"Non penso siano molte, ormai, le professioni che richiedono una lettura assidua di testi redatti a mano. Succede certamente al magistrato di sorveglianza, che riceve istanze, reclami e memorie su ogni argomento dai detenuti di cui si occupa. Lettere, dunque, perché nell’universo penitenziario il mondo dell’informatica è ancora colpevolmente quasi assente e si fabbricano così analfabeti tecnologici sempre meno adatti al moderno mondo del lavoro.
Ho spesso pensato che questo mio intenso decrittare fosse un giusto contrappasso, avendo sempre imposto a tutti, dai tempi della scuola, la mia pessima grafia da mancino appassionato di geroglifici.
D’altra parte però, in quei testi scritti a mano, e corretti con ripensamenti ed incertezze, in tanti diversi momenti delle giornate sempre uguali del carcerato, c’è più cuore che nelle mail impersonali cui siamo ormai abituati. C’è soprattutto quel poco di fisicità che i reclusi riescono a far passare attraverso le sbarre. Forse per questo nell’aprire una busta da lettera che proviene da un istituto penitenziario di cui mi occupo, mi sento depositario di qualcosa di prezioso, anche se lo scritto non contiene che l’ennesimo sollecito a decidere una pratica che, in attesa di qualche completamento istruttorio ignoto al destinatario, giace da mesi.
Il libro di Elvio Fassone si sviluppa proprio intorno alla corrispondenza intercorsa tra lui e l’ergastolano Salvatore per ventisei lunghi anni.
Fassone ha condannato all’ergastolo Salvatore. Non è il suo magistrato di sorveglianza. Eppure, con sensibilità e preveggenza, il giudice sa che non tutto finisce con la condanna. Non soltanto per chi intraprende l’espiazione della propria pena e, naturalmente e sempre, per la persona offesa, ma anche per chi l’ha comminata.
Nasce un rapporto di amicizia piena di rispettose distanze tra Salvatore ed il giudice, perché l’istituzione si fa carne e si assume l’onere di testimoniare. Il condannato che è carne, invece, scopre di essere qualcosa di più del suo corpo recluso. Scopre una verità profondamente liberante: il delitto, per quanto atroce, non può annullare la dignità della persona. “Potrà perdere la libertà per un tempo anche lungo, ma non deve perdere la dignità e la speranza.” sscrive il giudice a Salvatore. Se non deve perderla in carcere, significa che ce l’ha, prima del delitto e nonostante il delitto.
Il magistrato di sorveglianza che legge vola con la mente alle condizioni detentive che gli è toccato valutare nell’esercizio dei suoi compiti di garante dei diritti delle persone detenute: il sovraffollamento, i trasferimenti conseguenti lontano dalle famiglie, il difetto di percorsi rieducativi e poi le piccole cose, dalla muffa sul soffitto ai bagni inadeguati. Si lavora e si può fare di più. Ma neppure questo toglie la dignità. La toglie piuttosto l’infantilizzazione e, soprattutto, l’assenza di prospettive che può far dimenticare il proprio valore di persona umana, intangibile anche dopo aver commesso il più efferato dei crimini.
Salvatore trae dal confronto con il suo giudice la forza per mettersi in cammino. I propositi del condannato diventano di recupero, di crescita culturale e di abbandono delle dinamiche criminali che ne hanno segnato la giovinezza. La detenzione però è lunga, anzi non può finire per legge nel suo caso, ed è fatta di uno stillicidio di quotidiano e di procedure, di ritualità e di piccole e grandi incoerenze, anche personali ma purtroppo pure istituzionali.
Nel percorso di Salvatore compaiono spesso i magistrati di sorveglianza. Sono citati perché hanno concesso, oppure hanno rigettato, hanno ritenuto questo o quello. La loro voce però non viene raccontata in termini significativi. Cosa gli hanno lasciato i dialoghi che certamente ha svolto con loro? Cosa ha compreso dei provvedimenti che nel tempo ne hanno scandito piccole aperture premiali e dolorose interruzioni?
Mentre leggo la sua storia, penso ai tanti colloqui svolti in questi anni in carcere e non posso che associare quelle domande al mio lavoro. Non posso che scorrere nella mente i tanti volti che sono rimasti impenetrabili al rituale scambio di saluti di cortesia, mentre mi affacciavo nelle celle o facevo un cenno a un gruppetto di detenuti intenti a giocare a carte. Non posso che sperare che almeno la presenza, al di là delle mie sempre insufficienti energie, sia bastata a ricordare che la pena ha un senso, un senso costituzionale, che si invera ogni giorno con la fattiva collaborazione di tutti gli operatori coinvolti e della stessa persona condannata.
"C'è una stagione, ignota agli altri ma vera, nella quale il detenuto ha maturato la convinzione di avere pagato il giusto. Sa che doveva "pagare" e sente che quella quantità corrisponde al dovuto secondo la "sua" idea di giustizia. Se siamo capaci di cogliere quel tempo, è salvo lui con tutto il percorso fatto, e siamo salvi noi. Se siamo sordi, è salvo solo lui: "quando arriverà lei (ndr: la morte) me ne andrò io".
In queste poche righe mi sembra condensarsi il cuore ed il dramma del libro di Fassone. Occorre che gli operatori conoscano quel tempo e lavorino con la persona che sconta la sua pena perché quella convinzione personale sia frutto di un retto discernimento, di un percorso di comprensione vera dei danni arrecati alla società. E’ però anche necessario che, quando è così, gli strumenti normativi e una discrezionalità costituzionalmente conformata da parte delle istituzioni coinvolte sappiano rispondere alla maturazione della persona condannata con la fiducia.
Mi risuonano nella mente le parole della storica sentenza 204/1974 della Corte Costituzionale che, in relazione alla liberazione condizionale, ribadiva a chiare lettere la sussistenza del “diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo”.
Quando il tempo personale combacia con quello costituzionale si realizza l’auspicio di Fassone. Altrimenti è troppo tardi. Allora i tanti Salvatore che ospitiamo nelle nostre carceri hanno perso la speranza di vedersi riconosciuto il percorso fatto e la società ha perso l’opportunità di recuperare a sé una persona pienamente responsabile, capace di leggere nel suo passato per costruire il proprio futuro nella società.
Sono molte le questioni aperte, che la lettura di “Fine pena: ora”, evoca con l’immediatezza di tutte le storie vere, e tra queste particolarmente il tema dell’ergastolo, soprattutto quello ostativo, che non consente l’accesso ad alcun beneficio penitenziario salvo che si collabori con la giustizia. Credo però che al magistrato di sorveglianza susciti prima di ogni altra considerazione un senso dell’urgenza, drammatico e a volte persino frustrante, per le risorse scarse e per i numeri ingenti dei suoi procedimenti. Nemmeno un’ora del tempo della detenzione può essere sprecato senza lavorare per la responsabilizzazione e la risocializzazione delle persone condannate.
Le risposte che pervengono dalle istituzioni non possono mai essere solo burocratiche. I percorsi devono rispondere sempre più ad una efficace individualizzazione ed orientare chi espia la pena verso prospettive credibili di avvenire. C’è insomma una pena che deve finire oggi, ed è quella inutile. Su questa strada difficile, in salita, cammina sempre il magistrato di sorveglianza con il suo fardello di fascicoli distinti solo per numero e a volte per colore. Un libro come quello di Fassone, allora, diventa l’occasione per fermarsi ai bordi della strada e, dopo la catarsi che segue il dramma, riprendere il cammino ancor più consapevoli del sentiero da imboccare."