Il 3 aprile 2023 è stato presentato il Rapporto tematico del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale sul regime speciale ex articolo 41-bis dell’Ordinamento penitenziario. Il documento – che aggiorna il precedente, presentato a febbraio 2019 – assume quest’anno un duplice valore. Da un lato consente all’opinione pubblica, anche qualificata, di mettere il naso dentro i reparti destinati al 41-bis e di avere conoscenza del loro funzionamento in the facts, per usare un’espressione cara alla criminologia critica. Un diverso modo di vedere le cose che sollecita anche lo sguardo del giurista positivo, avvezzo a categorie astratte che a volte lo distraggono dalla prospettiva empirica.
Sotto altro profilo, il merito del Rapporto è quello di riportare il dibattito sul 41-bis a una corretta grammatica giuridica e di politica del diritto: mai come quest’anno, con la discussione sul regime accesa dal caso Cospito, se ne sentiva il bisogno.
Iniziamo dalla fotografia delle condizioni detentive, alla quale è dedicata la seconda parte del rapporto. Non senza osservare, per prima cosa, quanto sia meticoloso il lavoro di vigilanza democratica che il Garante, anche quale meccanismo nazionale di prevenzione della tortura ai sensi del Protocollo opzionale ONU alla Convenzione contro la tortura, esercita sui luoghi del 41-bis: come si legge nell’introduzione del Rapporto, il Garante nazionale, nella sua composizione collegiale, «ha visitato tutte le Sezioni a regime detentivo speciale». Una finestra aperta verso l’interno di importanza strategica, dal momento che la fisiologica opacità del carcere tende a ispessirsi quando ci si confronta con una misura finalizzata a interrompere i canali di comunicazione con l’esterno.
Nonostante qualche miglioramento – reso possibile soprattutto dalla collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria (in tutte le sue componenti) e la magistratura di sorveglianza –, le parole sulla vita nei reparti suonano amare e allarmanti: «Anche nelle recenti visite, il Garante nazionale ha riscontrato condizioni materiali e scelte edilizie che per la loro configurazione possono comportare una ricaduta sulle capacità psico-fisiche delle persone ristrette, rischiando di assumere di fatto una connotazione di "pena corporale", non consentita dal nostro ordinamento».
Il lettore potrà trovare rappresentazioni analitiche della situazione di tutti gli Istituti che ospitano sezioni speciali, ma i termini utilizzati impressionano sin dalla premessa generale: «La miseria di molti cortili, la presenza ossessiva di grate e coperture degli stessi e le mancate soluzioni, anche di facile adozione, per dare maggiore aria naturale alle stanze riscontrate in taluni Istituti, lasciano realmente perplessi e stridono con analoghe situazioni riscontrate in altri, pur sempre nelle sezioni a regime speciale».
Sono immagini che vanno assimilate partendo dalla considerazione, più volte ribadita nel Rapporto, che in quegli ambienti i detenuti trascorrono l’intera quotidianità: 21 ore in cella, 2 ore nei cortili (quando va bene), 1 ora in saletta di “socialità”.
Balza agli occhi, peraltro, una disomogeneità delle condizioni detentive sul territorio nazionale alla quale non ha fatto fronte l’ultima circolare regolatrice del potere discrezionale che l’art. 41-bis assegna all’Amministrazione per “completare” il regime: nel codice numerico della burocrazia è la circolare n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017, ridondante di minuziose disposizioni di dettaglio che, ad avviso del Garante – l’esperienza della giurisprudenza dei magistrati di sorveglianza lo conferma –, si prestano a interpretazioni distorsive delle finalità preventiva del regime speciale. Significativa, pertanto, la raccomandazione del Rapporto sul punto: riscrivere la circolare e ipotizzare linee guida generali idonee a modellare il regime speciale, adeguarlo alle ultime pronunce della Corte costituzionale sulla la facoltà di cuocere cibi e di scambiare oggetti con le persone del medesimo gruppo di socialità (con tutte le correlate esigenze), aggiornarlo agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità sui tempi di permanenza all’aria aperta (due ore per ciascuna persona, salvo esigenze da motivare con procedura rafforzata). Nuovi principi generali che, ad avviso dell’autorità di garanzia, dovrebbero anche ampliare le possibilità di esercizio del diritto dell’informazione, con superamento dei limiti all’uso degli apparecchi televisivi e alla ricezione della stampa nazionale e implementazione degli strumenti tecnologici a disposizione dei ristretti.
Leggendo a contrario la raccomandazione, e sulla scorta delle osservazioni contenute nel Rapporto, ci si fa un’idea della vita detentiva di una persona ristretta in regime speciale: massimo due ore all’aria aperta, che troppo spesso si riducono a una sola, difficoltà ad accedere ad alcuni quotidiani nazionali a diffusione minore (Il Domani, Il Manifesto, Avvenire, Il Dubbio), impossibilità di utilizzare in maniera effettiva computer e lettori elettronici offline, televisione che si spegne alle 24 e si riaccende alle 7, impedendo anche l’ascolto della radio incorporata nell’unico apparecchio. E soprattutto: assenza pressoché totale di programmi individualizzati di trattamento e di attività riabilitative.
Su questo ultimo punto la denuncia del Garante si fa netta. Se è vero che la Consulta e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno ribadito la legittimità costituzionale e convenzionale del regime speciale – il Rapporto è anche una approfondita ricognizione delle decisioni di quelle Corti –, è indubbio che lo abbiano fatto ponendo indiscutibili paletti, il primo dei quali è rappresentato dalla necessità di salvaguardare il finalismo rieducativo che deve accompagnare ogni esecuzione della pena. Ecco perché – prosegue il Rapporto – «la sospensione delle regole di trattamento prevista dall’art. 41-bis co. 2 e 2 quater o.p. si riferisce alla disciplina della vita detentiva e non al trattamento finalizzato al reinserimento contemplato dall’art. 13 o.p., la cui eventuale esclusione – o sospensione – si porrebbe senza dubbio in frizione con la Costituzione».
Allo stesso tempo, molte misure integranti la sospensione delle regole, siano esse tipizzate dalla legge o plasmate dall’Amministrazione, evidenziano una pericolosa eccedenza rispetto allo scopo di prevenire contatti con le organizzazioni criminali all’interno e all’esterno del carcere, manifestando soltanto un carattere di maggior afflizione – il “carcere nel carcere” – che deforma la logica preventiva sottesa all’istituto.
Le carenze si acuiscono in maniera esponenziale se si tiene conto di un altro dato messo a nudo dal Rapporto: nel 41-bis si entra, ma non si esce. È quello che la dottrina più approfondita (Della Bella, 2016) aveva definito il «carattere imbutiforme» del regime speciale, spietatamente disvelato dalla logica dei numeri: «l’analisi condotta sugli anni compresi tra il 2012 e il 2022 attesta, infatti, una media di 731 persone detenute nel regime speciale» (nel 2022 sono 740, di cui 12 donne, tutti di criminalità organizzata, eccetto tre terroristi e un anarchico: dato che dovrebbe indurre a meditare sulla vicenda Cospito).
Nel corso delle visite effettuate nei reparti, il Garante «ha riscontrato un considerevole numero di casi di persone soggette costantemente al regime dell’art. 41-bis comma 2 o.p. da oltre 20 anni, a volte dall’inizio della detenzione». Del resto, a leggere i rilevamenti per fasce d’età, ci si accorge che su 740 detenuti ben 522 hanno più di cinquanta anni, 87 più di settanta.
Da cosa deriva la perpetuazione del regime? Anche su questo profilo indaga il rapporto, ponendo l’accento su una formulazione della norma che limita il contenuto della proroga all’accertamento del non venir meno (probatio diabolica) di un elemento potenziale e soggettivo, vale a dire la «capacità di mantenere collegamenti».
L’analisi, tuttavia, si sofferma anche sull’apparato motivazionale dei singoli provvedimenti di proroga: incentrato spesso soltanto sul reato iniziale e sulla perdurante esistenza sul territorio dell’organizzazione di riferimento, finisce per disattendere le prescrizioni di attualizzazione delle particolari esigenze preventive espresse costantemente dalla Corte costituzionale. Il 41-bis, reiterato così in modo quasi automatico, finisce «per configurare inevitabilmente una ‘tipologia speciale e irreversibile’ di detenuto».
Da questo ordine di ragionamenti scaturiscono due riflessioni del Garante: una inerente alla necessità di verificare concretamente la pericolosità qualificata di tutti i 740 detenuti sottoposti al regime speciale, perché da tale verifica è legittimo ritenere che «il numero delle persone attualmente soggette al regime previsto dall’art. 41-bis co. 2 o.p. sia suscettibile di una profonda revisione»; un’altra, viceversa, che non si nasconde l’irriverente e necessario interrogativo sull’efficacia concreta del regime: «se il rischio del mantenimento dei collegamenti con la criminalità organizzata di provenienza viene ritenuto sussistente anche a distanza di oltre 20 anni dalla prima applicazione, quando non dall’inizio della detenzione, il dubbio sull’efficacia del sistema preventivo risulta legittimo, soprattutto considerando l’invariabilità nel tempo del numero delle persone alle quali è applicato».
La lettura offre altri spunti di interesse attuale, dal permanere della logica delle aree riservate alla contraddittorietà – non sciolta dalla Corte costituzionale – dell’applicazione del regime applicato agli internati in Casa di Lavoro: 20 minuti di lavoro al giorno riservato a persone spesso in età di pensione.
Di notevole spessore è la riflessione sulle pene temporanee: 250 persone stanno attualmente espiando in regime di 41-bis pene temporanee: «Nello scorso anno (2022) 28 persone detenute sono state scarcerate (il sottolineato è nel testo del rapporto, n.d.e) direttamente dal regime speciale ex articolo 41-bis o.p. Nell’anno in corso, tra aprile e dicembre, almeno 9 di queste 250 persone usciranno dal carcere, dalla sezione del 41-bis o.p., per il termine dell’esecuzione della pena inflitta».
Sono detenuti che, da un giorno all’altro e in maniera paradossale, passano dalla totale chiusura al mondo al recupero pieno della libertà di movimento e di contatto. È un dato che, tra le altre cose, la dice lunga sull’automatismo delle proroghe, racconta di persone restituite alla libertà senza alcuno strumento di possibile reintegrazione e rafforza la necessità di ripensare il 41-bis in maniera laica e matura.
Dal tenore complessivo del rapporto, infatti, affiora l’urgenza di una «riflessione integrale sulla legge», al fine di assicurare la compatibilità del regime con il finalismo rieducativo della pena e di evitare il cedimento a logiche di simbolismo afflittivo e di legittimazione consensuale che tradiscono i criteri di legalità e di pieno rispetto dei diritti fondamentali della persona. Un percorso critico, quindi, che pone il problema di emancipare il 41-bis almeno da quello che lo stesso Rapporto definisce «il retrogusto» delle origini, quel retaggio emergenziale che troppo spesso tradisce, dietro la maschera della misura di prevenzione, un sistema punitivo assoluto e informale, non sufficientemente trattenuto dal principio di legalità. Ecco, in sintesi, il valore del Rapporto: un modo diverso di vedere le cose; un tentativo di non rassegnarsi a una casistica a volte non all’altezza della Costituzione.
Il rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale è consultabile qui.