Un’altra pronuncia di incostituzionalità colpisce la legge n.40 del 2004, che detta “norme in materia di procreazione medicalmente assistita”: questa volta, sotto la scure dei giudici costituzionali è finito uno degli snodi più significativi ed ideologicamente qualificanti della legge stessa, quello del divieto del ricorso alla fecondazione eterologa, ossia della fecondazione per via di gameti donati da soggetti esterni alla coppia, per ovviare all’impossibilità di uno dei partner di produrne.
Nella complessiva architettura di divieti, limiti, obblighi e sanzioni che il legislatore ha volutamente innalzato intorno ad una applicazione della scienza che punta a superare una condizione patologica dell’individuo, per consentirgli di realizzare la naturale aspirazione alla procreazione, il divieto del ricorso a donatori esterni – normalmente praticato prima del varo della l. n.40, in caso di sterilità assoluta o di presenza di anomalie genetiche – è stato giustificato in base ad una capziosa equiparazione con l’adulterio, “inconciliabile con la morale di coppia che il legislatore italiano pretende di imporre” (così E.Cesqui, R.Sanlorenzo, Prime note sulla legge in tema di procreazione medicalmente assistita, in Questione Giustizia, 2004, 34 ss.).
Questo specifico divieto viene però all’attenzione del Giudice costituzionale, per essere puntualmente abbattuto, dopo una serie fitta di interventi giurisprudenziali, nazionali e non, su tutti i punti – cardine qualificanti, imposti dal legislatore del 2004, spesso contro le pratiche che sino a lì si erano affermate.
Le prime iniziative giudiziarie hanno avuto ad oggetto il diritto ad ottenere la diagnosi preimpianto sugli embrioni fecondati, diritto negato in base ad un complesso normativo tra le cui disposizioni legislative – a partire da quella di cui all’art.1, che pone la finalità di “assicurare i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito” - spiccano le “Misure di tutela dell’embrione” (capo IV), specificate negli artt. 13 (“Sperimentazione sugli embrioni umani”) e 14 (“Limiti all’applicazione delle tecniche sugli embrioni”).
Dopo le prime pronunce negative, ed un inutile ricorso alla Corte costituzionale, che dichiarò manifestamente inammissibili le questioni sollevate (ord. N.369/2006), furono poi i giudici civili (il tribunale di Cagliari, con la sentenza 24.9.2007, ed il tribunale di Firenze, con l’ordinanza del 19 dicembre 2007), e infine il giudice amministrativo, che annullò le Linee guida varate dal Ministro Sirchia in quanto avevano limitato all’osservazione gli interventi diagnostici preimpianto sull’embrione, a segnare la svolta, sancita nel 2008 con l’approvazione di nuove Linee guida che hanno consentito indagini di ogni tipo sulla salute degli embrioni da impiantare.
Un secondo piano di interventi ha riguardato la possibilità di accedere alle tecniche di PMA, che l’art. 4 co.1 della l. n.40 condiziona alla sussistenza di una condizione di sterilità o di infertilità: ciò che esclude le coppie che, pur se fertili, sono portatrici di malattie geneticamente trasmissibili, e dunque solo attraverso diagnosi preimpianto, capaci di selezionare gli embrioni sani, possano raggiungere la certezza di generare un figlio non affetto dalle stesse patologie.
Sul punto specifico, è stata la Corte europea dei diritti dell’uomo a stigmatizzare la norma italiana, ritenuta in contrasto con l’art. 8 CEDU, proprio per il difetto di coerenza del sistema legislativo italiano in ragione del fatto che esso, da un lato, vieta agli aspiranti genitori di poter procurare attraverso la fecondazione in vitro embrioni che non siano affetti dalla malattia di cui sono portatori sani, dall’altro, li autorizza poi ad abortire un feto che si accerti affetto da quella stessa patologia.
La decisione, emessa nel caso Costa e Pavan contro Italia, affronta senza ipocrisie uno dei profili più odiosi e inaccettabili della legge n.40: la sua irrazionale, cieca chiusura ad ogni possibilità di sollevare le coppie, ed in particolare la donna, dalla tragica necessità di un aborto in caso di accertamento in corso di gravidanza della malattia del feto. Il tutto, in nome di quella già menzionata “tutela del concepito” che rompe con la previsione del codice civile, recepita dal diritto romano, per cui solo con la nascita l’individuo assume una soggettività giuridica.
La vicenda dei coniugi Costa Pavan è giunta poi a buon fine, a seguito dell’ordinanza del Tribunale di Roma, che li ha autorizzati all’accesso alle tecniche di PMA ed alla selezione preimpianto degli embrioni sani: resta aperta ancora la questione per le altre coppie non sterili, portatrici di malattie geneticamente trasmissibili, che sono oggi in attesa della decisione di altra questione di costituzionalità, sollevata ancora dal Tribunale di Roma a proposito dell’art. 1, commi 1 e 2 , e dell’art. 4, comma 1, della legge n.40, per contrasto con gli articoli 2, 3, e 32 della Cost. nonché per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli articoli 8 e 14 della CEDU, “nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di patologie geneticamente trasmissibili”.
Altro intervento dal forte impatto demolitorio, è dovuto alla sentenza n.151/ 2009 della Corte costituzionale, che ha abrogato il divieto legislativo di produzione di embrioni in numero superiore di tre, da destinarsi tutti “ad un unico e contemporaneo impianto”. Il ragionamento della Corte parte dall’affermazione per cui nella stessa legge 40, la tutela dell’embrione non deve essere intesa come assoluta, ma limitata in relazione alla necessità di bilanciarla con le esigenze della procreazione; il divieto di creare più di tre embrioni rende necessario, in caso di insuccesso, ripetere i cicli di stimolazione ovarica, con conseguente aumento per la donna dei rischi per la sua salute.
Per altro verso, l’imposizione del contemporaneo impianto di tutti gli embrioni fecondati, senza alcuna possibilità di una loro riduzione preimpianto, risulta ugualmente lesiva della salute della donna, costretta ad una gravidanza plurima nonostante la possibile esistenza di controindicazioni. Spetta dunque al medico decidere, sulla base delle conoscenze tecnico – scientifiche, e in considerazione dello stato di salute della donna, il numero degli embrioni da produrre, e di quelli da impiantare, nel rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza affermati dall’art. 3 Cost., ed in nome della difesa del diritto alla salute di cui all’art. 32.
Infine, quanto al divieto di fecondazione eterologa, il primo accesso alla Corte costituzionale muove da un’altra decisione della Corte EDU, emessa nel 2010 nel caso S.H. contro Austria, stato nel quale vige analoga proibizione, ritenuta nell’occasione contraria ai principi dell’art. 14 della CEDU, in combinato disposto con l’art.8. Nei mesi immediatamente successivi, alcuni giudici italiani (i Tribunali di Firenze, Catania e Milano) hanno sollevato questione di costituzionalità dell’art. 4, co.3 della legge, innanzitutto in relazione all’art. 117 co.1 Cost., prima che la Grande Chambre ribaltasse la pronuncia della Camera della prima sezione.
A seguito di tale riforma, la Corte costituzionale con l’ordinanza n.150 del 2012 ha restituito gli atti ai rimettenti perché procedessero ad un nuovo esame dei termini delle questioni. Orbene, tutti e tre i Tribunali hanno reiterato le questioni di legittimità, evidenziando tutti la violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3, il solo Tribunale di Milano quello della violazione dell’art. 117, a cui però, insieme con il Tribunale di Catania, ha aggiunto il profilo relativo alla prospettata violazione degli artt. 2, 29, 31 e 32 Cost.
Con il comunicato stampa del 9 aprile 2014, la Corte costituzionale rende noto di aver dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 4, comma 3, 9, commi 1 e 3 della Legge n. 40, relativi al divieto di fecondazione eterologa medicalmente assistita, e al correlato divieto, nei casi di ricorso alla vietata fecondazione eterologa, di disconoscimento della paternità da parte del donatore di gameti. Cade conseguentemente anche l'articolo 12 comma 1 che puniva "chiunque a qualsiasi titolo utilizza a fini procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente" con una sanzione amministrativa da 300mila a 600mila euro.
Nell’attesa delle motivazioni che la sosterranno, si deve fin d’ora riconoscere alla sentenza il merito di eliminare l’odiosa discriminazione tra chi alla PMA può accedere per capacità soggettiva di produrre gameti, e chi invece per cause fisiologiche necessita del ricorso ad un donatore esterno.
Sin da ora, non può tacersi che dieci anni di interventi giurisprudenziali hanno ormai letteralmente demolito (non singole disposizioni, ma) il complessivo impianto della legge n.40, sconfessandone l’ideologia cieca e – per certi versi – crudele, senz’altro incurante della tutela della salute, fisica e psichica, della donna, e pregiudizialmente ostile alle tecniche di procreazione assistita, ristrette in limiti di praticabilità talmente angusti, da costringere migliaia di coppie al “turismo procreativo” verso Stati esteri ben più tolleranti del nostro.
I giudici – non solo italiani – hanno puntualmente e metodicamente perseguito il loro ruolo di interpreti e di artefici dei diritti fondamentali, anche, e soprattutto, laddove l’ideologia politica vuole stravolgerne l’ordine e sacrificarne l’ambito. La vicenda della legge n.40 diventa – ad ogni intervento giurisprudenziale – vieppiù significativa, a proposito di quella che si afferma come la dimensione moderna della funzione giurisdizionale: garante, ed artefice, di un catalogo di diritti che possiede una forza espansiva capace di andare ben oltre gli angusti orizzonti delle contingenti politiche nazionali.