ACQUA: IL MERCATO DEI FUTURES ATTRAE SPECULATORI E MINACCIA DIRITTI UMANI FONDAMENTALI, AFFERMA UN ESPERTO DELLE NAZIONI UNITE
GINEVRA (11 dicembre 2020) – Un esperto delle Nazioni Unite in materia di acqua e diritti umani ha espresso oggi preoccupazioni sulla creazione del primo mercato al mondo di futures sull’acqua, affermando che potrebbe attrarre speculazioni da parte di finanzieri che la tratterebbero come altre merci, quali l’oro e il petrolio.
Il 7 dicembre, il CME Group ha lanciato il primo mercato al mondo per lo scambio di contratti futures sull’acqua, con lo scopo di agevolare gli utilizzatori d’acqua a gestire rischi e a bilanciare meglio le varie domande e offerte d’acqua, nell’incertezza sulla disponibilità di questa che è originata da gravi siccità e inondazioni. Il nuovo contratto future sull’acqua permette a compratori e venditori di fissare il prezzo per la consegna di una quantità prefissata d’acqua ad una data futura.
«Non è possibile attribuire un valore all’acqua nel modo in cui lo si attribuisce ad altre merci quotate», ha dichiarato Arrojo-Agudo. «L’acqua appartiene a tutti ed è un bene pubblico. E’ strettamente legato alla vita e alla sussistenza di tutti, ed è una componente essenziale della salute pubblica», ha dichiarato, indicando l’importanza di avere accesso all’acqua nel quadro della lotta alla pandemia da covid-19.
«L’acqua è già gravemente minacciata dalla crescita della popolazione, dall’aumento della domanda e dal grave inquinamento delle industrie agricole e minerarie, nel contesto di un impatto sempre più grave del cambiamento climatico”, ha dichiarato lo Special Rapporteur sui diritti umani ad un’acqua potabile sicura e ad appropriate fognature. “Sono molto preoccupato dal fatto che l’acqua venga adesso trattata come l’oro, il petrolio ed altre merci quotate nei mercati dei futures di Wall Street».
Oltre che ad agricoltori, fabbriche e utilities che intendano assicurarsi prezzi fissi, un mercato del genere potrebbe attrarre speculatori come hedge funds e banche che intendano scommettere sui prezzi, replicando la bolla speculativa del mercato alimentare del 2008.
«In questo contesto, il rischio è che i grossi attori agricoli e industriali e le grandi utilities siano i soggetti capaci di comprare, marginalizzando e danneggiando settori vulnerabili dell’economia come i piccoli agricoltori», ha detto Arrojo-Agudo.
«L’acqua è senz’altro una risorsa vitale per l’economia – sia per gli attori economici importanti che per quelli più piccoli – ma il valore dell’acqua va oltre questo. L’acqua rappresenta una serie di valori vitali per la nostra società che la logica di mercato non riconosce e, quindi, non può essere in grado di gestire adeguatamente, e tanto meno in uno spazio finanziario così incline alla speculazione», ha detto Arrojo-Agudo.
«Mentre sono in corso dibattiti su scala globale riguardo al valore ambientale, sociale e culturale dell’acqua, la notizia che questa sarà quotata sul mercato dei futures di Wall Street mostra che il valore dell’acqua quale diritto umano fondamentale è oggi a rischio».
Il diritto umano all’accesso ad acqua potabile sicura è stato riconosciuto per la prima volta dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e dal Consiglio per i Diritti Umani nel 2010.
[Pedro Arrojo-Agudo (Spagna) è lo Special Rapporteur sul diritto umano ad acqua potabile e a sistemi di fognature sicure]
DIRITTO, PUBLIC POLICY, PRINCIPI, DOGMI: GOVERNO PUBBLICO DELL’ECONOMIA E FONDAMENTALISMO ANTI-GIURIDICO
Torniamo con la mente al 1980. L’Unione Sovietica è militarmente ed economicamente più potente della Repubblica Popolare Cinese; il primo regime è presidiato da un apparato repressivo non meno efficace di quello che assiste il secondo; l’infrastruttura scientifica ed accademica sovietica – anche a causa dei danni inferti dalla “rivoluzione culturale” – appare assai più stabile e ramificata di quella cinese; la capacità di influenzare la politica ed il dibattito esteri dei sovietici è notevolmente maggiore di quella dei cinesi.
Se ci si domanda come mai oggi l’Unione Sovietica sia uno sbiadito ricordo e la Repubblica Popolare Cinese la nuova superpotenza, la risposta più breve che viene alla mente è: perché i dirigenti di quest’ultima hanno compreso, intorno a quell’epoca, che gli Stati non vivono (e non sono chiamati a morire) per l’affermazione di un principio economico trasfigurato in grundnorm sovra-costituzionale.
In altre parole: la Repubblica Popolare Cinese ha rifiutato di elevare un dogma economico a norma di riconoscimento dell’intero ordinamento giuridico; l’Unione Sovietica, per contro, ha preferito la propria cessazione al riconoscimento del fatto che un principio di politica economica non possa costituire l’invariabile fondamento di legittimazione di una comunità sovrana.
L’Occidente, che ha assistito con soddisfazione al tramonto sovietico, e assiste con disagio e incertezza alla fulminea e apparentemente inarrestabile ascesa cinese, appare pericolosamente incline all’errore moscovita, cosa che appare tanto più sorprendente, quanto più si ponga mente al fatto che, al contrario dei due paesi menzionati in precedenza, esso dovrebbe giovarsi dei vantaggi di un processo decisionale e di una governance democratici.
Ma ripartiamo dal “basso”.
Economia di mercato significa, quanto meno, libero commercio. Il prezzo di beni e servizi è stabilito da un decisore pubblico o dagli attori privati del mercato, in quest’ultimo caso con un grado più o meno ampio di libertà, in dipendenza del carattere più o meno concorrenziale del mercato stesso.
In presenza di un mercato sufficientemente concorrenziale può rivelarsi conveniente concentrare le transazioni che determinano il prezzo di beni o servizi presso luoghi d’incontro, reali o virtuali, tra domanda e offerta. Luoghi di questo genere, che offrano un sufficiente grado di affidabilità in merito al buon fine delle contrattazioni, e producano dei “segnali-prezzo” sufficientemente significativi, possono prendere il nome di borse o, come si preferisce più di recente, di mercati regolamentati.
Che i mercati regolamentati non trattino solo beni di natura finanziaria (valute, azioni, obbligazioni, quote di fondi), bensì anche merci (grano, acciaio, petrolio, diamanti), appare ragionevole, in quanto in entrambi i casi resta preferibile effettuare gli scambi presso strutture che possano assicurare, come detto, un’apprezzabile affidabilità delle contrattazioni e la produzione di buoni “segnali-prezzo”.
Complichiamo un poco il meccanismo illustrato (una struttura centralizzata; qualcuno compra, qualcuno vende), inserendo la variabile temporale. La compravendita non ha effetto immediato, ma è rivolta al futuro (qualcuno compra, qualcuno vende qualcosa che, al momento, non è in proprietà del venditore). Si potrebbe notare che il diritto privato ha già risposto a questa esigenza, e l’osservazione non è né banale, né fuori luogo.
Complichiamo ulteriormente il meccanismo ed immaginiamo che la compravendita riguardante beni futuri possa avere o non avere effettivamente luogo, senza che questo rivesta alcuna rilevanza nell’economia e nella validità dell’affare (ad esempio: invece di riguardare la vendita di un quintale di grano tra un anno, il contratto ha ad oggetto la variazione di prezzo che un quintale di grano subirà tra il momento della stipulazione ed il trecentosessantacinquesimo giorno successivo, senza che le parti siano tenute a vendere o acquistare del grano “reale”). Si potrebbe notare che il diritto privato ha già previsto anche quest’eventualità.
Introduciamo un’ultima complicazione ed immaginiamo che il contratto non abbia più ad oggetto beni o titoli, neppure come base della “predizione” sottostante al futuro spostamento di denaro, ma eventi (il default di uno stato sovrano, una temperatura media superiore, in un certo luogo, ad un determinato valore in un certo mese dell’anno, il mancato pagamento, alla scadenza, di un prestito obbligazionario societario, il verificarsi di un uragano in una certa area del mondo), eventi ai quali la parte contrattuale non deve necessariamente essere interessata (perché non è tenuta a detenere, o ad acquistare, nell’immediatezza o in un momento futuro, titoli di quello stato sovrano, o prodotti che potrebbero essere positivamente o negativamente interessati da temperature anomale, od obbligazioni societarie, o beni che potrebbero risultare danneggiati dall’uragano).
I mercati regolamentati attuali consentono di effettuare tutte queste operazioni, e consentono altresì di “strutturare” operazioni ancora più complesse, combinando le operazioni precedenti tra loro secondo schemi estremamente sofisticati, la cui realizzazione viene demandata a eccellenti matematici, fisici, ingegneri, ecc., oltre che, per quanto di loro competenza, a giuristi ed economisti. In ogni caso, se il prodotto finanziario non ha un “mercato”, può essere predisposto, venduto e acquistato al di fuori delle borse, attraverso operazioni di scambio puntuali, gergalmente definite operazioni “over the counter”.
Quanto precede, unitamente ad altri fattori, ha fortemente indebolito una delle due funzioni originarie e fondamentali dei mercati regolamentati, ovvero, come si ripete, quella di fornire “segnali-prezzo” affidabili. Perché?
Per varie ragioni, tra le quali:
i. i mercati non riflettono più solamente, o anche solo principalmente (per lo meno in taluni casi), le decisioni di quegli operatori economici che siano “prossimi” al bene oggetto di contrattazione (perché, come detto, è possibile investire in titoli legati ad un’azienda, o ad una merce, senza nutrire alcun interesse significativo verso quell’azienda, o quella merce);
ii. sui mercati sono quotati prodotti dalla funzione latamente “assicurativa” (si pensi a quei prodotti legati al default di uno stato sovrano o di una società commerciale, o alla verificazione di eventi naturali), i quali vengono però venduti e acquistati da soggetti insuscettibili di venire danneggiati dal verificarsi dell’evento riguardo al quale il titolo offre protezione (si pensi, in questo senso, a quali sarebbero le conseguenze che deriverebbero dall’autorizzare la sottoscrizione di contratti di assicurazione relativi ad eventi che non possano causare perdite all’assicurato);
iii. i mercati non riflettono più solamente, o anche solo principalmente (per lo meno in taluni casi), decisioni assunte da esseri umani; le determinazioni di vendita e di acquisto sono delegate a programmi informatici, ad “intelligenze artificiali deboli”, che giungono fino a prendere decisioni che l’operatore umano “accetta”, anche senza “comprenderle”, fino a quando si rivelano redditizie;
iv. i mercati non riflettono più solamente, o anche solo principalmente (per lo meno in taluni casi), decisioni che si possano ritenere in qualche modo significativo anche solo “assimilabili” a decisioni teoricamente suscettibili di essere assunte da esseri umani: attraverso quello che viene chiamato l’high frequency trading, gestito da “intelligenze artificiali deboli”, un titolo può essere comprato e venduto (e ricomprato, e rivenduto, e così via) in piccole frazioni di un minuto secondo, con una logica che, se matematicamente e finanziariamente ha senz’altro un senso, in quanto consente (può consentire) un profitto, appare del tutto aliena dalle persone fisiche, siano esse esperte di finanza (anche al massimo livello) o meno;
v. i mercati, per la loro evoluzione tecnologica, e per la varietà e sofisticazione dei prodotti che vi si possono scambiare, sono sempre meno sensibili ad una “supervisione regolatoria” da parte dell’ordinamento giuridico, ed in particolare di agenzie amministrative indipendenti che, non immancabilmente, ma con eccessiva frequenza, appaiono incapaci di “concorrere”, quanto a mezzi umani e finanziari, con le entità “regolate”, e sono interessate negativamente dal fenomeno delle “porte girevoli”, per il quale vi è un continuo interscambio di personale tra entità vigilate e autorità di vigilanza;
vi. i mercati riflettono decisioni d’investimento relative ad una formidabile massa di denaro che, in altri contesti politici, costituzionali, normativi e regolatori, sarebbe stata vincolata all’economia non finanziaria, ciò che porta al mutamento del ruolo dei mercati stessi da “segnalatori” di prezzi a “creatori” di quei fenomeni economici dei quali i prezzi dovrebbero essere il segnale.
L’ipertrofia dei mercati finanziari finisce anche per minarne, più in generale, l’integrità, in quanto le notevoli “barriere all’entrata” che li caratterizzano, rappresentate dai costi organizzativi e dall’ingente disponibilità di liquidità necessari per divenire un player di rilievo, alimentano configurazioni oligopolistiche del “potere di mercato”.
Alla luce di quanto precede è possibile contestualizzare le preoccupazioni espresse dallo special rapporteur delle Nazioni Unite. La “finanziarizzazione” dell’acqua, nell’attuale ambiente dei mercati finanziari, non consiste semplicemente nella creazione di una struttura tecnicamente affidabile per la realizzazione di operazioni di compravendita, capace di fornire indicazioni “economiche” su domanda e offerta. Essa permette ai detentori di quantità poderose di denaro, scarsamente suscettibili di un significativo restraint da parte di legislatori e regolatori statali, o anche sovranazionali, di influire sui cicli dei prezzi idrici senza la necessità di dover dimostrare alcun tipo di interesse “concreto, attuale e legittimo” all’approvvigionamento di determinate quantità d’acqua, potendo facilmente “mettere fuori mercato” (e, quindi, in effetti, "dettar legge" a) quegli attori (comunità locali, piccoli imprenditori, contadini, aziende pubbliche) che si trovino “al margine” degli “scambi”, in quanto sforniti dei mezzi necessari ad operare in uno spazio largamente de-regolato, nel quale il vae victis è troppo spesso il principio reggitore.
La possibilità che entità largamente insensibili alla regolazione dei poteri statali (e sovranazionali) possano determinare il “prezzo” delle risorse idriche - con ciò generando inevitabilmente il rischio d’accaparramento di tali risorse presso un’oligarchia capace, se questa fosse o diventasse la sua finalità o la sua convenienza, di “prendere per sete” (e, conseguentemente, per fame) regioni, paesi e gruppi di paesi - non solo appare in diretta contraddizione con la Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 1803 (XVII) del 14 dicembre 1962, secondo la quale «Il diritto dei popoli e delle nazioni alla sovranità permanente sulle loro ricchezze e risorse naturali deve essere esercitato nell’interesse dello sviluppo della nazione e per il benessere dei popoli degli stati interessati», ma può giungere a minare i presupposti della società internazionale, come espressi dall’art. 2.1 della Carta delle Nazioni Unite, secondo il quale il primo tra i principi sui quali si fonda l’organizzazione consiste nella «eguaglianza sovrana di tutti i suoi membri» (enfasi aggiunta), laddove la sovranità, e la pari sovranità, si riducono a vuota declamazione in assenza dei fondamenti di un vivere, individuale e collettivo, degno e libero dal bisogno.
Ma torniamo al dogmatismo.
Come è possibile che uno scenario francamente inquietante, come quello evocato da una figura che, per il suo ruolo istituzionale di special rapporteur delle Nazioni Unite, non si presta a facili accuse di sensazionalismo o di leggerezza, sia anche solo concepibile, alla luce dello sviluppo del pensiero costituzionale moderno e contemporaneo?
Dopotutto, ove si voglia porre mente alla Costituzione italiana, questa non appare ambigua nel delineare una gerarchia di valori che vede l’attività finanziaria (art. 47, c. 1: «La Repubblica […] disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito», e 41: «L’iniziativa economica privata […] non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale [e può] essere indirizzata e coordinata a fini sociali») subordinata al lavoro “non finanziario” (artt. 1, 35, 36, 37, 38, 39, 40). Né appare ambiguo in alcun senso significativo l’interesse che la Repubblica ha manifestato, con tutto il peso della sua sovranità, nei riguardi della gestione delle risorse naturali (art. 43: «A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale»).
Eppure, c’è qualcosa che, nonostante la piena vigenza degli articoli della Costituzione appena menzionati, “suona falso”, che stride all’orecchio attuale. Cercherò di chiarire di cosa si tratti.
Che la Costituzione italiana, o una qualsiasi carta costituzionale, anche se “rigida” - nel senso in cui riteniamo “rigida” quella italiana - possa “prescrivere” una (e una sola) politica economica, un modello di sviluppo economico (ed uno solo), un assetto dei poteri economici (ed uno solo), è tesi, a mio parere, da rigettarsi. Lo prova lo sviluppo della “costituzione economica” italiana (e di altri paesi europei) dall’immediato secondo dopoguerra ad oggi, caratterizzato dal succedersi di fasi interventiste, nazionalizzatrici, neoliberali, privatizzatrici, durante le quali si sono avvicendate e persino sovrapporte, con la pretesa di porsi in consonanza con lo spirito della carta fondamentale, tanto posizioni quali quelle esemplificate da Costituzione e Socialismo di Carlo Lavagna, quanto approcci reaganiani del tipo “lo stato è il problema”. Un’opinione che ritengo particolarmente chiarificante è stata espressa, in merito, da Massimo Severo Giannini, che ha osservato come «la Costituzione italiana è la Costituzione di uno Stato pluriclasse, e […] come tutte le Costituzioni contemporanee di Stati pluriclasse, essa pone dei principi e delle norme in materia di economia, però si astiene dallo stabilire un disegno organizzativo di assetto dell’economia» (L’Istituzione Borsa: Premesse Costituzionali, Strutture, Funzionalità e Informazione, in Rassegna Parlamentare, 1982, p. 5). Detto in altri termini: il fatto che la “spada” e la “borsa”, ovvero la sovranità politica generale, siano state affidate all’organo rappresentativo di una comunità non limitata da distinzioni di censo, rende costantemente “aperta” la decisione sulle strutture economiche, sui principi di allocazione di beni e risorse, su tassazione e spesa, su moneta e prezzi, perché, appunto, non sarebbe una sovranità politica generale (in senso pieno e proprio) quella sprovvista di “borsa” (e sarebbe assai pericolosa, per motivi che non occorre neppure più immaginare, una semi-sovranità provvista di “spada”, ma privata di “borsa”).
Nello stato costituzionalista pluriclasse, dunque, può dirsi che l’unico precetto economico-costituzionale inscalfibile si risolva nell’antidogmatica affermazione per la quale le decisioni collettive (politiche) relative agli assetti economici non possono conculcare i diritti fondamentali, ciò che lascia un’ampia libertà di scelta al “legislatore economico”.
E di questa libertà di scelta, appunto, l’Occidente (nel senso che il termine aveva negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso) ha fatto largo uso, muovendosi tra economia della ricostruzione, economia del “miracolo”, economia del welfare, economia della “prima crisi petrolifera” e neoliberismo.
Quello che appare significativamente differente nel movimento degli ultimi due decenni, con un’importante accelerazione dal 2008 in poi, è la metamorfosi del neoliberismo da semplice espressione di una tendenza politica e d’opinione dominante (e, in quanto tale, esposta alla critica e al possibile superamento, secondo la volontà eventualmente espressa dagli elettori) a postulato sovra-costituzionale, a grundnorm delle comunità politiche statali, e della stessa comunità internazionale. Secondo questo modo di sentire, la razionalità economica espressa dall’ultraliberismo assurgerebbe a “legge naturale”, a presupposto pre-politico talmente evidente da pretendersi indiscutibile.
Una volta che il dogma si sia radicato in maniera sufficientemente profonda nel discorso pubblico, giornalistico e accademico, il terreno è pronto perché, anche al livello delle letture legislative e costituzionali, si assista a quel “cataclisma epistemico” rappresentato dal rovesciamento dell’esigenza che le interpretazioni si adeguino alla realtà: sarà la realtà a doversi adeguare all’interpretazione dominante – e siccome la realtà raramente le concede questo privilegio, saranno persone e istituzioni a dover ignorare la realtà, in nome del dogma.
E così, se l’economia “reale” dimostra di soffrire degli effetti di un’eccessiva “liberalizzazione” delle attività finanziarie, e di un’eccessiva crescita del settore finanziario dell’economia rispetto ad altri settori produttivi, il problema viene individuato non già in questi eccessi, ma, paradossalmente, nel fatto che il paradigma economico dominante non lo sia ancora in modo davvero compiuto e indiscusso, portando a dimenticare che è la finanza, come l’acqua, a servire l’essere umano.
E che ad ostinarsi a difendere, contro ogni evidenza, una scala di valori irrazionalmente invertita, si sprigiona, del tutto inconsapevolmente, un sentore distinto di Unione Sovietica.