Magistratura democratica
Magistratura e società

Fantastic voyage. Attraverso le specialità del diritto penale

di Carlo Sotis
professore associato di diritto penale nell’Università della Tuscia

La recensione al recente volume di Michele Papa

«Lo studio dei singoli elementi o delle singole note che costituiscono o caratterizzano il reato non può, infatti, essere fruttuoso senza una chiara visione dei nessi che intercedono fra l’elemento che si studia e tutti gli altri, poiché le parti di un tutto sono tra loro distinte, ma non separate»[1].

Con queste parole Giacomo Delitala, nel 1930, apriva Il fatto nella teoria generale del reato, pietra miliare per tutta la successiva riflessione penalistica. Una riflessione, tuttavia, che ha posto grandemente l’attenzione sulle parti e le loro distinzioni, trascurando però il «tutto».

Certo, la storia dei totalitarismi insegna che la visione unitaria del reato ha aperto le porte all’intuizionismo, al diritto penale d’autore e alla perversione della legalità. Sono sacre e indiscutibili quindi le esigenze di procedere ad una scomposizione analitica di stampo oggettivista. Per ciò è stata dedicata moltissima attenzione all’affinamento degli strumenti di scomposizione analitica e si guarda invece con sospetto all’insieme. Il risultato però è che è rimasta negletta la seconda parte dell’ouverture di Giacomo Delitala, cioè che la sistematica deve separare e analizzare distintamente «le parti di un tutto». Il nobile scopo di neutralizzare i rischi delle concezioni unitarie del reato si è raggiunto con la scomposizione analitica, però questa, da sola, perde di vista l’insieme. 

Questa opera di Michele Papa, giunta alla seconda edizione, profondamente ampliata e rinnovata rispetto alla prima del 2017, e di imminente pubblicazione anche in francese (Fantastic Voyage: un penaliste au pays du mal) nella collana Les voies du droit per Presses Universitaires de France e in spagnolo (Fantastic Voyage: a través de la especialidad del Derecho penal) per i tipi di Tirant lo Blanc, ci aiuta a pensare al reato anche come ad un tutto gestalitico, non come mera addizione delle parti. Cerca il senso del reato.  E lo fa facendoci vedere l’invisibile, facendoci "riacquistare la vista".

E ne abbiamo bisogno perché la cultura penalistica è poco attrezzata culturalmente dopo avere scomposto a pensare che un fatto, per integrare un reato, deve corrispondere il suo significato unitario di disvalore. Gli effetti di questo comportano una distorsione del rapporto tra testo interprete, tra legge e giudice, che, sul piano pratico, è stato  efficacemente definito come  «semiosi illimitata»[2], ovvero un’interpretazione letterale che ritiene integrata una fattispecie criminosa quando la portata semantica dei vari frammenti di testo, isolatamente considerati, sono soddisfatti, senza chiedersi però se il fatto così qualificato esprima una (almeno) tendenziale omogeneità di disvalore con altri fatti chiaramente riflessi nella fattispecie. Questo test di assimilazione, di proporzione spesso manca. Gli esempi sono numerosissimi[3], alcuni, quelli più eclatanti, hanno messo a dura prova la giurisprudenza ordinaria e costituzionale (dall’applicazione del sequestro a scopo di estorsione ai c.d. microsequestri a quella del delitto di spaccio ex art.73 del d.P.R. 309/1990 in caso di coltivazione di una piantina di marijuana per uso personale). Per ora, per capirci, ne richiamo uno colorito tra i tanti che offre il libro: la condotta vietata dall’art. 660 c.p. (Molestia o disturbo alle persone) consiste tra l’altro nel fatto di chiunque (…) col mezzo del telefono, per petulanza o altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo». Da un punto di vista letterale è penalmente rilevante «la condotta di chi, solo per dare fastidio, tambureggi insistentemente con il proprio telefono sul braccio del vicino di posto durante una cena» (p. 124)[4]. Chiaro che a ragionare così c’è qualcosa che non torna nell’incastro tra fatto e norma; c’è una perdita di senso. 

Ragionare sul senso in contesto di riserva di legge penale è però molto più complesso che farlo sul significato degli elementi testuali, ed è quindi arduo affermare con solidi argomenti anche in questo caso grottesco che nonostante il fatto sia conforme alla lettera del testo non sia però tipico.  

Il libro di Michele Papa è un grande regalo intellettuale perché ci permette di pensare quel «tutto»; perché cerca il senso.  E non è per nulla facile. É un terreno insidioso, privo in letteratura di premesse, anche ideologiche, condivise e perciò farcito di pericoli e zone d’ombra, è un bosco di difficile esplorazione: riflettere sul tutto gestaltico, cioè non come mera somma delle parti premesse, oggetto, metodo e scopo sono altamente infiammabili e quindi da maneggiare con cura.

Per renderci familiare questo terreno ignoto e inesplorato Michele Papa adotta una soluzione assolutamente originale: ci fa fare un viaggio. Bella scoperta, si dirà; qualunque libro è un viaggio. Vero - almeno per quelli buoni di libri – questo però ci fa fare un viaggio fantastico. Sotto tutti i punti di vista. Perchè è pieno di sapienza, di immaginazione e di fantasia; perché ci fa attraversare mondi che di solito teniamo distanti e che invece il libro mostra quanto siano intrecciati: i testi sacri, l’arte, le scienze cognitive, il diritto, la letteratura, la filosofia del linguaggio, il learning by doing; perchè regale emozioni e sensazioni, perché farlo, questo viaggio, è un vero piacere .

Il piacere credo derivi dal fatto che l’opera, per così dire, “predica bene e razzola bene”: oggetto, metodo, stile e scopo sono in tale armonia da realizzare anche essi un effetto gestaltico nel portare il lettore ora a scoprire mondi nuovi, ora a vedere sotto una nuova luce cose già vissute, ora a mettere a fuoco cose che si rende conto di avere solo intravisto. Con una prosa lieve e dall’andamento rapsodico ogni pagina accende luci senza accecare, associando una grande serietà di pensiero ad uno stile allegro. Non me ne vorrà l’autore (perché è un complimento) ma, per parafrasare quanto scrive a p. 114 questo è un libro che si legge con gusto anche in spiaggia sotto l’ombrellone (con il vantaggio, per restare all’esempio che fa Michele Papa, che il viaggio è sufficientemente intenso da rendere superfluo il Mojito).

L’idea chiave che sorregge il libro è quella che i reati sono species, termine che affonda le sue radici nel campo metaforico della visualità, sono quindi forme immaginali che offrono un orizzonte di senso, producendo una isomorfia di tutte le condotte ad esse riconducibili.

Il viaggio quindi apre con un’escursione sulla parola speciale, sulle sue accezioni. In particolare (p. 14 s.) sulla radice semantica di speciale, che ci porta alla dimensione della visualità, quindi all’idea di immagine, del reato come forma esteriore iconografica.  Da qui nei capitoli due e tre prosegue il viaggio fantastico nella specialità, che tiene il lettore incollato in un balletto di storie, immagini, storie di immagini dei reati. Un’avventura intellettuale da cui il lettore emerge più consapevole su alcuni concetti tanto centrali quanto inafferabili, come fattispecie, tipicità e tipo. In particolare il libro, tra i tanti, ha il grande pregio di segnare la centralità delle fattispecie e della loro dimensione narrativa. Esse sono dei minuscoli racconti dotati di senso: immagini isomorfiche e da questo dipende la loro tipicità. Il capitolo terzo chiude poi con una riflessione invero inquietante, ma ancor più intrigante, sul futuro della fattispecie che poi verrà ripresa in più punti e a cui è dedicato l’ultimo capitolo.

Il capitolo quarto affronta quello che a mio vedere costituisce il problema dei problemi: «le species visivamente rappresentate nella fattispecie incriminatrici costituiscono esse stesse le forme dell’illecito (…) oppure ne sono solo sintomatiche epifanie?» (p. 88)?  La questione è cruciale e per affrontarla l’autore esordisce raccontando della distinzione delle traduzioni della lettera ai tessalonicesi di San Paolo tra la versione latina e l’originale greca. Nella latina San Paolo chiede di «astenersi da ogni cattiva apparenza»,  nella originale greca l’uso del genitivo cambia l’invocazione «nell’astenersi da ogni apparenza di male». Nel primo caso occorre astenersi anche dalle cattive apparenze, cioè dalle sembianze del male, nel secondo solo da quelle condotte che sono il male. Anche qui l’autore affronta il tema facendoci attraversare mondi apparentemente del tutto distanti, da quello dei precetti religiosi a quello degli standard ISO, per approdare sul terreno penalistico a suggerire che la forma dell’illecito (la cattiva apparenza) può non corrispondere alla sostanza dell’illecito (l’apparenza di male). Il tema viene poi ripreso nella seconda parte del capitolo settimo (p. 235 s.) dedicato alle qualificazioni giuridiche multiple (cioè, secondo la terminologia tradizionale, che mette sul proscenio le norme e non i fatti, il tema del concorso di reati) ed è affrontato e ripreso nel capitolo sesto riflettendo sugli scenari in divenire di quello che l’Autore chiama il «collasso semiotico», cioè la crescente incapacità del nostro mondo di dare una forma alle cose e alle azioni e la correlata incapacità quindi di rappresentare in fattispecie i tipi penali. 

La riflessione è emozionante e dato che non si possono riassumere le emozioni non posso che invitare alla lettura, attardandomi qui su una domanda che questo fantastico viaggio induce, ma a cui a me pare non vi sia nel libro risposta. Un punto chiave del rapporto tra forma e sostanza dell’illecito. Imparando a pensare la tipicità viene infatti da chiedersi se questa comporta che un fatto oltre a soddisfare la forma deve anche soddisfare la sostanza o se la sostanza può venire in soccorso di vizi della forma? La domanda in regime di legalità è cruciale perché nel primo caso il tipo è chiamato a ulteriormente selezionare all’interno della cornice tracciata dalla forma, cioè a definire un suo sottoinsieme[5], nel secondo potrebbe agire anche in surroga dei difetti di contenimento della forma.

Si badi che questo libro non nega affatto il valore della legalità e della concezione formale di reato, anzi, esso è un fantastico racconto sulla fattispecie tipica come cifra essenziale del diritto penale. Il suo grande valore è proprio quello di disvelare il reato come un tutto diverso dalla mera somma delle parti, senza sacrificare il valore dell’analisi del reato e della legalità espressa dalla fattispecie. Così ci convince pienamente della idea della sostanza che ritaglia "dentro la forma" un sottoinsieme aprendo a nuovi terreni ciò che già fa l’offensività. Però questa idea fa scattare anche la domanda speculare: quid juris se un fatto esprime ragionevolmente la sostanza dell’illecito, ma in difetto di contenimento della forma?

Per provare a spiegarmi la prendo alla larga. Pensiamo alla frutta. A dei tipi di frutta[6].

Si può fare questa domanda a chiunque, le risposte non cambieranno. Verranno sistematicamente evocati gli “esemplari migliori”: mela, banana, arancia, pera, fragola. Nessuno, dirà mai “l’oliva”.

Eppure l’oliva in quanto frutto dell’olivo soddisfa perfettamente la definizione di frutta[7], però non ci viene a mente perché non ha quelle caratteristiche essenziali che la connotano (es. la dolcezza e la immediata edibilità). Insomma l’oliva della frutta ha la forma, ma non la sostanza. Non è un tipo di frutta ed infatti se ordinassimo ad ottobre in Liguria “frutta di stagione” e ci arrivasse un bel piatto di olive taggiasche saremmo a buon diritto perplessi. E qui Michele Papa ci aiuta a pensare a quel tutto e quindi che i casi come l’oliva sono forma, ma non sostanza, hanno un problema di tipicità.

Pensiamo però alla fragola che, esattamente all’opposto dell’oliva, soddisfa così tanto la tipicità della frutta da costituire un esemplare paradigmatico della categoria. Però la fragola pur essendo un frutto molto tipico arranca rispetto alla definizione, perché i semini stanno sulla buccia e non dentro l’ovario.  E allora la fragola, se una fattispecie legale avesse preso la definizione di frutta riportata in nota potrebbe essere qualificata frutta? 

Chiudiamo il frigo, apriamo il codice e facciamo altri due esempi speculari, così vediamo che il problema è molto serio e parimenti complesso. Sono due esempi noti, quindi mi permetto di andare veloce. 

Chi coltiva una pianta di marijuana per uso personale commette il delitto di coltivazione di sostanze stupefacenti punito dall’art. 73 del d.P.R. 309/1990? La forma contiene il fatto, anzi la condotta del coltivare è considerata dal legislatore condotta univoca del delitto di spaccio, non dell’illecito dell’uso personale; però quella condotta dello spaccio ha lo stampo ma non il tipo, la forma, ma non la sostanza dell’illecito. E qui sono convinto che Michele Papa ha letto con soddidsfazione (ed io con lui) la più recente sentenza delle Sezioni Unite[8], ultimo atto di una saga che va avanti da un quarto di secolo, che afferma, a seguito di un ragionamento intensionale, che non si possono punire queste condotte di coltivazione con il delitto di cui all’art. 73 del d.P.R. 309/1990.

Ma pensiamo ad un caso opposto, parimenti notissimo. L’articolo 416-ter c.p. nella sua formulazione originaria prevedeva: «La pena stabilita dal primo comma dell’articolo 416-bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416-bis in cambio della erogazione di denaro». Però quasi mai il corrispettivo dato dal politico consiste nella dazione del denaro, bensì in favori o promesse di favori (es. concessione di appalti, assunzione di lavoratori, autorizzazioni, finanziamenti pubblici ecc.)[9].  La fattispecie racconta una storia che non esiste, determinando, per tornare all’argomento tratto da Papa nel capitolo terzo una frattura della costante criminologica del tipo; si è cioè formalizzato come tratto caratterizzante un elemento (la promessa di denaro) che non trova riscontro nella realtà empirica, come se si stabilisse che una caratteristica essenziale della frutta è di avere la buccia di colore bluastro. Insomma, si è formalizzata una bugia. Così la giurisprudenza ha finito progressivamente, fino alla riforma del 2014, per intendere per «denaro» anche l’erogazione di “utilità” non immediatamente quantificabili in termine monetari[10]. Il problema è serio perché, i casi tipici stanno fuori dalla forma per difetti della forma manifestamente irragionevoli dal punto di vista empirico. Io resto convinto che anche in casi così delicati la tipicità non possa supplire. In regime di riserva di legge gli unici rimedi sono o la modifica della forma (della legge) o il rinvio incidentale. Ma torniamo al punto: Fantastic Voyage rema a favore, o contro, ragionamenti siffatti, in cui la sostanza supplisce ai vizi della forma? La domanda rimane senza risposta e con essa però anche una prova del fuoco del rapporto tra legalità e proporzione, cioè tra le due anime della tipicità.

Nei capitoli quinto e sesto il libro fa una radiografia delle funzioni della fattispecie. Segnatamente che essa deve essere in grado sia di rivolgersi al destinatario, sia al giudice, sia di dialogare con la cornice edittale («la pena come funzione» dice con una bella formula l’Autore). L’indagine è preziosa perché per un verso ci aiuta a pensare separatamente le due esigenze e a immaginare come potrebbe essere una norma penale che ne assuma solo una delle due e, per altro verso, afferma il ruolo connotativo dell’edittale di pena ai fini dell’interpretazione della fattispecie. Non è poca cosa perché sottotraccia veicola la fattispecie legale tipica connotata anche dalla pena come "unica forma" in grado di assolvere le varie funzioni che l’art. 25 comma 2 della Costituzione assegna alla norma penale.

Nell’ultima parte del capitolo sesto vengono affrontati con spirito visionario alcuni fattori di crisi della specialità del diritto penale: la decodificazione, i sottosistemi e la riserva di codice su cui Papa esprime una posizione critica ritenendolo un esempio di «scheumorfismo» normativo, cioè un qualcosa che del codice evoca la forma senza però averne le caratteristiche, come un pavimento in linoleum “finto legno” (p. 203).

Il capitolo settimo, come già accennato, fa una gita sul terreno del concorso di norme, l’autore, che ha dedicato al tema una importante monografia del 1997, dà prova di notevole understatement dicendo al lettore che si può pure saltare questo capitolo. Io invito a non seguire il consiglio. Il capitolo, per citare le guide verdi Michelin di un tempo, “vaut le voyage”. In esso in particolare viene ribadito come numerosi problemi di interferenza possono essere risolti a monte, sul terreno dell’interpretazione delle norme prima che esse vadano in ballottaggio, valorizzando proprio i profili di tipicità e di offesa. L’indicazione è preziosa perché è indiscutibile, e potrebbe, quindi divenire la premessa condivisa su un terreno, quello del concorso di norme, che sappiamo tutti essere un autentico ginepraio. Anche perché a tutt’oggi di premesse condivise non ce ne sono nella perenne disputa tra chi ritiene che occorre applicarne una sola e quindi si ha concorso apparente di norme (teorie pluraliste) e chi invece ritiene che si ha concorso di norme e quindi che occorre applicarne una sola (teorie moniste).

Nel capitolo finale, come accennato, si immaginano gli scenari del viaggio futuro. Argomentata a più riprese la crisi della fattispecie come riflesso di una più generale crisi di dare una forma al reale si  indaga su quali potrebbero essere le strade da percorrere. Per un verso si ipotizza una via digitale che non attira affatto le simpatie dell’autore poiché corrisponderebbe alla morte della fattispecie e alla sua capacità narrativa e visuale; per un altro verso si ipotizzano via analogiche che, al contrario delle prime, mantengono la loro componente narrativa e visuale. Anche qui le luci sono moltissime, dalla realtà aumentata, alle metafore passando per la segnaletica stradale e le moral machine

Con questo si chiude questo viaggio fantastico, che riesce a fare vedere cose non viste o forse solo intraviste.  E che ci fa amare la fattispecie. La tiene in palmo di mano, ce la fa vedere sotto una nuova luce, ci racconta delle sue fantastiche avventure, delle sue virtù, dei vizi e dei tradimenti e ci induce una nostalgia preventiva quando ci impone di immaginare un diritto penale senza fattispecie. Perchè suggerisce a tutti noi che prendersi cura di questa forma iconografica e caratterizzante dell’ingiustizia resta oggi una vitale questione di giustizia penale.

 
[1] G. Delitala, Il «fatto» nella teoria generale del reato, 1930, in Raccolta degli scritti. Diritto penale, I, 1976, p. 9 (corsivo mio).

[2] M. Donini, Il concorso esterno “alla vita dell’associazione” e il principio di tipicità penale in Dir. pen. cont., 13 gennaio 2017, p. 5.

[3] Volendo, in questa Rivista espongo la semiosi illimitata dell’art. 439 c.p. in C. Sotis, “Ragionevoli prevedibilità” e giurisprudenza della Corte Edu (n. 4 del 2018).

[4] I richiami di pagina tra parentesi sono al libro qui recensito.

[5] Così W. Hassemer, Fattispecie e tipo. Indagini sull’ermeneutica penalistica, Napoli, 2007 (1968), p. 183 s.

[6] L’esempio lo offre per spiegare quello che in filosofia del linguaggio è chiamto l’effetto di tipicità  E. Lalumera, Cosa sono i concetti, 2009, Bari-Roma, p. 44 s. L’esempio della frutta è particolarmente espressivo di come funziona “effetto di tipicità” perché come tutti sappiamo sin dal liceo (si pensi alle sistematiche di Linneo) il mondo animale e quello vegetale, cioè la natura che ci circonda, sono classico terreno di disputa tra conoscenza e qualificazione mediante definizioni e denotazione e conoscenza mediante assimilazione e connotazione: le classificazioni hanno avuto nella storia naturale a partire dal XVIII secolo il loro terreno di elezione. Sulle ragioni per cui è il mondo animale e vegetale, cioè quello della “natura”,  il terreno su cui si sia realizzato il doppio cambio di paradigma (prima nel XVIII con l’abbandono dell’eta classica e poi nel XIX con la ricerca di una riacquisita storicità)  rinviamo alle meravigliose pagine di M. Foucault, Le parole e le cose. Un archeologia delle scienze umane, Milano, 1967, p. 141 s. ( e in part. per l’analisi delle opere di Linneo p. 152 s.). Che il terreno della natura sia quello su cui lo iato è più evidente lo si intuisce anche verificando che un esempio simile è proposto da U. Eco, Vertigine della lista, Firenze, 2012, p. 217 ss.

[7] Questa è la definizione di frutta offerta da uno tra i più autorevoli vocabolari italiani. R. Simone (dir.), Il Treccani, Roma, 2003 «Frutta: Nome collettivo dei frutti commestibili» che a sua volta rimanda a «Frutto»: l’ovario delle angiosperme accresciuto che contiene i semi maturi (derivati dagli ovuli), e le parti del fiore che persistono dopo la fecondazione e racchiudono i semi fino alla loro maturità a suo volta sono definite come "frutti". Ora nonostante in botanica la definizione di frutto sia altamente problematica, è, tuttavia, assolutamente pacifico che l’oliva sia un ovario che contiene il seme e che l’olivo sia un fanerogame angiosperma.

[8] Cass., SS. UU., sent. 19 dicembre 2019 (dep. 16 aprile 2020), n. 12348 pubblicata assieme ad una bella nota esplicativa di C. Bray, Le Sezioni unite dichiarano l’irrilevanza penale della coltivazione di piante stupefacenti finalizzata esclusivamente all’uso personale, in Sistema Penale, 20 aprile 2020.

[9] G. Amarelli, La riforma del reato di scambio elettorale politico mafioso, in Diritto Penale Contemporaneo, 04/05/14, p.4.

[10] Cass. pen. Sez. I, sent., (ud. 30 novembre 2012) 31 gennaio 2013, n. 4901.

25/07/2020
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