1. Nel quadro di un più ampio disegno di riforma diretto a contenere il drammatico fenomeno del sovraffollamento carcerario, stigmatizzato ripetutamente dalla Corte costituzionale[1] e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo[2], il legislatore ha ritenuto opportuno modificare anche la disciplina della custodia cautelare in carcere, aggiungendo un ulteriore criterio, ispirato dall’esigenza di rafforzare il principio di proporzionalità[3], per orientare l’esercizio del potere discrezionale del giudice nell’applicazione della misura coercitiva più grave.
L’art. 8 del d.l. 26 giugno 2014, n. 92, entrato in vigore il 28 giugno 2014, ha innovato il previgente testo dell’art. 275, co. 2°-bis, c.p.p., modificando il disposto del primo periodo[4] ed aggiungendone un secondo del seguente tenore: “Non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni”.
La ratio della novella legislativa è riportata chiaramente nella motivazione del testo governativo, con riferimento alla finalità di rendere l’art. 275, co. 2°-bis, c.p.p., coerente con le disposizioni dell’art. 656 c.p.p., in materia di sospensione dell’esecuzione della pena detentiva: si intende evitare l’applicazione della custodia cautelare in carcere nei casi in cui si può ritenere che l’imputato, in caso di condanna irrevocabile, con ogni probabilità non entrerà in carcere, perché l’entità contenuta della pena (non superiore a tre anni) gli consentirà di accedere ad una misura alternativa alla detenzione.
2. Com’è noto, per i condannati a pena detentiva che, al momento del passaggio in giudicato della sentenza, si trovino, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, in stato di libertà o agli arresti domiciliari, l’art. 656 c.p.p. prevede meccanismi di sospensione dell’ordine di esecuzione, diretti ad evitare il loro passaggio in carcere, nei casi in cui la quantità di pena ancora da eseguire sia compatibile con l’accesso alle misure alternative alla detenzione.
Più precisamente, l’art. 656, 5° co., c.p.p., dedicato ai condannati in stato di libertà, prevede che il pubblico ministero sospenda l’esecuzione della pena detentiva, anche costituente residuo di maggior pena, non superiore a tre anni[5]. L’ordine di esecuzione e il decreto di sospensione sono notificati al condannato e al difensore in modo da consentire agli stessi, nei trenta giorni successivi, di formulare l’istanza di concessione di una misura alternativa alla detenzione. In caso non venga presentata alcuna istanza, l’esecuzione della pena avrà corso immediato. Nel caso contrario, la decisione circa la concessione delle misure alternative alla detenzione spetterà al tribunale di sorveglianza.
L’art. 656, 10° co., c.p.p., disciplina la specifica situazione dell’accesso alle misure alternative per i condannati agli arresti domiciliari. Allorquando, nelle ipotesi considerate dall’art. 656, 5° co., c.p.p., il condannato si trovi agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire, il pubblico ministero sospende l’esecuzione dell’ordine di carcerazione e trasmette gli atti senza ritardo al tribunale di sorveglianza perché provveda eventualmente all’applicazione di una delle misure alternative. La procedura risulta del tutto peculiare ed è caratterizzata dall’automatismo della trasmissione degli atti al tribunale di sorveglianza da parte del pubblico ministero contestualmente al provvedimento di sospensione dell’esecuzione, senza la previsione della presentazione da parte del condannato dell’istanza di concessione dei benefici.
Resta inteso che in entrambe le situazioni considerate dall’art. 656, 5° e 10 co., c.p.p., il soggetto potrà ugualmente finire in carcere, se il tribunale di sorveglianza lo riterrà poi immeritevole di espiare la pena al di fuori di un istituto penitenziario. Ciò che però in questo momento occorre sottolineare è come il legislatore, del tutto ragionevolmente, muova nelle ipotesi descritte da una prognosi favorevole circa la concessione dei benefici.
Del tutto diversa è la situazione del condannato che, nel momento in cui la sentenza diviene definitiva, si trovi in stato di custodia cautelare in carcere per il fatto oggetto della condanna da eseguire[6]. L’art. 656, 9° co., lett. b), c.p.p., esclude infatti la sospensione dell’ordine di esecuzione, anche in pendenza della richiesta di concessione di misure alternative, muovendo dalla presunzione che il tribunale di sorveglianza non concederà alcuno dei benefici in parola. E ciò in quanto la persistenza della misura custodiale in carcere al momento del passaggio in giudicato della sentenza è basata sulla sussistenza effettiva di almeno uno dei pericula libertatis tipizzati dall’art. 274 c.p.p., non neutralizzabili mediante misure cautelari meno afflittive, ed, in particolare, del pericolo di reiterazione di condotte delittuose e/o del pericolo di fuga[7].
Orbene, le norme che disciplinano l’accesso del condannato alle misure alternative alla detenzione presuppongono, invece, l’inesistenza del pericolo di reiterazione del reato e del pericolo che il condannato si renda irreperibile: l’art. 47, 2° co., della l. 26 luglio 1975, n. 354, stabilisce che l’affidamento in prova è concesso “… nei casi in cui si può ritenere che il provvedimento … assicuri la prevenzione del pericolo che (il condannato) commetta altri reati”; l’art. 47-ter, co. 1°-bis, della l. 26 luglio 1975, n. 354, stabilisce che la detenzione domiciliare può essere concessa “… quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati”; l’art. 1, 2° co., lett. d), della l. 26 novembre 2010, n. 199, esclude l’applicabilità della detenzione presso il domicilio “quando vi è la concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga ovvero sussistono specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato possa commettere altri delitti ovvero quando non sussista l’idoneità e l’effettività del domicilio anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese”[8].
3. Il novum legislativo introdotto dall’art. 8 del d.l. 26 giugno 2014, n. 92, consente quindi alla disciplina della custodia cautelare in carcere ed a quella della fase esecutiva di svilupparsi nella convergente prospettiva di evitare l’ingresso in carcere degli imputati che, anche qualora condannati, potrebbero beneficiare comunque della sospensione dell’esecuzione di cui all’art. 656, 5° co., c.p.p. Per effetto del nuovo art. 275, co. 2°-bis, c.p.p., nessun indagato e/o imputato subirà il carcere se il giudice (e, prima ancora, il p.m. deputato a promuovere l’azione cautelare) ritiene che la condanna non sarà superiore a tre anni; di conseguenza, i condannati ad una pena fino a tre anni non potranno mai trovarsi in stato di custodia cautelare in carcere nel momento in cui la sentenza diviene definitiva, e quindi nei loro confronti non potrà operare la preclusione di cui all’art. 656, 9° co., lett. b), c.p.p., che – come si è visto - esclude la sospensione dell’esecuzione per i condannati sottoposti a custodia cautelare in carcere nel momento del passaggio in giudicato della sentenza.
L’inedito collegamento tra la risposta cautelare e la fase esecutiva della sanzione, pur dettato dal lodevole proposito deflattivo circa il sovraffollamento carcerario, è stato sottoposto a severe critiche, in quanto è risultato troppo penalizzante delle esigenze cautelari nei casi di conclamate situazioni di inadeguatezza delle misure meno afflittive della custodia in carcere[9].
Una prima serie di rilievi involgono la filosofia di fondo seguita dal legislatore d’urgenza nel governo della disciplina delle misure cautelari: a fronte dell’esigenza di calibrare ogni intervento di riforma sul bilanciamento tra i beni giuridici della libertà personale e della sicurezza della collettività, la novella legislativa pone un rigoroso divieto di applicare la custodia cautelare in carcere anche in presenza di situazioni concrete di elevata pericolosità, quando il giudice si trovi a dover fronteggiare le più pressanti esigenze cautelari sotto il profilo soggettivo (con riguardo, ad esempio, alla recidiva) e/o sotto quello oggettivo (con riguardo a reati, come quelli elencati dall’art. 656, 9° co., lett. a, c.p.p., per i quali la sospensione dell’esecuzione è comunque esclusa)[10].
Tale compromissione delle possibilità di scelta del giudice cautelare ha trovato disapprovazione anche nel parere sul d.l. n. 92/2014 formulato dal consiglio superiore della magistratura: “Si è sopra detto che il legislatore muove dall’implicito, ma indiscutibile, presupposto che tutte le volte in cui la pena detentiva irrogata, all’esito del giudizio, non supererà i tre anni – e quale che sia il vissuto giudiziario dell’autore – le esigenze cautelari non potranno assumere consistenza tale da rendere necessaria l’applicazione della misura della custodia in carcere. Trattasi di conclusione che non tiene del tutto conto della vastità della gamma di situazioni al cospetto delle quali la sanzione è determinata in misura non superiore a tre anni e che sembra trascurare la non coincidenza dei parametri che guidano l’autorità giudiziaria, rispettivamente, nella scelta della misura cautelare e nella quantificazione della sanzione. L’esercizio dell’azione cautelare è, infatti, incombente tipico della fase delle indagini preliminari e consegue, in molte evenienze, ad accadimenti improvvisi, eclatanti ed urgenti, in coincidenza dei quali è massima l’esigenza di preservare la genuina acquisizione del materiale probatorio, di evitare la reiterazione del reato o, ancora, di precludere la fuga, il tutto in riferimento ad un quadro indiziario necessariamente embrionale ed in continuo sviluppo.
L’apprezzamento della consistenza delle esigenze cautelari e, soprattutto, dell’individuazione della misura necessaria per salvaguardarle è condotto, quindi, alla stregua di parametri che solo in parte sono sovrapponibili a quelli considerati nella determinazione, ai sensi dell’art. 133 c.p., della sanzione irroganda. Non deve, perciò, sorprendere che, in concreto, ad una valutazione prognostica che stimi in non più di tre anni la durata della pena detentiva che sarà inflitta all’esito del giudizio possa fare pendant, all’atto della delibazione della richiesta di applicazione della misura coercitiva e con riferimento al coacervo delle contingenze emergenti, la concreta inidoneità di misure diverse da quella di estremo rigore (si pensi, a titolo di mera esemplificazione, alla commissione di reati di non particolare, obiettiva gravità da parte di soggetto con spiccata tendenza alla recidiva). Non è, pertanto, del tutto rigorosa l’equazione tra contenimento della pena detentiva entro i tre anni ed insussistenza di esigenze cautelari tanto gravi da imporre l’applicazione della custodia in carcere, non dovendosi, inoltre, trascurare come, specie con riferimento a determinate categorie di reati, la prospettiva di applicazione, a mo’ di extrema ratio, della più severa misura coercitiva costituisca garanzia di effettività delle misure non custodiali e, in ultimo, di tutela della vittima nel lasso temporale occupato dall’accertamento processuale”[11].
Altra nutrita serie di rilievi all’art. 8 del d.l. n. 92/2014, hanno riguardato l’aspetto operativo della nuova disciplina. Anzitutto, era apparsa immediatamente come fonte di incertezza interpretativa il riferimento, ai fini della prognosi da effettuarsi a cura del giudice della cautela, alla “pena detentiva da eseguire” (v. infra § 5).
Si erano, altresì, rilevati importanti difetti di coordinamento con la disciplina degli arresti domiciliari[12]. In sintesi, è stato evidenziato come la mancata previsione di deroghe al divieto assoluto previsto dal nuovo art. 275, co. 2°-bis c.p.p. – norma che stabilisce le generali condizioni di applicabilità della custodia cautelare in carcere - abbia determinato l’inapplicabilità della predetta misura coercitiva anche nelle ipotesi: a) dell’art. 276, co. 1°-ter, c.p.p., che stabilisce, in caso di violazione delle prescrizioni degli arresti domiciliari concernenti il divieto di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora, la sostituzione della misura domiciliare con la custodia cautelare in carcere; b) dell’art. 280, 3° co., c.p.p., che consente l’applicazione della custodia cautelare in carcere in caso di trasgressione delle prescrizioni inerenti ad altra misura cautelare, anche in deroga al limite di pena (massimo edittale pari ad almeno cinque anni di reclusione) indicato nel 2° comma; c) dell’art. 284, co. 5°-bis, c.p.p., che vieta la concessione degli arresti domiciliari a chi sia stato condannato per il reato di evasione nei cinque anni precedenti al fatto per il quale si procede; d) dell’art. 391, 5° co., c.p.p., che consente, nell’udienza di convalida dell’arresto eseguito per uno dei delitti indicati nell’art. 381, 2° co., c.p.p. o per uno dei delitti per i quali l’arresto è consentito anche fuori dei casi di flagranza, di applicare la custodia cautelare in carcere anche al di fuori dei limiti previsti dagli artt. 274, 1° co., lett. c), e 280 c.p.p.; e) di indagati e/o imputati senza fissa dimora, che in tal modo diventerebbero una categoria di soggetti non passibile di alcuna misura cautelare detentiva.
4. Di fronte alle serrate critiche mosse all’art. 8 del d.l. n. 92/2014, il legislatore ha parzialmente modificato, in sede di conversione (attuata con l. 11 agosto 2014, n. 117), il testo della contestata norma.
In seguito alle nuove modifiche (in vigore dal 21 agosto 2014), l’art. 275, co. 2°-bis, c.p.p., recita come segue: “Non può essere applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena. Salvo quanto previsto dal comma 3 e ferma restando l’applicabilità degli articoli 276, comma 1-ter, e 280, comma 3, non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Tale disposizione non si applica nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 423-bis, 572, 612-bis e 624-bis del codice penale, nonché all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, e quando, rilevata l’inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’articolo 284, comma 1, del presente codice”.
Come si può notare, la legge di conversione ha ridotto l’ambito operativo del divieto di custodia cautelare in esame, escludendone l’applicabilità nei seguenti casi: a) nei procedimenti per i delitti indicati dall’art. 275, 3° co., c.p.p., per i quali opera la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere[13]; b) nell’ipotesi contemplata dall’art. 276, co. 1°-ter, c.p.p., di violazione delle prescrizioni degli arresti domiciliari concernenti il divieto di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora; c) nell’ipotesi contemplata dall’art. 280, 3° co., c.p.p., che consente l’adozione della custodia cautelare in carcere, a prescindere dalla misura della pena edittale prevista per il reato oggetto del procedimento, in caso di trasgressione delle prescrizioni inerenti ad altra misura cautelare; d) nei procedimenti per i delitti di incendio boschivo, maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, furto in abitazione e furto con strappo, nonché per tutti i delitti contemplati dall’4-bis della l. 26 luglio 1975, n. 354[14]; e) nelle ipotesi in cui, rilevata l’inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possono essere disposti per mancanza di luogo di esecuzione idoneo ai sensi dell’art. 284, 1° co., c.p.p.[15].
La legge di conversione non è, invece, intervenuta in relazione ad altri profili critici della riforma, quali il mancato coordinamento del novellato art. 275, co. 2°-bis, c.p.p., con le disposizioni dell’art. 284, co. 5°-bis, e dell’art. 391, 5° co., c.p.p.
Tale mancata visione sistematica del legislatore potrebbe produrre sul piano applicativo quegli esiti paradossali evocati dalla dottrina e dalla magistratura associata. Ad esempio, riguardo al mancato coordinamento con l’art. 284, co. 5°-bis, c.p.p., in caso di prognosi di pena inferiore a tre anni, l’imputato mai condannato per evasione potrebbe essere sottoposto agli arresti domiciliari, mentre il soggetto già condannato per tale delitto beneficerebbe del divieto assoluto sia di custodia in carcere che di arresti domiciliari. Ed ancora, nel caso di arresto per evasione[16], il giudice non potrà applicare la custodia cautelare in carcere, pur in presenza di una disposizione come l’art. 391, 5° co., c.p.p., che consente, nell’udienza di convalida dell’arresto eseguito per uno dei delitti in essa elencati, di applicare le misure coercitive anche al di fuori dei limiti previsti dagli artt. 274, 1° co., lett. c), e 280 c.p.p., in quanto la citata disposizione non permette di derogare alla norma generale di cui all’art. 275, co. 2°-bis, c.p.p.[17].
5. La legge di conversione ha altresì sostituito l’ambiguo inciso “pena detentiva da eseguire” originariamente impiegato dall’art. 8 del d.l. 92/2014, con quello inequivoco di “pena detentiva irrogata”. È compito del giudice investito della richiesta di custodia in carcere guardare alla pena che potrà essere applicata al termine del giudizio, e non invece alla pena che dovrà essere indicata nell’ordine di carcerazione, al netto delle diminuzioni previste dall’ordinamento (quali le eventuali sottrazioni del presofferto e le riduzioni praticabili grazie all’applicazione immediata della liberazione anticipata)[18].
Nella totale assenza di criteri-guida assegnati al giudice cautelare ai fini di una valutazione prognostica di estrema delicatezza, qual è quella sulla entità della pena da irrogare, non si può non rinviare, nella fase delle indagini preliminari e fino alla sentenza di primo grado (dopo fa fede il provvisorio accertamento giudiziale del fatto), agli indici, previsti dall’art. 133 c.p., della gravità del reato e della capacità a delinquere dell’imputato.
Non sembra possibile apprezzare ai fini della prognosi in esame il beneficio della riduzione di un terzo della pena previsto per il giudizio abbreviato, ancorché l’ammissione al rito “semplice”, cioè non condizionato ad una integrazione probatoria, costituisca atto dovuto; e ciò perché sia l’accesso al rito alternativo che la forma di giudizio abbreviato richiesto (“semplice” o “condizionato”), costituiscono evenienze processuali future ed incerte che dipendono da una formale manifestazione di volontà dell’imputato. A diversa conclusione, invece, deve giungersi per la prognosi da effettuarsi nella fase successiva all’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato e fino alla pronuncia della sentenza di primo grado.
A fortiori, non potrà essere tenuta in considerazione la preannunciata opzione dell’indagato per l’applicazione della pena ex artt. 444 e ss. c.p.p., in quanto l’accesso al rito alternativo dipende, oltre che da determinati presupposti obiettivi, da una espressa e formale manifestazione di volontà sia dell’interessato che del p.m.[19].
Nella stragrande maggioranza dei casi, la prognosi di pena sulla quale si basa il divieto di custodia cautelare in carcere farà leva su una piattaforma conoscitiva necessariamente provvisoria ed incompleta rispetto a quella del giudice dibattimentale. Il che, attribuendo al giudice cautelare una amplissima e pressoché insindacabile discrezionalità[20], nemmeno ancorata alla indicazione degli “elementi specifici” da porsi alla base del suo convincimento, potrebbe aprire la strada a pericolose prassi permissive o restrittive, con elevato rischio di errori nell’applicazione della custodia cautelare in carcere.
In definitiva, nonostante lo sforzo del Parlamento di rimediare alle critiche suscitate dal testo originario dell’art. 8 del d.l. n. 92/2014, permangono numerose perplessità sul nuovo divieto previsto dall’art. 275, co. 2°-bis, c.p.p. Sia dal punto di vista del contenuto, a causa di una opzione politico-legislativa fortemente opinabile quanto ai motivi ispiratori ed ai prevedibili effetti sulla funzionalità dei meccanismi giudiziari[21]; sia anche dal punto di vista della sua formulazione tecnico-giuridica, per via di una certa sciatteria di natura sistematica, tale da provocare in qualche caso seri dubbi circa la stessa applicabilità di altre disposizioni in tema di custodia cautelare.
Più ombre che luci, dunque, nel nuovo art. 275, co. 2°-bis, c.p.p.
[1] Cfr., tra le ultime, Corte cost., sent., 9 ottobre 2013, n. 279.
[2] È assai nota la sentenza “pilota” Corte e.d.u. 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, che non solo ha condannato l’Italia per il trattamento inumano e degradante dei detenuti in violazione dell’art. 3 C.E.D.U., ma ha raccomandato l’adozione di interventi strutturali che prevedano, in particolare, l’applicazione di misure punitive non privative della libertà personale in alternativa a quelle carcerarie e la riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere.
[3] Secondo la regola generale enunciata dall’art. 275, 2° co., c.p.p., ogni misura cautelare deve essere proporzionata alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata.
[4] Il testo emendato del primo periodo dell’art. 275, co. 2°-bis, c.p.p., stabilisce che: “Non può essere applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena”. L’originaria formulazione della norma, invece, stabiliva che “non può essere disposta la misura della custodia cautelare se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena”. La giurisprudenza, a fronte della generica evocazione della “misura della custodia cautelare”, sanciva pacificamente l’estensione del divieto anche a quella degli arresti domiciliari, che condivide con la custodia cautelare in carcere la natura detentiva ed è assoggettata, nei limiti della compatibilità, alle relative regole ai sensi dell’art. 284, 5° co., c.p.p., secondo cui l’imputato agli arresti domiciliari “si considera in stato di custodia cautelare”. Il decreto legge in esame ha, nondimeno, novellato il previgente testo dell’art. 275, co. 2° bis, c.p.p. esplicitando il riferimento alle misure della custodia cautelare in carcere e degli arresti domiciliari, che va, quindi, a sostituire quello della misura della “custodia cautelare”. La precisazione segna in modo univoco la differenza tra le due distinte previsioni in cui il comma novellato si articola, la seconda delle quali – quella, cioè, di nuovo conio – contempla un divieto di applicazione riferito in via esclusiva alla misura della custodia cautelare in carcere.
[5] Il limite è elevato a quattro anni nei casi previsti dall’art. 47-ter, 1° co., della l. 26 luglio 1975, n. 354, o a sei anni nei casi di cui agli artt. 90 e 94 del d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309.
[6] Vi è contrasto in giurisprudenza circa l’applicabilità della sospensione dell’esecuzione nella distinta ipotesi in cui il condannato si trovi in stato di custodia cautelare in carcere per fatto diverso da quello della condanna da eseguire. In senso favorevole alla operatività della sospensione, cfr. Cass., sez. I, 4 febbraio 2009, Ferretti, in CED Cass., n. 243362; conf. Cass., sez. I, 26 settembre 2012, Bannour, in CED Cass., n. 253625. In senso contrario, cfr. Cass., sez. I, 27 maggio 2009, Di Marzo, in CED Cass., n. 244652.
[7] F. Viganò, Una norma da eliminare: l’art. 8 del d.l. 92/2014, in www.penalecontemporaneo.it
[8] F. Viganò, Una norma da eliminare: l’art. 8 del d.l. 92/2014, cit.
[9] Non sono mancate, però, voci di incondizionato sostegno alla disposizione introdotta dall’art. 8 del d.l. n. 92/2014, vista come un presidio di reale garanzia, che attraverso l’ideale collegamento tra il piano cautelare e quello dell’esecuzione della pena, traduce e rende effettivo il principio di proporzionalità, riducendo significativamente il rischio di infliggere all’imputato un sacrificio ingiusto. In questi termini: M. Ceresa Gastaldo, Tempi duri per i legislatori liberali, in www.penalecontemporaneo.it
[10] L’Associazione nazionale magistrati ha espresso, nel corso delle audizioni parlamentari, un parere decisamente contrario sulla norma in esame, evidenziando l’improprio collegamento tra le misure cautelari e la fase dell’esecuzione della pena, istituti che differiscono profondamente sul piano ontologico e su quello funzionale.
[11] Parere sul d.l. 26 giugno 2014, n. 92, formulato dal CSM con delibera consiliare del 30 luglio 2014.
[12] F. Viganò, Una norma da eliminare: l’art. 8 del d.l. 92/2014, cit.; Parere sul d.l. 26 giugno 2014, n. 92, formulato dal CSM con delibera consiliare del 30 luglio 2014.
[13] Va ricordato, tuttavia, che il sistema di presunzione assoluta di necessità della custodia cautelare in carcere delineato dall’art. 275, 3° co., c.p.p., è stato ripetutamente dichiarato incostituzionale (cfr. Corte cost., sent., 21.7.2010, n. 265; Corte cost., sent., 12.5.2011, n. 164; Corte cost., sent., 22.7.2011, n. 231; Corte cost., sent., 3.5.2012, n. 110; Corte cost., sent., 29.3.2013, n. 57). Gli interventi della Consulta hanno ripristinato un sistema che prevede una presunzione (relativa) di adeguatezza della custodia in carcere, superabile da prova contraria.
[14] Cfr. F. Fiorentin, Sul carcere preventivo si guarda alla pena irrogata, in Guida al diritto, 2014, n. 36, 51, secondo il quale l’elenco tassativo dei reati per i quali non opera il nuovo divieto di custodia cautelare in carcere, presenta l’inconveniente di porre rilevanti dubbi di costituzionalità sotto il profilo della violazione del canone di ragionevolezza, dal momento che sfugge la logica per cui sono state escluse fattispecie incriminatrici di pari gravità.
[15] Tale eccezione fa dipendere l’applicabilità della custodia cautelare in carcere dalla mera indisponibilità di un domicilio, che rappresenta solo uno fra i tanti possibili indici del pericolo di fuga e non necessariamente è ascrivibile ad una colpa dell’indiziato. In questi termini: F. Fiorentin, Sul carcere preventivo si guarda alla pena irrogata, cit.; M. Daniele, Il palliativo del nuovo art. 275 co. 2 bis c.p.p. contro l’abuso della custodia cautelare, in www.penalecontemporaneo.it
[16] L’art. 3 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, nella l. 12 luglio 1991, n. 203, stabilisce che è consentito l’arresto anche fuori dei casi di flagranza della persona che ha posto in essere una condotta punibile a norma dell’art. 385 c.p., e che il giudice, nell’udienza di convalida, può disporre l’applicazione di una delle misure coercitive anche al di fuori dei limiti previsti dall’art. 280 c.p.p.
[17] F. Viganò, Una norma da eliminare: l’art. 8 del d.l. 92/2014, cit.
[18] M. Daniele, Il palliativo del nuovo art. 275 co. 2 bis c.p.p. contro l’abuso della custodia cautelare, cit.
[19] Negli stessi termini si è espressa la giurisprudenza di legittimità formatasi sull’analogo divieto, previsto nel primo periodo dell’art. 275, co. 2°-bis, c.p.p., basato sulla prognosi di sospendibilità della pena: Cass., sez. IV, 24 maggio 2007, Ehuiaka, in CED Cass., n. 238298; Cass., sez. VI, 30 settembre 1996, Marino, in CED Cass., n. 206433; Cass., sez. II, 18 dicembre 1995, Squeo, in CED Cass., n. 203708.
[20] M. Daniele, Il palliativo del nuovo art. 275 co. 2 bis c.p.p. contro l’abuso della custodia cautelare, cit.
[21] La riforma dell’art. 275, co. 2°-bis, c.p.p., appare ispirata ad una concezione esclusivamente sostanzialistica della custodia cautelare in carcere, in chiave di anticipazione della pena: dunque con manifesto sacrificio delle esigenze cautelari, che potrebbero, invece, concretamente sussistere in grado tale da rendere necessario il ricorso al carcere.