L’associazione degli allievi dell’Università degli studi di Milano (Algiusmi) ha scelto Edmondo Bruti Liberati come laureato benemerito per l’anno 2016. Pubblichiamo il suo intervento tenuto in occasione del suo festeggiamento nel convegno Magistratura e società (28 novembre 2016).
1. Premessa
Sono molto grato nei confronti della Algiusmi (Associazione Laureati in Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano) per il riconoscimento che mi viene tributato. Mi riporta indietro di mezzo secolo alla Facoltà di Giurisprudenza che ho frequentato da studente dal 1962 e poi per tre anni di studio e ricerca, prima del mio ingresso in magistratura nel gennaio 1970. Optai allora per la magistratura e non mi sono mai pentito, ma ho ben vivo il ricordo di quei tre anni post-laurea (1967-1969), anni così intensi per la mia formazione. Sotto la guida impareggiabile del burbero, ma così generoso di insegnamento, Pietro Nuvolone ho cercato di acquisire i fondamenti di metodo dello studio e della ricerca.
Poi arrivò il ’68 a turbare quella ovattata atmosfera. Dopo l'occupazione di Lettere e filosofia e l’arrivo di leader come Mario Capanna, anche i moderati di giurisprudenza occuparono la facoltà. In occasione di una tornata di esami, che allora si svolgevano insieme per le cattedre di Delitala e Nuvolone, per evitare la “contestazione” vi fu una strategica ritirata della commissione dall’aula già designata al più defilato istituto di diritto penale. Ma la mossa non poteva sfuggire ai contestatori e gli esami si svolsero in un quadro piuttosto surreale con Delitala, Nuvolone e gli assistenti da un lato del grande tavolo di lettura che vi era allora, gli studenti esaminandi dall’altro lato e in mezzo, seduti sul tavolo, alcuni irriducibili studentesse e studenti contestatori, peraltro compiti e silenziosi, consci del gesto “rivoluzionario” che stavano compiendo.
2. Il ’68 e l’associazionismo dei magistrati
Fu, quello del ’68, oltre l’ubriacatura ideologica, l’inizio di una stagione di profondo rinnovamento nel Paese. Non dobbiamo mai dimenticare la tragedia del terrorismo. Ma il decennio successivo al 1968 fu segnato da una straordinaria espansione delle libertà e dei diritti, come ebbe ad osservare Rodotà, “nel 1970 è possibile un addensamento di atti riformatori che non ha paragoni nella storia repubblicana: vengono approvate le leggi sul divorzio, sul referendum, sullo Statuto dei lavoratori, sui termini massimi di carcerazione preventiva. Ad esse in una stagione riformatrice che si estende per tutto il decennio, seguono le leggi sul diritto del difensore ad assistere all'interrogatorio dell'imputato, (1971); sull'ampliamento dei casi in cui è possibile la concessione della libertà provvisoria, la cosiddetta legge Valpreda (1972); sul nuovo ordinamento penitenziario, sulla riforma del diritto di famiglia (1975); sull'interruzione della gravidanza, sulla chiusura dei manicomi (legge Basaglia, 1978)”[1].
Questa stagione indusse mutamenti profondi nella magistratura, chiamata a confrontarsi con imponenti innovazioni legislative. Ma il ’68 in magistratura era iniziato qualche anno prima.
Nel 1964 all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati, che già vedeva attive due correnti, Magistratura Indipendente e Terzo Potere, si costituì una nuova corrente: Magistratura democratica. Nella mozione costitutiva vennero indicate due prospettive di azione:
1.“Instaurare la nuova tavola di valori scaturita dalla Resistenza e consacrata nella Costituzione”;
2. Rottura della corporazione e apertura alla società. Con il linguaggio di allora: “Evitare impostazioni troppo marcatamente corporative e sindacali”; impedire “al magistrato di sentirsi avulso dal corpo sociale, chiuso nella torre eburnea di un esasperato tecnicismo, o peggio ancora, posto al di sopra del corpo sociale stesso, quale facente parte di una casta depositaria di un potere a sé stante”.
Il XII congresso nazionale dell'Anm si tenne a Gardone nel settembre 1965.
La mozione finale, approvata all’unanimità, muove dal rifiuto della “concezione che pretende di ridurre l'interpretazione ad una attività puramente formalistica indifferente al contenuto e all'incidenza concreta della norma nella vita del Paese” per rilevare che “il giudice, all'opposto, deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un'applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione”[2].
Il congresso di Gardone del 1965 segnò un punto di non ritorno. Il dibattito associativo si misurava ormai con la dimensione politica dell'attività giudiziaria, i magistrati si confrontavano con i grandi problemi del Paese e ridiscutevano il ruolo del giudice in una società che si stava vorticosamente trasformando: l'ideologia della separatezza del corpo veniva messa in crisi.
In altra sede ho ripercorso la storia dell’associazionismo giudiziario in Italia. Mi limito qui ad alcuni cenni. Nel 1909, venne fondata a Milano la Associazione Generale tra i Magistrati Italiani; con il consolidamento del regime fascista e lo scioglimento di tutte le libere associazioni l’Agmi non poteva sopravvivere e nel 1925, rifiutando la trasformazione in sindacato fascista, l’assemblea generale deliberò l’autoscioglimento[3].
La Associazione Nazionale Magistrati si ricostituì, con questa nuova denominazione, alla caduta del fascismo nel 1945.
Il contributo dell'Anm alla elaborazione della Costituzione per la parte riguardante l'ordinamento giudiziario è stato senz'altro importante per la affermazione del principio di indipendenza, ma fortemente condizionato da una visione corporativa. Per fortuna, i costituenti seppero resistere alla gran parte delle sollecitazioni provenienti dalla magistratura, che difendeva l'organizzazione gerarchica con la Corte di Cassazione al vertice ed a questa avrebbe voluto attribuire il controllo di costituzionalità delle leggi; quanto al Csm lo si sarebbe voluto formato esclusivamente da magistrati, con esclusione di ogni presenza di laici.
L'impegno nella sede associativa sui grandi problemi della giustizia, a dispetto della persistente cultura corporativa e della proclamata “apoliticità”, costrinse i magistrati ad aprirsi alla nuova realtà della democrazia. Si pose ben presto la esigenza di misurarsi in una riflessione sul ruolo del giudice in una società democratica e pluralista e di confrontarsi con il dibattito che sui temi della giustizia si svolgeva nella pubblica opinione.
Il cammino sarà lungo e non senza battute di arresto e passi indietro, ma le dinamiche dell'associazionismo sono operanti sin dal lontano 1945.
Due poli convivono da sempre nell’Anm: rivendicazione di indipendenza e apertura al dibattito sui problemi della giustizia che pone l'associazione in consonanza con i settori più avvertiti della cultura giuridico-istituzionale, ma insieme ripiegamento su ideologia corporativa. In altre parole tutela degli interessi professionali della categoria e/o impegno per un sistema giudiziario all’altezza della tutela dei diritti.
Entrando in magistratura nel 1970 è stato per me naturale l’impegno nell’associazionismo giudiziario, in Magistratura democratica e nella Associazione nazionale magistrati.
Il mio lungo impegno nell’associazionismo (tra i magistrati viventi credo di detenere il record delle varie cariche direttive rivestite) è stato nel ricercare il punto di equilibrio tra quelle due tensioni che percorrono l’associazionismo. Di qui il rifiuto di chiusure corporative, ma anche il netto contrasto a proposte di riforma ritenute controproducenti per il sistema di garanzia dei diritti. Sono stato Presidente dell’Anm (e di una giunta unitaria) tra il 2002 e il 2005 in un periodo di forte scontro con la proposta di riforma del Ministro Castelli. Gli aspetti negativi qualificanti di quella riforma non passarono perché l'Anm li contrastò con fermezza ma seppe anche fare controproposte, seppe costruire un consenso nella cultura giuridica e seppe evitare di farsi coinvolgere nello scontro politico maggioranza/opposizione. Questa impostazione ho potuto rivendicare nella relazione tenuta come presidente al Congresso Anm di Venezia del 2004[4].
Intendo ora proporre come contributo sul tema “Magistratura e società” alcune riflessioni che ho sviluppato negli anni a partire dalla mia esperienza nella professione di magistrato e nell’impegno nell’associazionismo.
3. Il giudice bocca della legge. Il potere giudiziario invisibile e nullo
Prendo spunto dalla citazione classica di Montesquieu: “I giudici sono soltanto… la bocca che pronuncia le parole della legge, esseri inanimati che non possono regolarne né la forza né la severità. (...) Il potere giudiziario non deve essere affidato ad un corpo permanente… In tal modo il potere giudiziario, tanto terribile tra gli uomini, non essendo legato né a un certo stato né ad una professione, diviene, per così dire, invisibile e nullo”.
Anche se il modello/mito del giudice “bocca della legge” ha resistito a lungo nella ideologia della magistratura tradizionalista, pur dopo il Congresso di Gardone, la creatività giurisprudenziale è un dato di fatto con cui ci si è dovuti confrontare. Ed altrettanto vale per il crescente rilievo che l’intervento giudiziario ha assunto nella vita pubblica.
Nell’analisi non hanno aiutato le espressioni polemiche che hanno spesso dominato il dibattito nostrano: “pretori d’assalto”, “supplenza giudiziaria”, “politicizzazione della magistratura” e tanto meno “anomalia del caso italiano”, tanto spesso e a sproposito evocata.
Basti evocare i titoli di due studi a livello comparato: Giudici legislatori? di Mauro Cappelletti (1984) e The global expansion of judicial power (1995). Nella introduzione i curatori C. Neal Tate e Torbjorn Vallinder sostenevano che il fenomeno della “giudizializzazione della politica nel bene e nel male sembra essere o avviarsi a divenire una delle tendenze più significative delle istituzioni tra la fine del XX e l'inizio del XXI secolo. Essa merita attenta descrizione, analisi e valutazione”[5]. “Descrizione, analisi e valutazione” ci indicano Tate e Vallinder e dal canto suo Cappelletti aveva sottolineato “la permanente tipicità del processo giurisdizionale”[6] richiamandone le caratteristiche essenziali: l’indipendenza e l’imparzialità del giudice, il principio del contraddittorio e la motivazione delle decisioni[7].
Ma le due questioni evocate da Montesquieu mantengono, nella profondamente mutata situazione, tutta la loro validità.
Primo. “Giudice.. bocca che pronuncia le parole della legge” rimane monito ancor più attuale, contro il soggettivismo, l’arbitrio interpretativo, gli spericolati riferimenti, nel settore penale, alla “funzione promozionale del diritto”. Riprendo Pulitanò: “La battaglia culturale è stata ed è su due fronti”. Art. 101 comma 2 della Costituzione: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. L’accento posto, a lungo e meritoriamente, sull’avverbio “soltanto” quale garanzia della indipendenza esterna ed interna, non può cancellare il principio della soggezione alla legge. E pur se la norma nella redazione finale sostituì “giudici” a “magistrati” il principio vale non meno per i pubblici ministeri. Sostituzione, a mio avviso, improvvida, quasi che i magistrati del Pm debbano essere soggetti alla gerarchia interna più che alla legge.
Secondo. Potere giudiziario non più “invisibile e nullo” ma pur sempre potere “tanto terribile tra gli uomini”.
4. L’imparzialità del magistrato
La Corte Costituzionale con le sentenze 60/1969 e 128/1974 ha affermato che “il principio di indipendenza è volto ad assicurare la imparzialità del giudice”. Si pone la questione se la creatività interpretativa (con il riferimento alla tavola di valori della Costituzione e delle Carte internazionali dei diritti) e l’associazionismo dei magistrati, che indubbiamente rende più visibili le opinioni e le opzioni, mettano in crisi l’imparzialità o quantomeno l’apparenza di imparzialità dei magistrati.
Spesso in Italia, nella polemica sulla “politicizzazione” dei magistrati, si è rovesciato l’ordine logico tra realtà ed apparenza. Il Consiglio canadese della magistratura nel 1998 ha pubblicato una raccolta di principi deontologici[8] ove si osserva: “Per imparzialità si intende non solo l’assenza apparente, ma, cosa ancor più fondamentale, l’assenza reale di pregiudizio e di partito preso”[9] ed ancora “la vera imparzialità non esige che il giudice non abbia né simpatia né opinione. Esige che il giudice sia libero di accogliere ed utilizzare i differenti punti di vista mantenendo uno spirito aperto”[10].
In termini molto simili si esprime il Csm francese nel Recueil des obligations déontologiques des magistrats al punto b. 12: “L’imparzialità, nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, non si intende soltanto come assenza apparente di pregiudizi, ma anche e più fondamentalmente, nell’assenza reale di partito preso. Essa esige che il magistrato, quali che siano le sue opinioni, sia libero di accogliere e tener conto di tutti i punti di vista dibattuti dinanzi a lui”[11].
Il punto centrale è l’apertura ad accogliere i diversi punti di vista (Antonin Scalia).
Il tema della imparzialità si pone anche, sia pure in modo particolare, per il pubblico ministero.
Il codice etico dell’Anm (art. 13), riprendendo l’art. 358 c.p.p. detta: “Il pubblico ministero si comporta con imparzialità nello svolgimento del suo ruolo. Indirizza la sua indagine alla ricerca della verità acquisendo anche gli elementi di prova a favore dell’indagato e non tace al giudice l’esistenza di fatti a vantaggio dell’imputato”.
Pm come “parte imparziale” è una definizione oggetto di polemiche, talora di sbrigativi atteggiamenti liquidatori, soprattutto dopo l’adozione nel nostro Paese di un processo di tipo accusatorio. Le semplificazioni non giovano: nel 2001 una studiosa francese ha aperto il suo Etude pour un ministère public européen con queste parole: “Le ministère public reste l’institution pénale la plus diversifiée en Europe”[12].
Auspico che riprenda nel nostro Paese un approfondimento sul ruolo del pubblico ministero, tema sul quale è vivissima la riflessione in convegni, studi e saggi in Francia ed in Belgio, mentre da noi ormai da qualche anno il dibattito si è isterilito nella stantìa ripetizione di stereotipi sulla separazione o meno delle carriere.
Il concetto di indipendenza piena del pm rispetto all’esecutivo è estraneo alla tradizione di molti paesi, che garantiscono l’indipendenza dei giudici, ma negli ultimi decenni vi è stata una straordinaria proliferazione a livello internazionale di testi che pongono il principio dell’imparzialità del pm (declinata con il termine “obbiettività” in lingua inglese)[13]: un espresso riferimento alla imparzialità del pm si trova nell’art. 124 comma 2 della Costituzione spagnola del 1978.
A livello di regole di procedura, il principio della imparzialità del pm si concretizza nel dovere di indagare, secondo la espressione francese, “à charge et à décharge”, concetto ripreso nel nostro art. 358 c.p.p.[14]. Formulazioni analoghe si trovano nel Corpus Juris sulle disposizioni penali per la protezione degli interessi finanziari dell’Unione Europea [15] e nello Statuto del Tribunale Penale internazionale adottato con la Convenzione di Roma del 1998[16].
Tutti questi testi non esitano ad indicare che l’obbiettivo è quello di “stabilire la verità”.
A far giustizia di sbrigative posizioni sul processo accusatorio giova una citazione da un testo del 2001 di Lord Justice Auld (all’epoca presidente di una Royal Commission sulla riforma del processo penale inglese): “Il processo penale non è un gioco. È la ricerca della verità secondo la legge, attraverso una procedura accusatoria nella quale l’accusa deve provare la colpevolezza secondo uno standard particolarmente elevato”[17].
Il tema dell’accertamento dei fatti, la ricerca della verità processuale ci rimanda al principio del contraddittorio.
Paolo Ferrua, in uno scritto pubblicato subito dopo la entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, dopo aver ricordato il significato della verità giudiziale, critica le semplificazioni di chi vorrebbe prospettare “il processo accusatorio come pura soluzione di conflitti tra le parti, dominato da una esasperata disponibilità della prova, da una logica di laissez faire, pronta a sacrificare le esigenze di giustizia sostanziale”.
Osservazione conclusiva: “Si è insistito troppo sul contraddittorio come diritto di difesa, come garanzia individuale; e non si è, con pari forza, evidenziata la sua dimensione pubblicistica di mezzo per l’accertamento della verità, per la corretta ricostruzione dei fatti”[18].
È proprio il riferimento al metodo del contraddittorio come mezzo per la ricerca della verità che fonda la peculiare “imparzialità” della parte pubblica pm.
«La verità… è realmente nota soltanto a chi ha dedicato un’attenzione uguale e imparziale alle opposte ragioni, cercando di vederla il più chiaramente possibile»[19]. Così scriveva J. Stuart Mill il quale proseguiva con una osservazione che propongo di adattare al pm nella fase della indagine preliminare: ”Questa disciplina è così essenziale a una reale comprensione delle questioni morali e umane che se una verità fondamentale non trova oppositori è indispensabile inventarli e munirli dei più validi argomenti che il più astuto avvocato del diavolo riesce ad inventare”. Nella esperienza di pm con responsabilità di coordinamento mi è capitato, nel confronto con colleghi molto appassionati alla loro tesi di accusa, di assumere io il ruolo di avvocato del diavolo, ma non sempre sono stato convincente. Lo stesso Stuart Mill infatti sottolinea che gli argomenti contrari occorre “udirli da persone che ne sono realmente convinte, che li difendono accanitamente e al massimo delle loro possibilità.” Devo dire che in quei pochi casi in cui come avvocato del diavolo ho perso in quel contraddittorio anticipato e simulato, mi è capitato poi che l’avvocato vero nel contradditorio vero davanti al giudice terzo abbia avuto più successo nel contrastare quella tesi accusatoria forzata.
5. Potere/controllo/responsabilità
Il rilievo crescente della giustizia nella società ha reso più vivo il problema della responsabilità/controllo di un potere giudiziario indipendente in un ordinamento democratico.
Domenico Pulitanò in un intervento del 1972 svolgeva una ampia riflessione a partire dalla osservazione che in una democrazia la pubblicità del processo assume la funzione di controllo della pubblica opinione sull’esercizio del potere giurisdizionale che non conosce forme di responsabilità politica, pur assumendo un crescente rilievo nella vita della collettività. Un accento nuovo viene proposto rispetto al principio della pubblicità dei giudizi invocato da Beccaria e Bentham[20].
Il quarto potere, è “cane da guardia” degli altri poteri e dunque del potere giudiziario. L’informazione/controllo sulla giustizia non si riferisce soltanto al processo e alla decisione giudiziaria ma investe oggi sempre più la organizzazione della giustizia, il funzionamento del “servizio giustizia”, come abbiamo visto nel migliore giornalismo.
Di qui la richiesta di rendere conto, di accountability, e la utilizzazione dello strumento del Bilancio di Responsabilità Sociale da parte di Uffici giudiziari.
Nel Bilancio di Responsabilità Sociale della Procura di Milano 2014-2015 un capitolo è dedicato alla comunicazione (La comunicazione della Procura):
“In occasione di indagini di particolare rilievo al comunicato stampa è seguita una conferenza stampa, tenuta negli uffici della Procura della Repubblica, con la partecipazione dei responsabili della o delle forze di Pg interessate. L’obiettivo è di fornire all’opinione pubblica una informazione il più possibile completa su quegli aspetti della indagine che non sono più coperti da segreto e sempre nel rispetto della presunzione di non colpevolezza. Il rispetto della dignità delle persone ha comportato, d’intesa con le forze di polizia, la adozione di precise prassi operative per evitare la ripresa fotografica o televisiva di persone al momento dell’arresto. Nel quinquennio, nonostante siano stati eseguiti numerosi arresti in tema di criminalità mafiosa, terrorismo, corruzione e criminalità economica suscettibili di grande risonanza mediatica, in nessuna occasione vi è stata la diffusione di immagini delle persone”.
Questa è la comunicazione istituzionale, ma i problemi maggiori sorgono per gli interventi sui media dei magistrati, in quanto singoli.
In taluni casi magistrati giudicanti hanno ritenuto di dover dare spiegazioni sulle ragioni di una decisione subito dopo la pronuncia del “dispositivo” e prima del deposito della motivazione. Abbiamo visto poi magistrati del Pubblico ministero che hanno dato il voto, ovviamente negativo, alla sentenza che respingeva la tesi dell’accusa, altri pm si sono impegnati su tutti i media ad autopromuovere le loro indagini e le loro persone.
In un quadro di rigorosa tutela della libertà, costituzionalmente garantita, di manifestazione del pensiero, per il magistrato lo strumento disciplinare non può operare se non in casi estremi, ma assume un rilievo decisivo la deontologia. L'Anm ha adottato nel 1994 un “Codice etico” (emendato nel 2010) il cui art. 6 è dedicato ai Rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa[21].
In un intervento di qualche anno addietro avevo proposto alcune regole essenziali, che sono già state ricordate, ma che non hanno avuto un grande successo[22].
La regola deontologica non è sorretta da sanzioni formali, come quella disciplinare, ma è dalla sanzione, non meno efficace in linea di principio, della disapprovazione da parte del gruppo professionale di riferimento. Non è una caso se vi è in molti paesi una attenzione crescente alla deontologia della magistratura. Ho citato all’inizio le raccolte di Principi deontologici del Csm francese e di quello canadese.
Un magistrato francese, Daniel Ludet, ha proposto una distinzione tra le forme classiche di responsabilità che egli chiama responsabilità-sanzione (responsabilità civile e disciplinare) e le forme di responsabilità in senso più largo, che egli chiama responsabilità-azione[23]: “Alla responsabilità-sanzione, che entra in gioco in occasione di disfunzioni della vita giudiziaria, deve aggiungersi la responsabilità-azione, che deve accompagnare, costituire l’ambiente, animare in permanenza, nel quotidiano, l’esercizio delle funzioni giudiziarie”[24].
Detto con le parole di un magistrato italiano: “L’esercizio di tali rilevanti compiti da parte di giudici e pubblici ministeri garantiti da uno statuto di piena indipendenza richiede piena consapevolezza del ruolo proprio della giurisdizione, elevata qualificazione e competenza professionale, rispetto delle regole deontologiche, massima attenzione alle ragioni degli altri, costume di sobrietà e di rigore istituzionale e professionale[25]”.
7. Conclusione
A fronte di una società civile disgregata e di una politica in crisi di credibilità, con la crescita di populismi variamente declinati, soffia di nuovo in magistratura un vento di chiusura corporativa, pericolosamente coniugato al populismo giudiziario.
Si comprende la disaffezione e frustrazione dei tanti magistrati che operano in condizioni organizzative tali che, nonostante ogni impegno personale, non consentono di assicurare un servizio giustizia efficiente e tempestivo.
Quasi nessuna riforma è a costo zero, lo sappiamo, ma ve ne è una, a saldo addirittura positivo, di cui l’Anm dovrebbe farsi promotrice.
Le sperequazioni nella distribuzione delle risorse nel sistema giudiziario italiano sono inaccettabili. Sul piano della geografia giudiziaria, le soppressioni e gli accorpamenti di Uffici della riforma Severino sono stati importanti ma del tutto insufficienti. Anche il governo tecnico all’ultimo non è stato capace di resistere alle lobby localistiche.
Per fare solo due esempi. Sono assurde quattro Corti di Appello in Sicilia, ma al Nord abbiamo conservato il Tribunale a Lodi, cittadina da cui, come insegna la canzone del Quartetto Cetra, si può ben raggiungere Milano anche a piedi[26].
Devono essere accorpati gli uffici mantenuti solo perché capoluoghi delle peraltro soppresse province, deve esser abbandonata la regola dei tre tribunali per distretto, deve essere stabilito il criterio di una sola Corte di Appello per ogni regione, con l’unica eccezione di due e non più di due distretti per le due più grandi regioni italiane Lombardia e Sicilia.
Su questo tema, un forte impegno dell’Anm (con il sostegno dell’avvocatura) potrebbe contribuire a superare le resistenze localistiche.
Ma oggi in Anm sembra prevalere, a tratti, la chiusura corporativa, il rivendicazionismo spicciolo, l’atteggiamento spocchioso del proporsi come unica istituzione sana del Paese (magistratura vs politica corrotta, magistratura vs avvocatura). Sono posizioni inaccettabili da parte di chi svolge non un ruolo impiegatizio ma è uno dei poteri dello Stato.
E se il populismo della politica è male, il populismo giudiziario è pessimo. La forte denuncia del populismo giudiziario che segnò un intervento del 2012 di Luigi Ferrajoli è più che mai attuale: “L’esibizionismo, la supponenza e il settarismo di taluni magistrati, in particolare pm e il loro protagonismo nel dibattito pubblico diretto a procurare consenso alle loro inchieste e soprattutto alle loro persone”.
Non meno attuali le massime deontologiche che Ferrajoli proponeva: “Il costume di sobrietà e riservatezza”; “la consapevolezza del carattere sempre relativo ed incerto della verità processuale”; “il costume del dubbio, la prudenza nel giudizio, la disponibilità all’ascolto di tutte le diverse e opposte ragioni”; “il rispetto dovuto a tutte le parti in causa, vittime e imputati, pur se mafiosi, terroristi o corrotti”.
E mi permetto di chiosare io: è stato talora paradossale invocare come principio di eguaglianza, applicare ai colletti bianchi la stessa caduta di garanzie, la stessa sciatteria e lo stesso atteggiamento forcaiolo riservato normalmente ai poveri cristi. Ed è anche sotto gli occhi di tutti il rischio, evocato in un recentissimo pamphlet da Costantino Visconti, di “derive di controllo panpenalistico sulle prassi politiche”[27].
Concludo. Il Presidente Mattarella ha sottolineato che “al penetrante potere deve accompagnarsi, a bilanciamento, la umiltà come costante attenzione alle conseguenze del proprio agire professionale con apertura al dubbio sui propri convincimenti, disponibilità a confrontarsi con le critiche legittime”. Ed ancora: “Il magistrato deve scegliere fra le varie opzioni consentite, nella corretta applicazione della norma, con ragionevolezza, quella che comporta minori sacrifici per i valori, i diritti e gli interessi coinvolti”[28].
Il Presidente si rivolgeva ai magistrati in tirocinio ma il monito si deve considerare rivolto a tutti i magistrati che esercitano - per concludere ritornando a Montesquieu - “la puissance de juger, si terrible parmi les hommes”.
[1] S. Rodotà, Le libertà e i diritti, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato Italiano dall’Unità ad oggi, Roma, Donzelli, pp. 356 e 358
[2] Vedi Associazione nazionale magistrati, XII Congresso nazionale. Brescia-Gardone 25-28-IX-1965. Atti e commenti, Roma, Arti grafiche Jasillo, 1966, pp 309-310
[3] Con il ristabilimento della democrazia Vincenzo Chieppa venne riassunto in magistratura e fu uno dei dirigenti della ricostituita Associazione dei magistrati. Il testo del R.D si può leggere ora in E. Bruti Liberati-L. Palamara (a cura di), Cento anni di Associazione Magistrati, Ipsoa, pp. 130-131
[4] Giustizia più efficiente e indipendenza dei magistrati a garanzia dei cittadini. Atti del XXVII Congresso della Associazione Nazionale Magistrati Venezia 5-8 febbraio 2004, (a cura di Edmondo Bruti Liberati), Ipsoa, Milano, 2002
[5] C.N.Tate, T.Vallinder, The global expansion of judicial power: the judicialization of politics, capitolo 1, in The global expansion of judicial power, a cura di C.N. Tate e T. Vallinder, New York, N.Y. University Press, 1995, p.5
[6] M. Cappelletti, Giudici legislatori?, Milano, Giuffrè, 1984, p.1
[7] M. Cappelletti, cit., p.64 e ss.
[8] I testi nella versione francese Principes de déontologie judiciaire e nella versione inglese Ethical principles for judges sono disponibili sul sito di Canadian Judicial Council/Conseil Canadien de la magistrature www.cjc-ccm.gc.ca. I testi del Consiglio Canadese della Magistratura sono particolarmente interessanti perché riflettono il punto di incontro tra le diverse tradizioni di common law e di civil law e tra ordinamenti di magistratura burocratica e di magistratura professionale.
[9] Principes, cit., Commentario A. 3 al principio n. 6, p. 32. La traduzione in italiano di questa e delle successive citazioni da testi francesi e inglesi è mia.
[10] Principes, cit., Commentario A. 4 al principio n. 6, p. 33. Si veda anche, sul tema in generale, N. Rossi, Magistrati, politica, competizioni elettorali, in Questione giustizia, 2005, n. 6, p. 1281
[11] Recueil des obligation déontologiques des magistrats, Conseil Superieur de la magistrature, 2010, p. 9. Il testo integrale è reperibile sul sito del Csm francese www.conseil-superieur-magistrature.fr
[12] A.Perrodet, Etude pour un ministère public européen, Paris, L.G.D.J., 2001
[13] M. Robert, Quale imparzialità per il pubblico ministero?, in Questione giustizia, 2005, 2, p. 402 ss. La raccomandazione 2000 (19) del Consiglio d’Europa sul ruolo del pm nel sistema della giustizia penale prevede che “nell’esercizio delle loro funzioni i pubblici ministeri devono agire in modo equo, imparziale” (art. 24 a). Tutte le figure di pubblico ministero previste nei tribunali internazionali sono dotate di indipendenza. Si veda ad es. art. 42 della Convenzione di Roma del 17 luglio 1998 sul Tribunale penale internazionale: “Il Pubblico Ministero non sollecita né accetta istruzioni da alcuna fonte esterna”.
[14] “Il pubblico ministero… svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”.
[15] Art. 20 co.1 detta: “A fin de permettre la manifestation de la verité et de mettre l’affaire état d’etre jugée, le MPE conduit, à charge et à décharge, les investigation relatives aux infractions definies ci-dessus”.
[16] In ordine ai doveri del Prosecutor all’art. 54.1 detta: ”Il Prosecutor al fine di stabilire la verità deve estendere la investigazione su tutti i fatti e le prove rilevanti per accertare se sussiste una penale responsabilità ai termini di questo Statuto e pertanto deve accertare parimenti le circostanze a favore e contro l’accusa”(“The Prosecutor shall: In order to establish the truth, extend the investigation to cover all facts and evidence relevant to an assessment or whether there is criminal responsibility under this Statute, and, in doing so, investigate incriminating and exonerating circumstances equally”).
[17] In A rewiew of the Criminal Courts of England and Wales, september 2001, www.criminal-courts-rewiew.org.uk, p. 11: “The criminal process is not a game. It is a search for truth according to law, albeit by an adversarial process in which the prosecution must prove guilt to a heavy standard”.
[18] P. Ferrua, Contraddittorio e verità nel processo penale, in P. Ferrua, Studi sul processo penale, Vol. II, Anamorfosi del processo accusatorio, Giappichelli, Torino, 1992, p. 49
[19] John Stuart Mill, Saggio sulla libertà, trad. it. di G. Giorello e M. Mondadori, Il saggiatore, Milano, 1981, p. 63
[20] “Pubblici siano i giudizi e pubbliche le prove del reato” scriveva nel 1764 Beccaria (Dei delitti e delle pene, §XIV) aggiungendo che il segreto è “il più forte scudo della tirannia” (§XV). Nello stesso torno di tempo (1776), Jeremy Bentham osservava “Publicity is the very soul of justice. […] It keeps the judge himself, while trying, under trial […]. Where there is no publicity there is no justice”. (Draught for the organization of judicial establishments, compared with that of the National Assembly, 1776, The Works of Jeremy Bentham, ed. J. Bowring, Edinburgh, 1843, vol. IV, 316).
[21] “Nei contatti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio. Quando non è tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni conosciute per ragioni del suo ufficio e ritiene di dover fornire notizie sull’attività giudiziaria, al fine di garantire la corretta informazione dei cittadini e l’esercizio del diritto di cronaca, ovvero di tutelare l’onore e la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati. Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa. Evita di partecipare a trasmissioni nelle quali sappia che le vicende di procedimenti giudiziari in corso saranno oggetto di rappresentazione in forma scenica”.
[22] a) Il magistrato non interviene, né direttamente, né indirettamente, sui casi da lui trattati; b) il magistrato non coopera, nemmeno con la sua semplice presenza, a legittimare trasmissioni nelle quali si imbastisce il “processo parallelo”; c) il magistrato interviene sui problemi dei diritti e della giustizia, sulla politica della giustizia, evitando scrupolosamente di farsi coinvolgere in logiche di schieramento politico.
[23] Aveva un bavero, Festival di Sanremo 1954 (di Panzeri – Virgilio Ripa) Vittoria Mongardi – Duo Fasano – Quartetto Cetra. Aveva un bavero color zafferano/e la marsina color ciclamino/veniva a piedi da Lodi a Milano/per incontrare la bella Gigogin.
[24] C. Visconti, “La mafia è dappertutto” Falso!, Laterza, Bari-Roma, 2016
[25] D. Ludet, Quelle responsabilité pour les magistrats?, Pouvoirs, n. 74, 1995, p. 119 ss.
[26] D. Ludet, Quelle responsabilité, cit., p. 133