Passato il momento e dimenticato l’articolo di Galli della Loggia dedicato al Csm, non sembra però passare l’idea che i magistrati italiani siano limitati nella loro libertà proprio dal Csm e dalla stessa Anm, luoghi in cui le logiche di appartenenza priverebbero di indipendenza e autonomia proprio coloro che istituzionalmente quelle due realtà dovrebbero tutelare.
Vorrei richiamare l’attenzione su una realtà oggettiva che appare, e solo appare, parallela a quella ora descritta: chi ha un minimo di esperienza delle condizioni in cui operano le magistrature degli altri Paesi deve riconoscere che quella italiana gode di una indipendenza dagli altri poteri dello Stato che non ha eguali. Ne gode per una scelta precisa dei nostri Costituenti e per una serie di condizioni favorevoli, in testa alle quali, lo voglio dire subito, colloco l’esistenza di un’associazione professionale unica ma divisa in gruppi che esprimono culture e sensibilità diverse.
Quando parlo degli altri Paesi mi riferisco sia alle monarchie (non costituzionali), che nei fatti vedono la giustizia amministrata da legatari o funzionari del Re, sia ai Paesi governati da una palese oligarchia, dove la magistratura gode di un mero simulacro di indipendenza, sia ai Paesi governati da una oligarchia di fatto, dove tutto l’apparato costituzionale e legale non garantisce affatto trasparenza nel reclutamento e nelle nomine e non tutela i giudici che assumano decisioni sgradite (cosa che diviene tanto più rara quanto più gli esempi forniti dalle sanzioni inflitte ai colleghi prevengono le velleità e il coraggio degli altri). Ma non è solo questo, perché alcuni Paesi profondamente democratici assegnano si al giudice uno statuto di indipendenza, ma trattengono in varie forme il pubblico ministero nell’ottica governativa o comunque in una condizione di indipendenza controllata.
Pensavo a questo leggendo l’intervento che sul New York Times denunciava la condizione in cui versano i giudici distrettuali. Si tratta di un commento importante perché viene da un ex giudice distrettuale del Distretto Sud di New York, quello che ha competenza su Manhattan e aree limitrofe. Scrive, dunque, Shira A.Scheindlin che quello che sta accadendo negli Usa è di rilevante gravità. Non solo il Senato americano sta bloccando la nomina di colui che dovrebbe sostituire il giudice Scalia, così lasciando per un tempo incredibilmente lungo la Corte Suprema in una composizione di otto membri e mettendola in grandissima difficoltà (già si sono verificati casi di impasse che hanno costretto la Corte a restituire gli atti ai giudici di merito), ma la medesima scelta rinunciataria viene fatta per un numero consistente di giudici distrettuali che il Judiciary Committee ha già valutato positivamente. Questa ultima realtà viene considerata ancora più grave del blocco della nomina del giudice Garland: mentre la Corte Suprema nel 2015 ha incamerato solo 75 casi, le Corti distrettuali ne hanno incamerati 375.000, e la mancata sostituzione di un numero consistente di giudici sta minando seriamente la capacità di risposta di Corti che hanno competenza su questioni di diretta incidenza sui diritti della persona e delle comunità locali, così come su questioni sensibili per la sicurezza nazionale.
Aggiunge, poi, l’autore che, mentre la nomina di un componente della Corte Suprema è oggettivamente carica di significato politico, questo non dovrebbe dirsi dei giudici distrettuali, che possono avere idee diverse tra loro e operano secondo metodi diversi dal giudice, diremmo noi, costituzionale. E invece, la scelta del Senato di rinviare le nomine distrettuali, che dovrebbero essere effettuate in base a esperienza e competenza e non alle idee manifestate dai candidati, carica di fatto anche queste scelte di un significato politico che mina la fiducia dei cittadini nel lavoro delle Corti di merito, a loro più vicine.
Questi argomenti fanno venire in mente una altrettanto interessante analisi che il New Yorker ha effettuato sulla figura e il lavoro di un discusso procuratore, sempre del Distretto Sud di New York. Ricostruitane la brillante ascesa a posizione di prestigio all’interno dell’ufficio di procura e ricordata la fama da lui ottenuta con una serie di indagini in materia di insider trading, l’articolo mette in evidenza le critiche che vennero mosse al magistrato per non avere incriminato negli anni 2009-2012 nessuno dei protagonisti della drammatica crisi finanziaria che colpì Wall Street e tutto il Paese. A queste accuse il magistrato rispose che non aveva trovato prove sufficienti per formalizzare l’accusa; risposta che non ha convinto molti. Questo breve racconto serve per comprendere appieno il senso del commento dell’ex procuratore capo che sulla vicenda ha dichiarato: «Potete in tutta onestà credere che quel magistrato e tutte quelle prime donne dell’ufficio non avrebbero formalizzato le accuse se avessero potuto? Quelli sono casi su cui si costruisce una carriera. Quei casi sono il tuo biglietto vincente. La lotta sarebbe stata per cercare di essere colui che li gestiva. Vi assicuro che non avevamo prove sufficienti».
Infine, un discorso ben più articolato meriterebbe il tema delle relazioni fra capi delle procure e amministratori locali che influenzano la loro nomina, così come quello della elettività dei giudici, ancora vigente in una larga parte degli Stati USA[1].
Questi tre esempi di cosa accade oltreoceano, e cioè in una realtà statale che non può essere discussa sotto il profilo dei fondamenti democratici, dovrebbe far riflettere sulle proposte di modifica del nostro assetto costituzionale, del ruolo rivestito dal Csm e della struttura e composizione di tale organo. Qui non si tratta di banalizzare la questione con il detto «i panni sporchi si lavano in famiglia»; si tratta di capire che ogni alternativa all’autogoverno come lo conosciamo riduce e non accresce gli spazi di indipendenza del singolo magistrato dagli altri poteri.
Senza dover richiamare qui l’esperienza fatta con le ultime elezioni dei componenti laici del Csm e muovendomi su un terreno del tutto diverso, credo che quanto sta accadendo con l’assenza di filtro per la responsabilità civile (e ancora siamo nell’ambito di un contenzioso che alla fine viene deciso dalla magistratura) dovrebbe aprire gli occhi su cosa accadrebbe qualora si riducesse nei fatti il filtro costituito dal Csm rispetto ad altri condizionamenti esterni.
In tema di carriere, poi - anche qui lasciando da parte le normali progressioni su cui ogni influenza esterna è bandita al punto che preferisce ignorare anche le critiche più serie -, penso non sarebbe male dimenticare che negli ultimi anni, per quanto fortunatamente pochi, non sono mancati casi in cui la maggioranza dei componenti togati del Csm ha deciso di non respingere al mittente le indicazioni sulle nomine di capi ufficio in vario modo veicolate da forze esterne, e che questo è accaduto in un sistema che ancora garantisce la piena libertà di scelta dei consiglieri. Si è in presenza, dunque, di un argine istituzionale che, nonostante tutte le garanzie, in condizioni limite non si è dimostrato a prova di pressione. Potrebbero bastare modifiche normative e ordinamentali anche modeste per mettere quell’argine in piena crisi.
Se qualcuno fra noi ritiene che questo assetto del Csm e il nostro associazionismo abbiano fatto il loro tempo si accomodi. I più anziani fra noi potrebbero non avere molto di cui preoccuparsi, ma non è così per molti di quelli che, partendo dalle obiettive serie criticità della nostra realtà, arrivano a dire e scrivere cose di cui non controllano gli esiti.
Faremmo tutti bene a guardare fuori dal nostro piccolo recinto e considerare con maggiore attenzione le garanzie vere che rischiamo di perdere, esattamente quelle che altri hanno perduto o non hanno mai avuto.
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* L’Autore esprime in questo articolo opinioni esclusivamente personali.
1 Cfr. mio articolo in Questione Giustizia on line del 15 luglio 2015, PILLOLE CORTE SUPREMA USA / Giudici elettivi e campagna elettorale.