Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Sul rapporto dei magistrati con la società *

di Luigi Ferrajoli
professore emerito di Filosofia del diritto, Università di Roma Tre

1. Consenso o fiducia? 

Il tema delle comunicazioni social dei magistrati rientra nel tema più generale delle loro comunicazioni con il mondo esterno – tra di loro, con i cittadini, con l’opinione pubblica, in breve con la società. Sappiamo tutti che il mondo della comunicazione, nell’età digitale, è totalmente cambiato. Ma questo rende ancor più necessario riflettere sui principi che, a mio parere, dovrebbero informare le comunicazioni sociali dei magistrati. 

Ci sono due tipi di rapporti, tra loro opposti, che i magistrati possono intrattenere con i cittadini, ovvero con la società: due tipi di rapporti che corrispondono ad altrettanti modelli di giudice e di giurisdizione. Il primo tipo di rapporto è quello basato sulla ricerca del consenso. Il secondo tipo di rapporto è quello basato sul valore della fiducia. La tesi che qui sosterrò è che la legittimazione della giurisdizione si basa non sul consenso, ma sulla fiducia.

Il consenso è la fonte di legittimazione del potere politico e delle funzioni di governo, basata, in democrazia, sulla rappresentanza politica espressa dalle elezioni. La fiducia è invece la fonte di legittimazione della giurisdizione e, in generale, di tutte le funzioni e le istituzioni di garanzia. Per la legittimazione della giurisdizione non è necessario, ed anzi è di solito dannoso il consenso delle maggioranze. Ciò che invece si richiede alla giurisdizione, in forza della sua natura tendenzialmente cognitiva e del suo ruolo di garanzia dei diritti delle persone, è la fiducia dei cittadini nei loro giudici: fiducia nella loro onestà, nel loro rigore intellettuale e morale, nella loro competenza tecnica, nella loro capacità di giudizio, nel loro equilibrio e nel loro senso di umanità. 

Consenso e fiducia sono sentimenti tra loro diversi. Il consenso è l’adesione o la condivisione del merito dei provvedimenti giudiziari, frutto talora delle pressioni dell’opinione pubblica e dell’inclinazione dei giudici a soddisfarle: è l’obiettivo perseguito dal populismo giudiziario. La fiducia consiste invece nel confidare nella correttezza, nella soggezione alla legge, nel rispetto delle garanzie e nell’indipendenza dei magistrati. Per mostrare la differenza tra fiducia e consenso, dirò che un magistrato merita fiducia se è capace, grazie alla sua indipendenza, di assolvere quando tutti – la stampa, il potere politico, i partiti, l’opinione pubblica – pretendono la condanna e di condannare quando tutti chiedono l’assoluzione: in breve allorquando, nell’imparziale applicazione della legge, non si fa condizionare dalla ricerca del consenso. Ciò che infatti delegittima la giurisdizione è non tanto il dissenso e la critica, che non solo sono legittimi ma operano come fattori salutari di responsabilizzazione, bensì la sfiducia nei giudici, fino alla paura, generata dalla mancanza di garanzie o, peggio, dalle violazioni di legge proprio da parte di chi dalla soggezione alla legge trae la sua legittimazione. E’ questa paura che fa del potere giudiziario il potere terribile di cui parlò Montesquieu. E la paura è sempre un segno di fallimento della giurisdizione, della quale segnala di solito il carattere arbitrario perché imprevedibile, proprio a causa dell’assenza o della violazione delle garanzie sostanziali o processuali. 

Dunque, consenso e fiducia corrispondono a due tipi di rapporti opposti. Il consenso e le comunicazioni dei magistrati dirette ad ottenerlo – nei social network, alla stampa o alla televisione – rischiano sempre di favorire il populismo giudiziario e, in particolare il populismo giudiziario penale. E il populismo giudiziario è ancor più grave del populismo politico. Il populismo politico, che pure sta avvelenando la nostra democrazia, quanto meno punta all’acquisizione, sia pure spregiudicata, del consenso popolare, che è la fonte specifica di legittimazione del potere politico. Il populismo giudiziario contraddice invece la fonte di legittimazione della giurisdizione, che consiste nella garanzia dei diritti dei cittadini e nella ricerca e nell’accertamento della verità processuale quali fonti della fiducia dei cittadini nel corretto esercizio di queste funzioni. Diciamo che consenso e fiducia rimandano a due classi diversi di interlocutori cui si rivolgono le comunicazioni dei giudici: il consenso è diretto a interlocutori fuori del processo, cioè alla stampa, all’opinione pubblica, ai partiti, alla stessa corporazione giudiziaria; la fiducia è unicamente quella, interna al processo, delle persone che sono o possono essere parti in causa.

Ne discendono una lunga serie di corollari in tema di deontologia giudiziaria e di comunicazioni dei magistrati alla stampa e ai cittadini.

 

2. Rispetto delle parti in causa 

La prima implicazione o condizione della fiducia dei cittadini nella giurisdizione è il rispetto dovuto dai magistrati – giudici o pubblici ministeri – alle parti in causa, prima fra tutte, nel processo penale, all’imputato, chiunque egli sia, soggetto debole o forte, perfino se è un mafioso o un terrorista. C’è un passo bellissimo nel Diario di un giudice di Dante Troisi – un libro scritto 70 anni fa, nel 1955, di cui consiglio a tutti voi la lettura. «Anche gli imputati», scrisse Troisi, «dovrebbero indossare la toga. L’usciere li aiuterà a vestirla per nascondere gli stracci o il doppio petto, la carne livida o la camicia di seta… Un imputato vestito come i giudici e gli avvocati forse imporrà rispetto agli uni e agli altri che non gli prestano attenzione o gliene prestano quel tanto che è necessario per rafforzare l’opinione che già ne hanno. Ognuna delle due parti si palleggia l’imputato con la presunzione di sapere tutto di lui. Con la toga, forse, egli, colpevole o innocente, si vedrà simile a chi lo giudica e lo difende. Sennò questo segno serve unicamente a incutere timore e ad alleggerire le tasche». 

Questo rispetto per le parti in causa, a cominciare dall’imputato, è necessario per due ragioni. In primo luogo per l’asimmetria che sempre deve sussistere tra la civiltà del diritto e l’inciviltà del delitto e nella quale risiede la principale forza della prima quale fattore di delegittimazione morale, di isolamento sociale e perciò di prevenzione penale del secondo. In secondo luogo perché il processo non deve ledere la dignità della persona, garantita ad ogni essere umano dal principio, affermato dall’art. 3, 1° comma della nostra Costituzione, della «pari dignità sociale» di tutti, inclusi perciò gli imputati e i condannati.

 

3. La disponibilità all’ascolto di tutte le parti in causa, e quindi il valore del contradditorio e l’etica del dubbio 

Di qui una seconda regola deontologica sulla quale si basa la fiducia nella giurisdizione: la disponibilità all’ascolto di tutte le diverse ed opposte ragioni, la capacità dei magistrati, giudici o pubblici ministeri, di rinunciare alle proprie ipotesi di fronte alle loro smentite e perciò il dubbio quale abito professionale del magistrato e la prudenza del giudizio – da cui il bel nome “giuris-prudenza” – come stile morale e intellettuale della pratica giudiziaria. 

E’ in questa disponi­bilità dei giudici, ma anche dei pubblici accusatori, ad esporsi e a sottoporsi alla confutazione, sia giuridica che fattuale, da parte di chi è convenuto in giudizio – in breve, l’assunzione del principio popperiano della falsificabilità, quale banco di prova della plausibilità di qualunque tesi empirica – che risiede il valore etico, oltre che epistemologico, del pubblico contraddittorio nella formazione delle prove. Questa disposizione all’ascolto di tutte le opposte ragioni equivale a un atteggiamento di onestà intellettuale, basato sulla consapevolezza del carattere solo relativo della verità processuale: una consapevolezza che peraltro non contraddice, ma al contrario implica e vale a rendere più avvertito e meditato il libero convincimento del giudice richiesto, quale debole surrogato soggettivo, proprio dall’impossibilità di una certezza oggettiva. Essa esprime lo spirito stesso del processo accusatorio, in opposizione all’approccio inquisitorio segnato al contrario dall’arroganza cognitiva e dalla resistenza del pregiudizio colpevolista a qualunque smentita o controprova in forza di quella logica inquisitoria che è la petizione di principio, che opera come filtro selettivo delle prove: credibili se confermano, non credibili se contraddicono l’ipotesi accusatoria, assunta apoditticamente come vera.

Ma veniamo al tema specifico del nostro incontro, quello delle comunicazioni dei magistrati. Come influisce l’alternativa tra fiducia e consenso sulla deontologia delle comunicazioni? Mi pare che si debba distinguere, in proposito, due tipi di comunicazioni dei magistrati: le comunicazioni giudiziarie, all’interno del processo, e quelle extra-giudiziarie, dirette alla stampa e all’opinione pubblica.

 

4. Fiducia o consenso perseguiti dalle comunicazioni giudiziarie. Per la chiarezza e brevità delle motivazioni 

Le comunicazioni più importanti dei magistrati ai cittadini sono quelle che si esprimono nelle sentenze e, più in generale, nei provvedimenti giudiziari. Ebbene, fa parte del rispetto dovuto a tutte le parti del processo, primi tra tutti gli imputati – ed è quindi un presupposto della loro fiducia – l’uso da parte dei magistrati, nel comunicare con loro, di un linguaggio semplice e comprensibile, che eviti quanto più possibile il lessico burocratico e le frasi criptiche e oscure del gergo giudiziario. Troppo spesso sembra che lo scopo di questa anti-lingua nella quale i magistrati comunicano con le parti – nelle convocazioni, nelle ordinanze, nei capi d’imputazione, nelle sentenze – sia quello di non farsi capire. E’ invece un corollario del rispetto dovuto dai magistrati ai destinatari dei loro provvedimenti che tutti gli atti giudiziari, dalle informazioni di garanzia alla formulazione dei capi d’imputazione e alle richieste di rinvio a giudizio siano formulate in un linguaggio semplice e chiaro.

Questo del linguaggio usato dagli organi della sfera pubblica è un problema enorme. Ancor più oscuro, gergale e tortuoso è il linguaggio delle leggi, oggi in decine di migliaia, che spesso danno luogo – con l’inserzione di parole o frasi in altre leggi, o meglio in commi di articoli di altre leggi, indicate soltanto con il numero e l’anno della promulgazione – a testi incomprensibili non soltanto ai comuni cittadini ma perfino a quanti quelle leggi hanno votato senza poterne neppure decifrarne il contenuto. E’ un’incomprensibilità linguistica che mina alla radice la democrazia, sia se riguardata dal punto di vista del legislatore, sia se riguardata dal punto di vista dei cittadini che delle leggi sono i destinatari, e travolge i presupposti stessi dello stato di diritto e della separazione dei poteri. E’ un problema che investe l’esercizio di tutti i pubblici poteri. Anche i provvedimenti amministrativi sembrano scritti, assai spesso per non essere capiti. E tutto questo, mentre offre il terreno di coltura più fecondo alla corruzione e all’arbitrio, crea una distanza incolmabile tra istituzioni e cittadini

Per quanto riguarda il linguaggio giudiziario, il principio deontologico della sua chiarezza e semplicità riguarda soprattutto le motivazioni. Fiducia e consenso ispirano due forme diverse di comunicazione. La fiducia impone che le motivazioni delle sentenze e degli altri provvedimenti siano quanto più possibile brevi, chiare e concise; che siano scritte per essere comprese dalle parti in causa, che sono i soggetti dai quali i giudici devono avere la fiducia, ben più che dai loro difensori o dai giudici dell’eventuale impugnazione, o magari dalla stampa e dalla pubblica opinione, che sono invece i soggetti dai quali i giudici cercano il consenso.

Soprattutto le sentenze di condanna dovrebbero essere in grado di convincere gli imputati della loro fondatezza, mediante l’argomentazione rigorosa della correttezza giuridica delle decisioni e della loro plausibilità fattuale quale risulta da tre elementi: la pluralità delle conferme delle ipotesi accusatorie, la mancanza di credibili smentite e la maggior fondatezza rispetto ad ipotesi esplicative alternative.

Le motivazioni dei provvedimenti giudiziari, richieste dall’art. 111, comma 6° della Costituzione, sono insomma tali solo se chiare, comprensibili e soprattutto convincenti. La loro chiarezza è necessaria non soltanto per il rispetto dovuto alle parti, che devono sempre essere in grado di identificare con certezza le ragioni delle decisioni che le riguardano. E’ imposta, altresì, dal diritto di difesa, che può esercitarsi tanto più efficacemente quanto più tali ragioni, di fatto e di diritto, siano formulate in maniera chiara ed univoca. Le motivazioni dovrebbero perciò limitarsi agli argomenti essenziali, indicando con precisione le fonti di prova e la loro collocazione negli atti processuali, ed evitare inutili digressioni. 

Certamente non sono motivazioni le ragioni dei provvedimenti formulate in maniera stereotipata, talora su moduli a stampa come accade, per esempio, in molti di quelli che autorizzano le intercettazioni o le perquisizioni o convalidano le tante forme di restrizione poliziesca o amministrativa della libertà personale. Ma non lo sono neppure quelle scritte in un gergo burocratico, criptico e oscuro, volutamente incomprensibile per i comuni cittadini. Soprattutto nei grandi processi, le motivazioni, da molti anni, hanno raggiunto le dimensioni di libri interi. In violazione del pur generico art. 426, 1° comma, lett. d) del codice di procedura penale, secondo cui la sentenza deve contenere «l’esposizione sommaria dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata», esse occupano centinaia e talora migliaia di pagine – in prevalenza inutili, frutto assai spesso del metodo del ‘copia e incolla’, con cui le richieste delle parti o dei rapporti di polizia sono integralmente riportate nei provvedimenti dei giudici – nelle quali le parti e soprattutto i non esperti di diritto inevitabilmente si smarriscono.

 

5. Fiducia o consenso nelle comunicazioni extra-giudiziarie. Per il rifiuto del protagonismo giudiziario 

Fiducia e consenso ispirano anche due forme diverse delle comunicazioni extra-giudiziarie dei magistrati con la società. 

La fiducia impone un costume di sobrietà e riservatezza. Impone il riserbo del magistrato in ordine ai processi di cui è titolare e il rifiuto della ricerca del consenso attraverso l’esibizione pubblica della sua attività giudiziaria. La ricerca del consenso, al contrario, nell’odierna società dello spettacolo, è alla base di tutte le forme di protagonismo e di esibizionismo. 

La fiducia che i cittadini, e soprattutto le parti in causa, devono avere nei loro giudici rende peraltro inammissibile – al punto che dovrebbe essere causa di astensione e di ricusazione – che essi parlino dei procedimenti loro affidati, tanto più se in pubblico o peggio in televisione. Ho già detto che ancor più minaccioso del populismo politico, che punta al rafforzamento, sia pure demagogico, del consenso, cioè della fonte di legittimazione che è propria dei poteri politici, è la miscela di populismo politico e di populismo giudiziario che si manifesta nel rapporto corrivo dei giudici con i media, che è in contrasto con le fonti di legittimazione della giurisdizione e diventa ancor più intollerabile quando serve da trampolino per carriere politiche.

Mentre è giusto che i magistrati parlino dei provvedimenti giudiziari dei loro colleghi, ed anzi li critichino con cognizione di causa, è inammissibile che parlino dei processi a loro stessi affidati. Qualunque forma di protagonismo dei magistrati rischia sempre di risolversi in partigianeria e in settarismo, inevitabilmente lesivi dell’imparzialità. La figura del giudice “stella” è la negazione del modello garantista della giurisdizione. Essa non solo contraddice il costume del dubbio quale abito professionale del magistrato, ma rischia di piegare il lavoro giudiziario alla ricerca demagogica della popolarità. L’interesse pubblico, in democrazia, alla massima trasparenza nel funzionamento della giustizia non può andare a detrimento della riservatezza dei magistrati in ordine all’esercizio delle loro funzioni e, soprattutto, della presunzione di innocenza delle persone indagate.

Sotto questo aspetto mi pare che il difficile equilibrio tra il diritto all’informazione da un lato e la riservatezza dei magistrati e il rispetto degli indagati sia stato ben realizzato, in Italia, dall’art. 5 del d. lgs n. 106 del 2006, modificato, a seguito della direttiva europea n. 343 del 2016, dall’art. 3 del d. lgs n. 188 del 2021. Questa norma riserva ai capi delle procure i rapporti con la stampa, ai quali peraltro impone limiti rigorosi: «il procuratore della Repubblica» dice il primo comma, «mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell’ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione, esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa. La determinazione di procedere a conferenze stampa è assunta con atto motivato in ordine alle ragioni di pubblico interesse che la giustificano». Il secondo comma aggiunge che «la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico. Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili». Infine il terzo comma del medesimo articolo stabilisce che «è fatto divieto ai magistrati della Procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio».

 

6. Fiducia e consenso quali basi di due modelli opposti di processo 

C’è un passo illuminante di Beccaria in ordine ai diversi riflessi che la differenza tra fiducia e consenso ha nella logica stessa del giudizio. 

E’ una differenza che dà luogo a due modelli opposti di processo: quello chiamato da Beccaria «processo informativo», basato sulla «indifferente ricerca del fatto» e sulla disponibilità del giudice all’ascolto delle opposte ragioni, quello da lui chiamato «processo offensivo», nel quale, egli scrisse, «il giudice diviene nemico del reo» e «non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose» (Dei delitti e delle pene, § XVII). Si tratta di un rischio prodotto dallo spirito partigiano e settario, frequente in molti pubblici ministeri, che anima spesso le indagini giudiziarie e che, nei casi limite, si esprime nella concezione dell’imputato come nemico e del processo come un’arena nella quale si vince o si perde. Laddove dovrebbe essere chiaro che il pubblico ministero non è un avvocato e il processo non è una partita nella quale, come dice Beccaria, l’inquirente perde se non riesce a far prevalere le proprie tesi.

Si capisce come la tendenza più o meno consapevole al processo offensivo è non solo il principale fattore della regressione della giurisdizione alla logica dell’inquisizione, ma è di solito sollecitata dalla ricerca del consenso. Laddove la fiducia nei giudici e nella giustizia è solo quella generata dalla logica induttiva propria del processo accusatorio, basata sulla parità delle parti in causa e sul loro contraddittorio – la parte attiva gravata dall’onere della prova, cioè delle conferme, quella passiva dotata del diritto di difesa tramite smentite e controprove –, sulla terzietà del giudice e sull’ascolto da parte di tutti delle opposte ragioni.

 

7. La fiducia delle parti – e non il consenso popolare – quali fonti della legittimità della giurisdizione e quali condizioni dell’imparzialità e dell’indipendenza dei magistrati 

Torniamo ora alla tesi di fondo di questo intervento: quello delle due diverse fonti di legittimazione dei pubblici poteri basate sul consenso o sulla fiducia. Il consenso è la fonte di legittimazione delle funzioni politiche di governo. La fiducia dei cittadini, e non il consenso, fonda invece la legittimazione della giurisdizione e il banco di prova del tasso di legittimità dei magistrati. 

Il potere giudiziario è infatti un potere contro-maggioritario: non solo perché è posto a garanzia dei diritti dei cittadini i quali, come ha scritto Ronald Dworkin, sono sempre, virtualmente, contro la maggioranza, ma anche, e soprattutto, perché la fonte di legittimazione della giurisdizione consiste nell’accertamento dei fatti sottoposti al giudizio. E nessun consenso politico – del governo, o della stampa, o dei partiti o della pubblica opinione – può rendere vero ciò che è falso e falso ciò che è vero. Nessun consenso o sostegno politico può surrogare la prova mancante o screditare la prova acquisita di un’ipotesi accusa­toria. In un sistema penale garantista il consenso o il dissenso popolare non aggiungono né tolgono nulla alla legittimità dei giudizi, cioè alla verità o alla falsità, giuridica o fattuale, delle loro motivazioni. Si capisce la tentazione, per i magistrati impegnati in importanti processi, di cedere alle lusinghe degli applausi e all’autocelebrazione come potere buono, depositario del vero e del giusto. Ma questa tentazione vanagloriosa è un vizio che rischia sempre di piegare l’attività giudiziaria alle aspettative della pubblica opinione e dei media, la cui influenza può solo ostacolare il raggiungimento della verità. 

La fiducia forma invece il presupposto di entrambi i valori su cui si fonda la giurisdizione: l’indipendenza e l’imparzialità, l’una e l’altra minacciate dalla ricerca del consenso. Anzitutto l’indipendenza: un magistrato, ho già detto, è indipendente e merita fiducia nella sua indipendenza se è capace, sulla base della cognizione della causa, di assolvere quando tutti chiedono la condanna di condannare quando tutti chiedono l’assoluzione. In secondo luogo l’imparzialità, anche apparente, e perciò il divieto di rapporti con la stampa e l’inopportunità che i giudici vadano in televisione e meno che mai che parlino dei processi da essi stessi gestiti. Ciò non toglie che le loro sentenze, come ho già detto, debbano essere sottoposte al commento e alla critica di chiunque, anche da parte di altri giudici. La critica è infatti un segno e un fattore di responsabilizzazione e di esclusione di qualunque logica corporativa. Del resto, è sull’indipendenza di giudizio e sull’imparziale accertamento del vero quali condizioni della fiducia che si basa l’opposizione di Beccaria tra processo informativo e processo offensivo. 

E’ sulla necessità della fiducia che si basa un primo ordine di garanzie dell’imparzialità: la più ampia ricusabilità del giudice ad opera delle parti, che è un tratto caratteristico del processo accusatorio, affinché i soggetti sottoposti al giudizio non solo non abbiano, ma neppure temano di avere un giudice nemico o comunque non imparziale. Ma anche il pubblico ministero, pur essendo parte e non terzo – e tuttavia parte pubblica – ha il dovere di un distacco istituzionale dagli interessi in gioco nel processo e perciò, in questo senso, dell’imparzialità. Al punto che è tenuto, dice l’art. 358 del nostro codice di procedura, non solo a raccogliere prove a sostegno dell’accusa ma anche a svolgere «accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini». Egli non è un avvocato che vince o perde a seconda che la persona da lui sottoposta ad indagini sia condannata o assolta. Il suo compito è l’imparziale applicazione della legge.

Il secondo ordine di garanzie dell’imparzialità è il radicale rifiuto del diritto penale del nemico e di qualunque forma di settarismo. La giurisdizione non conosce nemici – neppure se terroristi, o mafiosi o corrotti – ma solo cittadini, ed è incompatibile con qualunque conno­tazione partigiana sia del giudizio che dell’ac­cusa. L’idea del nemico nella giurisdizione penale contraddice il ruolo del giudice quale «indifferente ricercatore del vero» voluto da Beccaria e riflette, ma in forma ancor più grave, l’analoga logica dell’amico/nemico che è alla base di tutti i populismi politici e che in questi anni sta avvelenando la vita democratica. Ne risulta un inevitabile pregiudizio colpevolista, che vanifica di fatto tutte le garanzie processuali, sulle quali si basa il processo quale verificazione o falsificazione in concreto delle ipotesi accusatorie: l’onere della prova, la presunzione di innocenza fino a prova contraria, il diritto di difesa e il contraddittorio. 

E’ una logica, quella perversa dell’imputato come nemico e del processo come arena di una lotta contro la criminalità, che oggi risulta amplificata dalla spettacolarizzazione in televisione dei grandi processi, destinata a favorire, in accordo con il colpevolismo quasi sempre prevalente nell’opinione pubblica, il pregiudizio accusatorio.

 

8. La percezione dei magistrati da parte dei destinatari dei loro provvedimenti 

Concludo con un’ulteriore considerazione sulla differenza tra consenso e fiducia nelle diverse forme di comunicazione dei magistrati con la società. Il consenso svanisce. La fiducia e la sfiducia saranno sempre ricordate. Il consenso è effimero, dura il tempo della vicenda giudiziaria e dei giornali che ne parlano. La fiducia e la sfiducia restano. 

Tutti i magistrati dovrebbero perciò temere la sfiducia o peggio la paura delle persone sottoposte al loro giudizio come i principali fattori del loro discredito e della loro perdita di legittimazione. Ho più volte consigliato loro un esercizio mentale: mettersi sempre dal punto di vista di ciascuna delle migliaia di persone – imputati, parti offese, attori, convenuti, testimoni – che essi incontrano nella loro lunga carriera. E’ da tutti costoro che i magistrati saranno sempre, a loro volta, giudicati. Essi non ricorderanno quasi nessuno di loro. Ma ciascuna di queste migliaia di persone ricorderà il suo processo come un’esperienza esistenziale indimenticabile. Ricorderà, valuterà e giudicherà severamente i suoi giudici: la loro imparzialità o il loro pregiudizio e la loro partigianeria, il loro equilibrio o la loro arroganza, la loro umanità o la loro disumanità, il loro rispetto o il loro disprezzo per la persona, la loro capacità di ascoltare le sue ragioni o la loro supponenza o ottusità burocratica. Ricorderà, soprattutto, se quei giudici gli hanno fatto paura o gli hanno suscitato fiducia. Solo in questo secondo caso ne avvertirà e difenderà l’indipendenza come una garanzia dei suoi diritti di cittadino. Altrimenti, possiamo essere certi, egli avvertirà quell’indipendenza come il privilegio di un potere odioso e terribile. 

I giudici dell’ancien régime erano indipendenti, perché proprietari delle loro cariche. Ma erano giudici feroci ed iniqui, e nessuno difese e rimpianse la loro indipendenza perché nessuno aveva fiducia nella loro equità. Intendo dire che non solo il corretto giudizio implica la garanzia dell’indipendenza, ma anche viceversa: la garanzia dell’indipendenza è un valore, e in quanto tale sarà difesa dai cittadini, se e solo se forma il presupposto del corretto processo, cioè del corretto accertamento della verità processuale e sulla garanzia dei diritti delle persone quali fonti di legittimazione della giurisdizione e della fiducia dei cittadini nei loro giudici.

[*]

Relazione al convegno La magistratura e i social network, tenutosi presso il Consiglio Superiore della Magistratura il 16 e 17 maggio 2024

17/06/2024
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10/02/2017