diavolo: “Proprio là, dove mancano concetti, s’insinua al momento opportuno una parola. Con parole si può discutere bene, con parole si può costruire un sistema, alle parole si può credere perfettamente”.
Per bocca del diavolo, il grande poeta della modernità ci dice che jurare in verba magistri è una tentazione diabolica, e ci mette in guardia dal coltivare una ‘scienza’ che si risolva in costruzioni puramente verbali, presentate come fossero verità importanti. La dogmatica giuridica è esposta a questo rischio.
La scienza giuridica ha bisogno di contatto con la realtà, non solo col diritto in the books, ma anche con la vita del diritto. Bruti Liberati è stato anche docente – di ordinamento giudiziario – nell’Università di Milano Bicocca.
Professori universitari di ruolo possono essere e spesso sono avvocati: professionisti calati nel mondo degli interessi e dei conflitti. Il rivestire toghe diverse – quella dell’accademico e quella del professionista forense - è un’esperienza che, a confronto con quella dell’accademico puro, può essere più ricca, più informata sugli sfondi pratici delle interpretazioni, e trarre proprio dalla vicinanza a interessi e conflitti la materia di riflessioni rilevanti sul piano delle ragioni del diritto. Come avvocati professori utilizziamo, nei diversi contesti, stili diversi, corrispondenti a diverse etiche del discorso, il cui rapporto è strutturalmente problematico.
Credo importante, sia per la scienza che per la pratica del diritto, la capacità di collegare e distinguere linguaggi e ruoli che dovrebbero condividere una comune cultura di base, ed essere consapevoli delle differenze specifiche fra le culture professionali (anche fra la professione di giudice e quella di Pubblico ministero). L’Università potrebbe (dovrebbe) essere luogo di dialogo fra teoria e prassi. Un dialogo che dovrebbe continuare anche nei mondi delle professioni forensi.
L’impresa conoscitiva aspira ad essere, in quanto tale, wertfrei, indipendente da premesse di valore. La scienza giuridica, che è scienza di mondi normativi, richiede la consapevolezza dei fatti e dei valori in gioco nella costruzione, interpretazione, applicazione della legalità. In qualsiasi campo, ma in modo peculiare per il diritto e la scienza giuridica, l’attenzione a dati valori può risvegliare interessi di conoscenza, e additare direzioni d’indagine: “Sono gli interessi culturali, e perciò gli interessi di valore, a indicare la direzione anche al lavoro delle scienze empiriche” (cito da Max Weber, il grande teorico della Wertfreiheit della scienza).
Sia lo studio che la pratica del diritto richiedono, oltre che saggezza ermeneutica, sapere e saggezza sulle cose del mondo (humanarum rerum notitia). Il rapporto fra il diritto e parametri esterni di riferimento (socioculturali, scientifici, et similia) è un campo di problemi che richiederebbe una attenzione mirata, sia nello studio del diritto giurisprudenziale, sia nell’arena giudiziaria.
Al giovane che esita a scegliere la facoltà giuridica, Goethe, per bocca di Mefistofele, dice che non può dargli torto: perché studiare leggi che si susseguono come una eterna malattia? In esse Vernunft wird Unsinn, Wohltat Plage (la ragione diviene assurdo, il bene tormento). Da ciò l’invito di Goethe a riflettere su quel diritto che nasce dentro di noi, di cui nelle facoltà giuridiche ist, leider!, nicht die Frage (purtroppo non si fa questione). Oggi il linguaggio del giusnaturalismo non è più proponibile; ma – ha osservato un rigoroso critico – vi è “un senso di giusnaturalismo per cui sembra che solo l’appello a valori ultimi, trascendenti le leggi positive, da chiunque poste e giustificate, salvi, in ultima e disperata istanza, la libertà della coscienza e insieme l’austerità e integrità della nostra vita morale”[4].
La separazione giuspositivistica del diritto dalla morale è una distinzione concettuale che fonda la possibilità logica di instaurare una relazione tra diritto e morale[5]. Distinguere l’essere del diritto positivo dal dover essere del diritto (la giustizia?) consente di sottoporre il diritto positivo a un controllo critico in nome di valori che lo trascendano. Significa apertura a un pluralismo di valori etici e politici che possano legittimamente confrontarsi, con pari libertà e dignità; significa “rifiuto di ogni visione pangiuridica della realtà sociale, di ogni identificazione di questa con la norma giuridica, di ogni sopravalutazione del compito che spetta al diritto tra i fattori cui è affidato il progresso umano”[6].
Come giuristi, in tutti i ruoli, abbiamo il compito di comprendere e difendere la specifica eticità del diritto. Nel mondo penalistico, il valore della legalità come certezza: certezza del precetto, previa riconoscibilità dell’illecito, il diritto penale come limite invalicabile della politica criminale; il paradigma cognitivo del garantismo, teorizzato da Luigi Ferrajoli, nel quale si incontrano il profilo sostanziale della legalità e il profilo processuale della verifica oltre il ragionevole dubbio.
Separazione/connessione, dunque, fra il mondo artificiale del diritto e il mondo delle cose umane. L’ordine giuridico “vive di presupposti che esso di per sé non può essere in grado di garantire”… “questo è il grande rischio che per amore della libertà (um der Freiheit Willen) lo Stato deve affrontare”[7]. La garanzia è nelle mani – nella responsabilità - di tutti noi.
[1] H. Arendt, Verità e politica, Torino, 2004. Le citazioni che seguono sono da pp. 72, 47, 50.
[2] M. La Torre, Il giudice, l’avvocato e il concetto di diritto, Soveria Mannelli, 2002; Id., Avvocatura e retorica. Tra teoria del diritto e deontologia forense, in Ragion pratica, dicembre 2008, n.31, p. 485s.
[3] Traduzione di G. V. Amoretti.
[4] N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Roma – Bari, 2001, p. 6 (l’edizione originale è del 1965).
[5] A. Baratta, Positivismo giuridico e scienza del diritto penale,Milano, 1966, p. 102. Cfr. anche H. L. A. Hart, Il positivismo e la separazione tra diritto e morale, in Contributi all’analisi del diritto,Milano, 1964, p. 107 s.; U. Scarpelli, Cos’è il positivismo giuridico, Milano, 1965.
[6] A. Baratta, op. cit., p. 20.
[7] E. W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione, Roma-Bari, 2007, p. 53.