Signor Presidente, Onorevoli Senatori,
il decreto legge 17 febbraio 2017 n. 13 − Disposizioni urgenti per l'accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell'immigrazione illegale − contiene una molteplicità di disposizioni, che incidono variamente sui diversi sistemi normativi che disciplinano i vari aspetti del fenomeno dell'immigrazione.
Con il mio contributo intendo sottoporre alle Commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato talune considerazioni che riguardano più strettamente gli aspetti legati al procedimento di impugnazione dei provvedimenti adottati dalle Commissioni territoriali in materia di riconoscimento della protezione internazionale; in particolare evidenzierò alcuni profili di criticità del procedimento delineato dall'articolo 6, lettera g), del decreto legge, introduttivo di un nuovo articolo 35 bis nel corpo del decreto legislativo 28 gennaio 2008 n. 25; profili di criticità che riguardano sia la compatibilità di tale procedimento con il pieno rispetto del diritto di difesa e del diritto alla pubblicità del giudizio, sia le ricadute che le novità introdotte dal decreto legge possono determinare sul funzionamento della Corte di cassazione.
Preliminarmente, tuttavia, ritengo doveroso evidenziare la positività della parte del decreto legge che prevede la costituzione, presso i tribunali, di sezioni specializzate in materia di immigrazione.
È indubbio che la creazione di sezioni specializzate costituisce la precondizione per poter avviare meccanismi − pure, molto opportunamente, previsti nella disciplina dettata dal decreto in esame − di specializzazione professionale dei magistrati destinati ad occuparsi di questa materia, la cui particolarità richiede certamente un elevato livello di specializzazione di tutti gli operatori che della stessa si occupano, quale che sia la loro specifica funzione.
Sul tema, peraltro, mi pare opportuno sollecitare una riflessione sull'opportunità di ampliare il numero dei tribunali dotati di sezioni specializzate, per esempio prevedendone uno almeno in ogni capoluogo di corte di appello; ciò, sia per venire incontro ad esigenze di prossimità di chi si rivolge alla giustizia civile (che sono comunque esigenze da non trascurare, perché connesse al pieno dispiegamento del diritto di difesa), sia perché la diluizione di questo contenzioso su una platea di uffici giudicanti più ampia di quella prevista nel decreto eviterebbe il rischio di gravare le sezioni specializzate di taluni uffici da sopravvenienze talmente massicce da rendere, per un verso, difficilmente sostenibile il rispetto del breve termine di quattro mesi previsto per la definizione del procedimento in primo grado e, per altro verso, fortemente squilibrato il rapporto tra la sezione specializzata in materia di immigrazione e le altre articolazioni del tribunale.
Ancora due considerazione sulle problematiche di natura organizzativa poste dalla istituzione di sezioni specializzate.
In primo luogo, segnalo l’opportunità di una celere revisione delle piante organiche degli uffici dove saranno costituite le sezioni specializzate, eventualmente con riduzione delle piante organiche degli uffici non destinati ad accogliere dette sezioni e nei quali oggi il contenzioso sull’immigrazione sia di consistenza significativa. Al riguardo evidenzio che il rimedio dell'applicazione extra distrettuale, previsto dall'articolo 11 del decreto, andrebbe contenuto in un orizzonte temporale limitato al compimento della suddetta revisione delle piante organiche, perchè l'applicazione, risolvendosi in uno spostamento di personale meramente transitorio, comporta costi organizzativi a carico dell'ufficio cedente che spesso superano i vantaggi dell'ufficio ricevente. In questa prospettiva, peraltro, esprimo l’auspicio che la disposizione contenuta nel secondo comma dell’articolo 2 del decreto legge − che prevede la possibilità che le sezioni specializzate siano istituite in deroga “alle norme vigenti relative al numero dei giudici da assegnare alle sezioni” − pur ispirata all’apprezzabile intento di dare elasticità all’esercizio del potere organizzatorio del Consiglio superiore della magistratura, non venga utilizzata per legittimare scelte di sottodimensionamento dell’organico delle sezioni specializzate; scelte che potrebbero risultare incompatibili, specialmente se il numero dei tribunali dotati di tali sezioni resterà immutato in sede di conversione del decreto legge, con la gestione dei flussi di contenzioso di cui la relazione di accompagnamento al decreto dà conto.
In secondo luogo, evidenzio l’opportunità di chiarire normativamente i limiti dell’eventuale coinvolgimento dei Got nella trattazione di questi procedimenti, considerando, per un verso, che i componenti delle sezioni specializzate saranno gravati di non indifferenti oneri di formazione professionale e, per altro verso, che, se restasse ferma l’abolizione del reclamo in appello, il giudice di primo grado sarebbe l’unico a conoscere, peraltro in composizione monocratica, dei profili di fatto del contenzioso.
Prima di affrontare i temi più strettamente procedimentali, voglio ancora affidare alla Loro riflessione un dubbio sulla saggezza della disposizione, contenuta nel comma 3 septies dell’articolo 11 del decreto legislativo n. 25/08, introdotto dall’articolo 6, primo comma, lett. a), del decreto legge, che, ai fini della notifica degli atti del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale, attribuisce indiscriminatamente la qualifica di “pubblico ufficiale ad ogni effetto di legge” ai privati cittadini che siano responsabili dei centri o delle strutture di accoglienza ove il destinatario della notifica si trovi.
Venendo, dunque, al procedimento di impugnativa dei provvedimenti adottati dalle Commissioni territoriali in materia di riconoscimento della protezione internazionale, evidenzio subito le due criticità principali: l’adozione di un modello procedimentale camerale tendenzialmente non partecipato, vale a dire con contraddittorio, di regola, esclusivamente scritto, e l’abolizione dell’appello.
In ordine al primo profilo, voglio qui richiamare quanto affermato nel comunicato del 14.2.16 della Sezione Cassazione dell’Associazione nazionale magistrati, che ho l’onore di presiedere, laddove si evidenziano i dubbi di legittimità sollevati, in relazione al principio della pubblicità del giudizio fissato dall'articolo 6 Cedu, dalla tendenziale esclusione del contatto diretto tra il ricorrente ed il giudice nell'intero arco del giudizio; esclusione conseguente alla eventualità della comparizione delle parti in primo grado, all’abolizione del secondo grado ed alla forma camerale non partecipata assunta di regola dal giudizio di legittimità a seguito della riforma recata dalla legge n. 197/16.
Voglio qui ricordare, al riguardo, come la recente ordinanza 10.1.2017 n. 395 della Sesta sezione della Corte di cassazione ha precisato che il principio di pubblicità dell'udienza è di rilevanza costituzionale − in quanto connaturato ad un ordinamento democratico e previsto, tra gli altri strumenti internazionali, appunto dall'art. 6 Cedu − e che tale principio può essere derogato nel giudizio di cassazione, in ragione della conformazione complessiva del procedimento, a fronte della pubblicità del giudizio assicurata in prima o seconda istanza.
Con specifico riferimento alla giurisprudenza della Corte Edu, è certamente vero che, come sottolineato nella relazione di accompagnamento al decreto, le garanzie sottese al diritto al ricorso effettivo dinanzi ad un giudice si modulano differentemente a seconda della natura della materia processuale (penale, civile e amministrativa) e del tipo e grado di giudizio; così come è certamente vero che la garanzia dell’udienza orale - ineludibile per i processi penali − può essere sottoposta a consistenti restrizioni nei processi civili o amministrativi. Ma è altrettanto vero che le limitazioni alle suddette garanzie devono rispondere al principio di proporzionalità; che il procedimento relativo al riconoscimento della protezione internazionale è destinato a concludersi con una decisione che dispiega sui i diritti e sulla vita del richiedente una incidenza del tutto paragonabile a quella di una sentenza in materia penale; che infine, come si ricorda nel paragrafo 6.1 della sentenza della Corte costituzionale 11 marzo 2011 n. 80, il generale orientamento della Corte Edu “si esprime segnatamente nell'affermazione per cui, al fine della verifica del rispetto del principio di pubblicità, occorre guardare alla procedura giudiziaria nazionale nel suo complesso: sicché, a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l'assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta. In specie, i giudizi di impugnazione dedicati esclusivamente alla trattazione di questioni di diritto possono soddisfare i requisiti di cui all'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nonostante la mancata previsione di una pubblica udienza davanti alle corti di appello o alla corte di cassazione (ex plurimis, sentenza 21 luglio 2009, Seliwiak contro Polonia; Grande Camera, sentenza 18 ottobre 2006, Hermi contro Italia; sentenza 8 febbraio 2005, Miller contro Svezia; sentenza 25 luglio 2000, Tierce e altri contro San Marino; sentenza 27 marzo 1998, K.D.B. contro Paesi Bassi; sentenza 29 ottobre 1991, Helmers contro Svezia; sentenza 26 maggio 1988, Ekbatani contro Svezia)”.
La disciplina dettata nel decreto legge appare problematica in relazione all'articolo 6 Cedu (oltre che in relazione al principio del diritto al “ricorso effettivo”, di cui all’articolo 13 Cedu, all’art. 47 della Carta di Nizza, e, nella materia specifica, all’articolo 46 della direttiva 2013/32/UE) proprio perché nell’intero arco della procedura giudiziaria di impugnativa dei provvedimenti delle Commissioni territoriali (materia, va sottolineato, in cui l’accertamento del fatto ha un peso preponderante rispetto al tcnicismo giuridico) non vi è alcuna fase in cui − salve le ipotesi, previste nel comma 11 del nuovo articolo 35 bis del decreto legislativo n. 25/08, di indisponibilità della videoregistrazione del colloquio davanti alla Commissione territoriale o di deduzione di fatti non dedotti in sede amministrativa (previsione, quest’ultima, che si presta, sia detto per inciso, ad abusi e utilizzazioni strumentali) − il richiedente protezione internazionale ha (non la semplice possibilità, rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudicante, ma) il diritto di comparire davanti al suo giudice.
Né appare persuasivo l’argomento speso nella relazione di accompagnamento al decreto si legge che “i tempi dilatati del procedimento sono da ascrivere, in buona parte, al periodo che intercorre tra il deposito del ricorso e la prima udienza, pari, in media, a circa dodici mesi. Si tratta di una fase procedimentale che può essere, di regola, eliminata prevedendo che l’udienza va fissata non in ogni caso ma esclusivamente quando è necessario procedere a specifici adempimenti” (pag. 11). Si tratta di un errore ottico assai frequente, purtroppo, nella legislazione in materia processuale, che scambia la causa con l’effetto.
Il tempo necessario per decidere una controversia non si esaurisce nel tempo dell’ udienza − che, in un ufficio ben organizzato, può essere contenuto in venti/trenta minuti − ma comprende il tempo di lettura degli atti e di studio della controversia, prima dell’udienza, e di redazione del provvedimento decisorio, dopo l’udienza. E sono questi i tempi, che, moltiplicati per il numero imponente di procedimenti di cui si fa menzione nella relazione di accompagnamento al decreto al decreto legge, determinano la dilatazione dei tempi della procedura. È del tutto illusorio immaginare che tagliando l’udienza, si taglino i tempi; tagliando l’udienza, si tagliano soprattutto le garanzie delle parti del procedimento e la garanzia di un giudizio capace di portare ad una comprensione effettiva della vicenda che ne costituisce l’oggetto.
Quanto al secondo profilo, devo ancora richiamare quanto affermato nel citato comunicato del 14.2.16 della Sezione cassazione dell’Associazione nazionale magistrati: la scelta di eliminare del tutto la garanzia dell’appello in materia di diritti fondamentali della persona, qual è il diritto alla protezione internazionale, appare obbiettivamente disarmonica, ai limiti dell’ irragionevolezza, nel quadro di un ordinamento processuale che, come il nostro, prevede tale garanzia per la stragrande maggioranza delle controversie civili, anche di infimo valore patrimoniale o extrapatrimoniale.
Il fatto che nella maggior parte dei paesi europei sia previsto un solo grado di merito non costituisce un argomento dirimente, perché in quei paesi il regime delle impugnazioni è radicalmente diverso dal nostro; in Italia l’appello, pur non essendo costituzionalmente necessario, è tuttavia previsto per la quasi totalità delle controversie e spesso, dove non è previsto, la sua mancata previsione è compensata dalla natura collegale del giudice (si pensi all’articolo 14 della legge n. 150/11, che regola i procedimenti di liquidazione dei diritti ed onorari di avvocato per prestazioni giudiziali civili).
Ma, anche volendo ignorare il carattere fortemente distonico della esclusione dell’appello in procedimenti relativi a diritti fondamentali, all’interno di un sistema che garantisce l’appello anche nelle controversie bagatellari, appare decisivo il rilievo che, come già sopra sottolineato, nei procedimenti relativi alla richiesta di protezione internazionale il nucleo critico fondamentale è costituito dall’accertamento del fatto, per il quale la direttiva 2013/32/UE pone a carico del giudice uno specifico onere di collaborazione nella ricerca dei riscontri di quanto il ricorrente dichiara, in ragione della oggettiva “debolezza” della parte richiedente. Ed è noto che l’accertamento del fatto è precluso nel giudizio di cassazione, cosicché, eliminando l’appello, viene in sostanza rimossa ogni possibilità di correzione degli errori in cui il tribunale possa essere incorso − tanto più se abbia giudicato senza alcun diretto contatto con il richiedente − negli apprezzamenti di fatto.
Quanto, infine, agli effetti dell’abolizione dell’appello rispetto al funzionamento della Corte di cassazione è fin troppo facile prevedere che la stragrande maggioranza dei provvedimenti di rigetto delle impugnative dei dinieghi delle Commissioni territoriali sarà impugnata − anche quando tali provvedimenti non prestino il fianco a censure di violazione di legge o di errores in procedendo − con la deduzione, più o meno appropriata, di vizi motivazionali. Saranno impugnazioni in molti casi destinate al rigetto, anche alla luce dei rigorosi limiti imposti dalla più recente formulazione dell’articolo 360 n. 5 c.p.c.; ma saranno comunque impugnazioni che andranno decise e graveranno sui ruoli della Corte di cassazione.
Dalla relazione di accompagnamento al decreto legge si rileva che nel 2016 i provvedimenti di diniego di riconoscimento sono stati 51.170; se assumiamo questo dato come ragionevolmente costante per qualche anno e se ipotizziamo (ottimisticamente) che solo la metà dei dinieghi amministrativi venga impugnata davanti ai tribunali, è prevedibile, per i prossimi anni, un flusso di sopravvenienze in primo grado di circa 25.000 procedimenti all’anno; se anche solo la metà di tali dinieghi venga confermato dai tribunali, si può prevedere la formazione di uno stock annuo di oltre 10/12.000 decreti di rigetto dell’impugnativa del diniego amministrativo, rispetto ai quali sussisterà un interesse all’impugnazione fortissimo; interesse, peraltro favorito dalla disciplina del patrocinio a spese dello Stato. Se anche solo la metà di tale massa di provvedimenti venisse effettivamente impugnata, le sopravvenienze della Cassazione passerebbe da circa 30.00 a circa 35/36.000 procedimenti all’anno; ciò porrebbe, e non credo di dovermi soffermare ad illustrare questa affermazione, una gravissima ipoteca sulle prospettive di rilancio del funzionamento della Corte di cassazione suscitate dalla riforma del giudizio civile di legittimità recata dalla legge 197/16. E non devo certo ricordare ai Senatori della Repubblica quanto il funzionamento della Corte di cassazione influisca sul funzionamento dell’intero sistema giudiziario.
*La foto di copertina è concessa con licenza creative commons