1. «Chi non ha studiato la situazione non ha diritto di parlare». A sostenerlo fu un certo Mao Tse-Tung[1]. Citarlo oggi richiede forse coraggio, e non solo perché già a suo tempo l’affermazione fu «derisa …come manifestazione di gretto empirismo[2]». A tacer d’altro, altra epoca storica -e connessi modelli- per la quale non si intende suscitare (meno che mai coltivare) alcuna nostalgia. Ma un po' di studio e di sano pragmatismo, nell’approccio a questioni complesse, rimane una indicazione di metodo da non respingere in via pregiudiziale; a maggior ragione in un mondo in cui la comunicazione tante volte appare più un fine che un mezzo e la conoscenza (figurarsi l’approfondimento) risulta ostacolata dalla inevitabile superficialità imposta dalla rapida confezione della notizia e dalla brevità del messaggio semplificato che sovente si intende lanciare. Un esempio? I suicidi nei nostri istituti penitenziari. I numeri che si riportano, solitamente, sono esatti. Le riflessioni che possono leggersi sui media, invece, raramente sono il frutto di inchieste, condotte da chi abbia “studiato la situazione”. Per carità, non è in discussione il «diritto di parlare» di chicchessia. Ma per capirne di più difficilmente possono bastare poche righe di giornale o pochi minuti di telegiornale.
2. Una vera e propria inchiesta l’ha compiuta, invece, il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà[3], con il suo studio intitolato Per un’analisi dei suicidi negli Istituti penitenziari pubblicato il 5 gennaio 2023. Iniziativa meritoria, non foss’altro perché il 2022, con le 85 persone che si sono tolte la vita negli Istituti penitenziari, può definirsi senz’altro un annus horribilis. Basti pensare che la serie storica dei suicidi nelle carceri italiane nel decennio 2012-2021 fa registrare numeri decisamente inferiori, compresi tra i 39 del 2015 e del 2016 e i 62 del 2018 e 2020, per cui è corretto parlare, con riferimento allo scorso anno, di un vero e proprio picco.
Una crescita allarmante, sulle cui ragioni è doveroso interrogarsi, per individuare i punti del (cattivo) funzionamento del sistema sui quali occorre intervenire allo scopo di realizzare una efficace prevenzione, che inizi - da subito - con una netta inversione di tendenza.
L’ufficio del Garante, per contribuire al dibattito pubblico sul tema, sceglie un metodo ineccepibile: quello di affrontare alcuni nodi problematici, corrispondenti ad altrettanti aspetti della realtà, meritevoli di essere conosciuti nella loro obiettività, perché se ne possano trarre valutazioni e, soprattutto, prospettive di cambiamento.
3. La prima serie di domande alle quali il documento del Garante dà risposte è quella relativa alla tipologia dei detenuti suicidi. Nel 2022 si sono tolti la vita nelle carceri italiane 80 uomini e 5 donne. Tra tutti, 49 erano italiani e 36 stranieri e in tutto 20 erano senza fissa dimora. Quanto all’età, 37 persone avevano tra i 26 e i 39 anni, 29 tra i 40 e i 54 anni, 10 tra i 18 e i 25 anni, 6 tra i 55 e 69 anni e 3 erano ultrasettantenni. Il rischio suicidio, di conseguenza, si pone in una relazione con l’età della persona che non sembra poter suggerire conclusioni di forte schematismo, pur essendo evidente il suo attenuarsi con l’età più avanzata. Inquietano, invece, i numeri della tabella n. 4 dello studio, là dove si riportano i dati sulle «Condizioni di vulnerabilità» di quanti si sono tolti la vita in carcere lo scorso anno. Tralasciando, per il momento, i 20 senza fissa dimora dei quali si è già detto, ben 68 erano già conosciuti per eventi critici; 28 (di cui 7 con più di un evento) avevano già posto in essere tentativi di suicidio; 24 (19 dei quali anche al momento del decesso) erano sottoposti al regime di «Grande sorveglianza». In molti casi, quindi, il sistema, pur avendo registrato indicatori di rischio in persone resesi protagoniste di episodi significativi di fragilità, non è stato in grado di svilupparli e di tradurli in fatti concreti di prevenzione, idonei ad evitare l’evento letale. Non è arduo immaginare le possibili controrisposte: risorse (soprattutto umane) inadeguate; il suicidio come evento tragico dietro il quale si nasconde una determinazione tanto forte da renderla fatalmente votata -nella maggior parte dei casi- alla sua realizzazione[4]. Osservazioni che hanno il pregio di cogliere elementi della realtà, ma che non appagano, rimanendo inidonee a spiegare la gravità rappresentata da numeri tanto alti e crescenti, rispetto ai quali lo Stato ha l’inderogabile dovere di fare quanto possibile per creare le condizioni del loro forte abbattimento. Obiettivo per il cui raggiungimento, all’evidenza, non si rivela -a tutt’oggi- sufficiente l’abnegazione dei tanti operatori, a partire dalla Polizia penitenziaria chiamata alla sorveglianza nelle sezioni detentive e tante volte tempestiva negli interventi volti a contrastare tentativi di gesti anticonservativi già avviati. Già queste sole considerazioni convincono di quanto sia indispensabile il ripensamento di modelli organizzativi e prassi, oltre che delle responsabilità della attuazione di quelli attuali.
4. Lo studio compiuto si sofferma su molti altri aspetti interessanti: le carceri nelle quali i suicidi sono stati più numerosi (5 a Foggia; 4 a Torino e Milano-San Vittore[5]); i circuiti detentivi ai quali erano assegnati i detenuti che si sono tolti la vita (nettamente prevalente sugli altri, quello di media sicurezza: 72 suicidi su un totale di 85); la tipologia delle sezioni interessate dal fenomeno (la Circondariale ordinaria, con 21 eventi, a fronte dei 19 della Circondariale a custodia aperta). Si tratta di elementi che, nel loro insieme, concorrono a inquadrare i suicidi in carcere in una unificante situazione di normalità detentiva, e perciò inducono a giustificare -indipendentemente da ulteriori ragioni sulle quali ci si soffermerà- l’affermazione che si legge nell’introduzione allo studio, a firma di Mauro Palma: occorre «sgombrare il campo da una visione deterministica che connette le decisioni estreme alla difficoltà materiale della detenzione[6]».
Per intendersi: ci si suicida nelle carceri italiane non perché non si reggano la ristrettezza degli spazi oppure le limitazioni che il regime detentivo comporta nella socialità di cui il detenuto può fruire; se così fosse, i suicidi tra i detenuti in regime di alta sicurezza sarebbero stati ben più dei 2 verificatisi nell’anno trascorso[7].
5. Vi sono, peraltro, nell’analisi svolta dall’ufficio del Garante, indicazioni che assumono rilievo centrale non solo per comprendere l’emergenza suicidi, ma anche per trarne elementi che potrebbero assumere valore strategico in vista di una nuova politica della pena detentiva e, così, del superamento della crisi del nostro sistema penitenziario.
E’ la posizione giuridica[8] delle persone che si sono tolte la vita ad offrire spunti importanti di riflessione. Si legge nel documento che, delle 85 persone decedute per suicidio, «39 erano state giudicate in via definitiva e condannate e 5… avevano una posizione cosiddetta “mista con definitivo”…; 32… (38,1%) erano in attesa di primo giudizio, 7 erano appellanti e 2 ricorrenti…[9]».
Ma soprattutto: «Delle 42 persone condannate e con posizione “mista con definitivo”, 38 avevano una pena residua fino a 3 anni e 5 di esse avrebbero completato la pena entro l’anno in corso; altre 4 avevano una pena residua superiore ai 3 anni, mentre 1 soltanto aveva una pena residua superiore ai 10 anni[10]».
E inoltre: «…50 persone, pari al 59,5%, si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione; di queste, 21 nei primi tre mesi dall’ingresso in Istituto e 15 entro i primi 10 giorni, 10 delle quali addirittura entro le prime 24 ore dall’ingresso[11]».
Questi ultimi numeri offrono al Garante lo spunto per considerazioni conclusive, che appaiono fortemente condivisibili. Si possono così riepilogare.
Fragilità e marginalità delle persone e pene detentive brevi o brevissime da scontare sono elementi che fanno pensare ad una forte difficoltà nel sostenere la condizione detentiva in sé da parte di molti di coloro che decidono di togliersi la vita. Lo si può affermare sulla base dei numeri riportati sub 3 (rilevazioni sulle «condizioni di vulnerabilità», e sui soggetti senza fissa dimora), oltre che su quelli riportati sub 5 (la posizione giuridica, considerata come prospettiva della lunghezza della detenzione da scontare). Ciò induce ad affermare che non solo non è la «difficoltà materiale della detenzione» a fungere da spinta al suicidio, ma che occorre allargare lo sguardo oltre la detenzione in senso stretto per tentare di capire: «…troppo frequenti sono anche i casi di persone che a breve sarebbero uscite, per non capire che a volte -spesso- è l’esterno a far paura quasi e più dell’interno…quella sensazione di essere precipitato in un “altrove” esistenziale, in un mondo separato, totalmente ininfluente o duramente stigmatizzato anche nel linguaggio dei media e talvolta anche delle istituzioni, che caratterizza il luogo dove si è giunti, a essere determinante…la percentuale alta di coloro che, definitivi, erano prossimi al termine dell’esecuzione penale…tende a dare l’immagine di una difficoltà soggettiva amplificata nel rapporto improvviso non solo con la privazione della libertà, ma con la sua concretizzazione in un ambiente degradato dove alla percepita irrilevanza da parte del mondo esterno si aggiunge la specifica irrilevanza vissuta all’interno di un ambiente stressato e impersonale[12]».
Sicché può affermarsi che la «non dignitosa fisionomia» degli ambienti «è concausa di un senso di vuoto invivibile che può determinare la scelta estrema, ma non ne è la causa principale».
Il Garante ne trae indicazioni operative nette[13]: «La prima direzione verso cui agire è…quella di una immissione di figure di mediazione sociale e supporto all’interno degli istituti, con profili differenziati così come molteplice è ormai la complessità esterna, ridefinendo, quindi, le professionalità esistenti e investendo, oltre che sul numero, sulla tipologia del loro intervento: un intervento che sempre più deve ridurre la distanza che separa l’interno con l’esterno. Non può essere un compito affidato agli operatori di Polizia penitenziaria, il cui compito -importante per la prossimità implicita che rappresenta con chi è ristretto- deve essere recuperato nella specifica funzione di svolgimento regolare e ordinato e di sicurezza verso l’esterno.
La seconda direzione va anch’essa nella riduzione della distanza con l’esterno: sia nel forte incremento delle possibilità di connessione -ovviamente in condizioni di sicurezza- con i propri affetti, sia nella loro regolata normalità e nell’utilizzo …di quanto offerto…dalle tecnologie. Un aspetto, questo che, oltre a essere ineludibile in relazione al positivo reinserimento futuro in una società in rapida trasformazione tecnologica, indica anch’esso che non si è precipitati in un mondo diverso, bensì in un mondo dove l’essenza …della pena è…nella privazione della libertà e non in altri fattori de-contestualizzanti».
Ancora una volta, è l’Europa che ce lo chiede, e il Garante ce lo ricorda: «La vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera[14]».
Infine, c’è il problema del numero dei detenuti. Molti, da tempo, parlano di sovraffollamento e di necessità di nuove carceri. Pochi, tuttavia, sanno che, nella storia delle carceri italiane, non sono mai mancate le sezioni detentive chiuse per lavori di manutenzione e ristrutturazione, i cui tempi lunghi o lunghissimi non sempre sono apparsi tali per assoluta necessità. Ma c’è dell’altro, che merita di essere ricordato. Si va in carcere per un provvedimento di un giudice e si esce dal carcere in esecuzione di un provvedimento di un giudice. A determinare il numero dei detenuti concorrono le leggi e le culture dei giudici, chiamati ad applicarle; ma ciò riguarda anche il numero dei detenuti che scontano le pene inflitte con sentenza definitiva. Riguardo a questi ultimi, peraltro, rileva la stella polare, costituita dall’art. 27 della Costituzione, sulla funzione delle pene, che «devono tendere alla rieducazione del condannato». Ha ragione il Garante nel porre, con forza, un tema ormai ineludibile, benché poco popolare, in quanto in controtendenza rispetto alla abituale risposta di pancia al serio e diffuso bisogno di sicurezza[15]: «La terza direzione deve andare nella riduzione dei numeri…Occorre restringere la platea delle persone in carcere. A partire da un dato chiaro: il 4 gennaio 1451 persone sono ristrette in carcere per scontare una pena inferiore a un anno, mentre altre 2598 scontano una pena compresa tra uno e due anni. E’ evidente l’impossibilità che si attui un qualsiasi progetto volto a un diverso ritorno all’esterno in tempi così brevi e che il tempo della permanenza in carcere sarà soltanto tempo vuoto, interruzione di una vita a cui tornare forse in situazione soggettiva peggiore, certamente con maggiore difficoltà…è anche un indicatore della minorità sociale che connota queste persone che non hanno evidentemente strutture esterne di riferimento, spesso neppure una fissa dimora, certamente una scarsa assistenza legale, molte volte neppure strumenti di comprensione del senso del loro essere in carcere e delle possibilità che l’ordinamento prevede».
In sostanza: migliaia di persone che scontano una pena inutile, laddove è proprio la nostra legge fondamentale che vorrebbe che essa fosse un mezzo rispetto a un fine, quindi qualcosa di, almeno potenzialmente e tendenzialmente, utile.
Prima ancora di una adeguata «presa in carico delle persone soprattutto al loro ingresso in carcere[16]», l’emergenza suicidi interroga, allora, tutti: l’intera comunità sul senso della privazione della libertà; lo Stato su un sistema funzionante di pene alternative al carcere; i territori -e chi li governa- sulla loro disponibilità a (e capacità di) costruire occasioni serie di risocializzazione (percorsi di formazione, lavoro, istruzione), idonee a ridurre la distanza tra luoghi della detenzione e luoghi esterni ad essi, in vista di un possibile recupero di risorse umane ad esperienze di vita nella legalità. Senza il coraggio di scelte radicali, razionali e pragmatiche, e non ideologiche né emotive, il sistema penitenziario difficilmente potrà risollevarsi dall’attuale crisi, superando vecchie e nuove emergenze.
[1] Cfr. Citazioni del Presidente Mao Tse-Tung, Feltrinelli UE, quinta edizione, aprile 1969, pag. 147.
[3] «…a cominciare dal diritto alla vita e alla dignità»: cfr. la Premessa del documento di cui qui si dà conto.
[4] Nel documento citato si legge che vi è «la consapevolezza che la decisione di porre fine alla propria vita si fonda su un insieme di cause e di ragioni intimamente personali e non può essere ricondotta automaticamente e in via esclusiva alla condizione di detenzione in carcere»: cfr. Premessa citata sub 3.
[5] Quest’ultimo dato numerico non può non generare una certa sorpresa. Le carceri di Torino e Milano-San Vittore sono state, tradizionalmente, tra quelle più aperte alla comunità esterna, come tali caratterizzate -ad avviso dei più- da un clima detentivo idoneo a prevenire -con il concorso di altri fattori- eventi critici estremi. Per la verità, processi in corso per reati gravi in danno di persone detenute a Torino si sono già incaricati di rappresentare una realtà tutt’affatto diversa: a conferma di una crisi di sistema che ha fatto venire meno, insieme ad esperienze positive che si ritenevano durature, certezze consolidate.
[7] E con ciò ci si limita a considerare il circuito dell’alta sicurezza. Qualche riflessione meriterebbe il fatto che tra i detenuti in regime di art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario non si registrano suicidi: per esigenze di brevità, oltre che per evitare di dovere affrontare problematiche di particolare specificità collegate al c.d. regime differenziato, ci si ferma qui.
[8] Ci si riferisce ad uno dei seguenti status: di condannato con sentenza definitiva, oppure di detenuto con procedimenti penali in corso; e, tra questi ultimi, di persona in attesa di primo giudizio, oppure di appellante (dopo una condanna in primo grado), oppure di ricorrente in cassazione (dopo una condanna in grado di appello); infine, alla posizione cosiddetta mista con definitivo, cioè di chi ha riportato almeno una condanna definitiva, ma ha anche altri procedimenti penali in corso.
[11] Cfr. pagg. 11 e ss. studio cit.
[12] Cfr. Introduzione documento cit., pagg. 3-4.
[13] Cfr. Introduzione documento cit., pag. 5.
[14] Cfr. le Regole penitenziarie europee, di cui alla Raccomandazione del Consiglio d’Europa, di cui all’Introduzione, ibidem.