Magistratura democratica
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Relazione al Parlamento 2023: i «sette anni in Tibet» del Garante Nazionale delle persone private della libertà personale

di Riccardo De Vito
giudice del Tribunale di Nuoro

Una breve introduzione alla lettura della Relazione al Parlamento 2023 e della relativa Presentazione, di cui mettiamo a disposizione i testi

1. Il passaggio del testimone

Quest’anno la consueta Relazione al Parlamento del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale – presentata alla Camera dei Deputati il 15 giugno 2023 – assume un sapore diverso. Si tratta della Relazione conclusiva del mandato del primo Collegio (Presidente Mauro Palma, membri Daniela De Robert, Emilia Rossi), quello che ha dato gambe alla legge istitutiva e plasmato l’Autorità di garanzia, organizzato le Unità operative, definito (anche mediante i corposi codici di autoregolamentazione ed etico) i compiti di intervento, le condizioni di azione, i doveri e l’affidabilità del Garante, messo a punto le funzioni preventive e reattive di un’istituzione che, nel corso di sette anni, è diventata bastione dei diritti individuali e sociali delle persone che si vedono private del bene essenziale della libertà personale. In sintesi, il Collegio che ha costruito un patrimonio indiscusso della Repubblica. La procedura per indicare un nuovo Collegio è avviata e sarà fondamentale prestare attenzione all’avvicendamento: non abbiamo a che fare soltanto con una transizione delicata per l’istituzione in sé, ma con una cartina di tornasole della traiettoria democratica dello Stato. Chiudere le persone private della libertà in istituzioni separate, sottrarle allo sguardo pubblico, continua a essere il pendio scivoloso delle democrazie contemporanee, come i recenti fatti di cronaca (Santa Maria Capua Vetere, Verona) dimostrano. Vi è più che mai necessità che il Garante, anche nella sua funzione di Meccanismo nazionale di prevenzione, sappia mantenere il proprio «sguardo intrusivo», capace di «penetrare al di là della superficie e porre cautele» (Presentazione, p. 8). 

Nel corso di sette anni (2016-2023), il Collegio ha permesso alla comunità e agli operatori qualificati – tra cui Corti costituzionali e sovranazionali – di «vedere Giacomo seduto sul suo sgabello, come se anche la prigione fosse di cristallo» (Gianni Rodari dixit, in maniera memorabile). Non è un cedimento alla retorica celebrativa. Per accorgersene, è sufficiente leggere la recente condanna che la prima sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo – J.A. c. Italia, 30 marzo 2023 (cfr., per un commento, F. Buffa, in questa Rivista, 16 giugno 2023) – ha comminato all’Italia per la detenzione di alcuni migranti nell’hotspot di Lampedusa. A essere violato, nel c.d. “approccio hotspot”, è anche il divieto convenzionale di trattamenti inumani o degradanti (art. 3 Cedu). Se la Corte di Strasburgo ha potuto avere una fotografia chiara delle antigieniche e sovraffollate condizioni di detenzione dei giovani tunisini racchiusi a Lampedusa, è anche e soprattutto grazie ai rapporti tematici del Garante Nazionale, estesi all’esito delle visite, e alla relazione al Parlamento 2018: entrambi i testi vengono riportati analiticamente nel paragrafo della pronuncia dedicato al diritto e alle prassi nazionali, a sua volta inserito nel «relevant legal framework». 

Anche la Corte costituzionale trova sempre più spesso parametri di riferimento nei documenti del Garante: discutendo degli internati sottoposti al regime del 41-bis, ad esempio, non può fare a meno di confrontarsi con la «lettura» del sistema offerta dal Rapporto tematico del 7 gennaio 2019 (Corte Cost., sentenza n. 197 del 2021). 

Inutile sottolineare, poi, quanto sia vitale per la democrazia un’autorità di Garanzia che, preso atto di eventi critici, si precipiti in carcere (come accaduto a Santa Maria Capua Vetere, in un’occasione importante anche assieme all’allora Ministra della Giustizia), corrobori e rafforzi la vigilanza delle altre istituzioni, fornisca immediate Raccomandazioni utili a prevenire il ripetersi di violazioni; ancora, un’autorità che partecipi a tutti i procedimenti giudiziari relativi a presunti episodi di tortura (o di violenza e maltrattamenti) come soggetto direttamente offeso dai reati commessi in danno delle persone ristrette, si costituisca parte civile, alimenti il sapere dei processi. 

È attraverso la somma di queste attività (e di molte altre), accompagnata a una presenza costante e documentata nei luoghi di detenzione – più di trecento visite solo negli istituti di pena nel corso del mandato –, che il Garante ha contribuito, per quanto possibile nell’epoca attuale, alla diffusione di una cultura della pena antagonista rispetto al senso comune del “buttare la chiave”. Un discorso pubblico diverso sulla pena, di segno opposto a quello dominante, che va a tutti costi ricostruito dal basso perché, come messo in risalto con il riferimento a Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt, solo in tal modo si difendono i diritti umani: «non è la perdita di specifici diritti, ma la perdita di una comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto la sventura che può abbattersi su una società» (Presentazione, p. 11). 

La consapevolezza dell’importanza della transizione permea tutto il documento presentato al Parlamento. Nel raccontare la nascita e lo sviluppo dell’Autorità nel corso di questi sette anni, in cui il Garante si è misurato con tre Assemblee legislative e sei diversi Governi, la Relazione non si limita a un consuntivo, ma offre una prospettiva, scolpisce il senso e il valore politico di una Istituzione che sarà in grado di mantenersi indispensabile a condizione di non finire sotto il piede della politica: «la politica aiuta, coopera, ma non detta regole alle Istituzioni di garanzia» (Presentazione, p. 9). 

 

2. Una sorgente di informazioni

Anche quest’anno la Relazione è ricca di mappe, grafici, statistiche, tabelle. Le pagine dedicate alla rappresentazione grafica delle strutture che rientrano nel mandato del Garante (Relazione, pp. 120-121) consentono immediatamente di farsi un’idea dello spettro delle attività: la privazione della libertà personale non è affare che riguarda solo la pena. Oltre agli Istituti penitenziari per adulti e minori, il Garante spinge il suo sguardo sui reparti detentivi ospedalieri e sulle camere detentive di degenza ospedaliera, sulle comunità, sulle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), sulle strutture psichiatriche pubbliche e private, sui presidi assistenziali per anziani o disabili (Rsa e Rsd), sulle camere di sicurezza di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza. C’è poi tutto l’universo della detenzione amministrativa collegata alla gestione del fenomeno migratorio: Centri di permanenza per il rimpatrio, Hotspot, locali idonei di Polizia, locali di trattenimento ai valichi di frontiera, centri di prima accoglienza, voli di rimpatrio forzato; dopo la pandemia: navi quarantena.

Per ognuno di questi settori la Relazione coglie le linee di sviluppo impresse ai fatti dall’agire simultaneo dei diversi fattori normativi, giudiziari, politici, ideologici, economici. Non minore l’attenzione ai nodi problematici. Ognuno potrà trovare miniere di informazioni relative al proprio campo di interesse.

 

3. Linee di sviluppo e nodi irrisolti dell’area di intervento penale

Con riferimento all’area penale, l’analisi dei dati offre qualche indicazione positiva. La percentuale di persone in carcere senza alcuna condanna definitiva è diminuita nel corso degli anni di attività del Collegio, passando dal 35,2 al 26,1 percento. Ci sarà modo e tempo di approfondire le cause di questa tendenza, ma sarà una ricerca quanto mai necessaria per consolidarla. 

Di contro, altri rilevamenti preoccupano. Va ancora aumentando il numero delle persone ristrette in carcere per scontare condanne molto brevi: 1551 persone sono in carcere per scontare una pena - «non un residuo di pena», precisa il Garante – inferiore a un anno, altre 2785 una pena tra uno e due anni. Brevi «segmenti di tempo recluso» del tutto inutili a un serio progetto di rieducazione, ma capaci di incidere in maniera devastante sulla psiche di questi ristretti, come dimostra la diffusione anche tra loro del dramma del suicidio (sempre drammaticamente diffuso: 30 dall’inizio del 2023). Non vi è dubbio che, in questo caso, il mancato accesso a misure alternative sia il portato di una marginalità che, come spiega il Garante, «avrebbe dovuto trovare altre risposte, così da diminuire l’esposizione al rischio di commettere reati»; di una povertà che cancella i presupposti essenziali per accedere alle misure di comunità e che dovrebbe spingere le istituzioni repubblicane a un notevole impegno, anche di tipo finanziario, per garantire successo alle dimore per l’esecuzione penale esterna dei non abbienti, previste dalla riforma Cartabia in materia di pene sostitutive. 

È innegabile, tuttavia, che il carcere continui a esercitare un’enorme capacità attrattiva nella risposta penale giudiziaria: i numeri della detenzione intramuraria, nonostante l’aumento delle persone ammesse a misure di comunità, non accennano a diminuire e, anzi, tornano a crescere dopo la flessione della pandemia. Il risultato, dunque, è quello di una cospicua estensione dell’area del controllo penale. Sotto questo profilo, le cifre sono impietose: a inizio mandato del Garante, i detenuti complessivi erano 54600, con accanto circa 34104 condannati ammessi a varie tipologie di misure alternative e 10097 imputati in “messa alla prova”. Oggi, sette anni dopo, discutiamo di oltre 57000 detenuti, cui sono affiancate 53113 misure alternative e 25716 messe alla prova. È palese come l’aumento dell’offerta normativa sul terreno delle alternative alla detenzione intramuraria non abbia minimamente eroso i numeri del carcere. Semplicemente, si è allargata l’area dell’intervento penale che, a fronte di una consistente diminuzione della registrazione di reati gravi nello stesso periodo di tempo (omicidi volontari: - 25 percento; associazione mafiosa: - 36 percento, rapine: - 33 percento), passa dalle 98854 persone del 2016 alle 137366 attuali. Certo, va considerata la cifra oscura. Ma questo rapporto inversamente proporzionale tra decremento dei reati commessi e accrescimento del tasso di controllo penale continua a raccontare delle tante funzioni occulte, non dichiarate, delle pene, del surrogato che esse rappresentano a politiche pubbliche inclusive.

Opportunamente, per rimanere nel campo della penalità penitenziaria, la Relazione si sofferma sull’incremento della platea degli ergastolani tout court (1.802 nel 2019, 1863 al 31 marzo 2023) e di quelli ostativi (1274 nel 2019, 1293 al 31 marzo 2023). Altrettanto spazio, anche attraverso il richiamo al recente rapporto tematico, è riservato alla detenzione in regime di 41-bis. Sono due i temi «che il Garante nazionale ritiene tuttora aperti»: da un lato, quello delle pene perpetue ostative, perché occorrerà monitorare «l’effettività della risposta» che l’evoluzione giurisprudenziale, tenuto conto delle novità normative, offrirà «a quell’imperativo di impossibilità di una pena che non lasci margine effettivo e praticabile alla speranza»; sull’altro versante, quello del 41-bis, perché è giunto il «tempo di aprire un chiaro confronto sul regime speciale: sulla sua funzione necessaria per l’interruzione delle connessioni, collegamenti e ordini tra le varie organizzazioni criminali, ma anche sulle sue regole, sulla sua attuale estensione numerica, sulla durata troppo spesso illimitata» (Relazione, pp. 16-17).

Quelli riportati sono solo alcuni spunti di riflessione, tra i tanti che la lettura della parte della Relazione dedicata all’area penale suggerisce. Molti altri si possono trarre dall’approfondimento delle ulteriori aree tematiche, a partire da quella scottante dedicata alla privazione della libertà dei migranti. Non si può fare a meno, su questo terreno, di citare un dato eloquente: delle 6383 persone che nel 2022 sono state ristrette nei Centri di permanenza per il rimpatrio, soltanto 3154 sono state effettivamente rimpatriate; metà delle persone trattenute sono state private della libertà personale senza raggiungimento dello scopo cui tale privazione era mirata. 

Lasciamo poi al lettore la libertà di addentrarsi tra le suggestioni che offrono i sostanziosi paragrafi riferiti alla tutela della salute, ivi compresa quella psichica, e alla custodia da parte delle agenzie di Polizia. Per concludere questo breve commento, ora, interessa prendere in considerazione il tema della metodologia. 

 

4. Nella bottega del barbiere. Ovvero, l’importanza del metodo

Mai come quest’anno, verosimilmente nell’ottica di precisare il senso e la ricchezza dell’Istituzione, la Relazione è densa di riferimenti ai criteri metodologici e operativi del Garante. Sono aspetti per nulla secondari, costituendo la premessa fondamentale della credibilità scientifica delle attività del Garante e della sua affidabilità democratica. Mettiamoli in fila, questi approcci metodologici ed epistemologici, che nel loro insieme contribuiscono a formare lo sguardo dell’Autorità: visite nei luoghi dove le persone possono essere ristrette, libere e autonomamente decise, nonché comprensive di accesso alla documentazione e a ogni altra fonte informativa; colloqui privati con i ristretti; cooperazione istituzionale e informativa con le amministrazioni centrali e periferiche; rilevazione autonoma degli eventi critici degli Istituti penitenziari; costante interrogazione degli applicativi informatici degli “Eventi critici”, del “monitoraggio degli spazi e delle camere detentive” (c.d. “Applicativo 15) e del “Sistema informativo dei detenuti” del Dap, nonché di quello “dei servizi minorili della giustizia” del Dgmc; raccolta dei reclami dei detenuti; analisi della giurisprudenza nazionale e internazionale (Relazione, pp. 94-97). 

Perché è importante parlare di metodo? 

Il carcere, come molti altri luoghi deputati all’accoglienza delle persone private della libertà personale, è un’istituzione separata, che tende spesso a rendersi invisibile, a opacizzarsi. C’è, nella missione originaria del carcere, mai dismessa anche nell’attuale contesto democratico, la tendenza a rimanere nascosto. Offrirne una fotografia attendibile, veritiera, è molto difficile. Solo quel sistema ricco di controlli incrociati, di sapiente dosaggio di cooperazione e intrusione unilaterale, di ricezione di un elevato numero di informazioni e di elaborazione attiva delle stesse consente di sottrarsi alle rappresentazioni ideologiche, positive o negative che siano, alle farse ritualistiche, al labirinto di specchi. In un bel libro dal titolo Immaginare le storie. Atlante visuale per scrittrici e scrittori (Johan & Levi, Milano, 2022), Giulio Mozzi descrive la bottega del barbiere di Sottomarina di Chioggia, il paese dove aveva abitato fino agli otto anni. La poltroncina per i bambini a forma di cavalluccio, i fumetti e, soprattutto, gli specchi. Specchi davanti alle poltrone per i clienti, specchi che correvano sulla parete opposta, in cui ci si poteva vedere riflessi, di fronte o di nuca, innumerevoli volte, come moltiplicati. Un giorno, girandosi sulla sedia, si trovò a pensare: «Questo che vedo davanti a me, indubbiamente sono io: questa che ho davanti è un’immagine di me. Ma tutte le altre immagini che vedo guardando nello specchio davanti a me, spostando appena un poco gli occhi a destra, le immagini di me di fronte o di nuca, non sono immagini di me: sono immagini di immagini, e immagini di immagini di immagini, e immagini di immagini di immagini di immagini, all’infinito. E un’immagine di una cosa è una cosa, mentre l’immagine di un’immagine (eccetera) è un’altra cosa». 

Ecco, sette anni di meticolosa attività scientifica del Collegio ci hanno insegnato a non cadere nei tranelli, a capire l’importanza di conoscere il mondo penitenziario nella sua essenza più autentica. Ci hanno restituito, prima ancora di un’idea del carcere e sul carcere, l’immagine della cosa, del carcere reale. E sappiamo quanto conoscere sia la premessa fondamentale per cambiare; la premessa di una riforma ancora di straordinaria necessità.  

 

20/06/2023
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