Magistratura democratica
Prassi e orientamenti

Tecniche di procreazione assistita e direttive di fine vita

di Silvia Albano
Giudice del Tribunale di Roma
Il punto sulle principali questioni in tema di PMA

La legge n. 40 del 2004 presentava fin dall’inizio forti problematicità determinate dal fatto che essa era frutto di un compromesso, mal riuscito, tra la cultura laica e quella cattolica ed ha subito diversi interventi della CEDU e della Corte costituzionale.

Il tema della procreazione medicalmente assistita è stato più volte affrontato dalla Corte di Strasburgo.

In ordine al divieto di fecondazione eterologa la Corte è intervenuta con decisione 1 aprile 2010, SH c/Austria affermando che il divieto violava gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare - la scelta di concepire un figlio mediante l’utilizzo delle tecniche di PMA è stata ritenuta espressione della vita privata e familiare) e 14 (divieto di discriminazione in quanto si discriminava la possibilità di avere un figlio in base al tipo di sterilità dalla quale la coppia era affetta). La decisione è stata ribaltata dalla Grande Camera (sentenza 3 novembre 2011) che ha ritenuto che nella materia vi fosse un largo margine di discrezionalità da parte degli stati e l’assenza di consenso sul punto da parte della maggioranza degli stati membri del Consiglio d’Europa. In particolare ha ritenuto che il tema della fecondazione eterologa sollevasse questioni complesse di natura sociale ed etica sulle quali non c’era ancora un consenso nella società e dovesse tenere conto della dignità umana, del benessere dei bambini così concepiti e della prevenzione delle ripercussioni negative e del potenziale abuso.

Sul divieto di fecondazione eterologa vigente in Italia è intervenuta la Corte costituzionale, con sentenza n. 162 del 2014, sancendone l’illegittimità costituzionale. La Corte era già stata investita una prima volta della questione, ma aveva restituito gli atti ai giudici remittenti invitandoli ad una nuova valutazione alla luce della sentenza della Grande camera della CEDU sopra citata.

I giudici hanno nuovamente portato la questione alla Corte sostenendo la violazione degli artt. 8 e 14 CEDU e degli artt. 2, 29 e 31 della Costituzione. I giudici remittenti hanno sostenuto che la sentenza della Grande Camera riconduce, comunque, il diritto alla procreazione mediante la tecnica della fecondazione eterologa all’art 8 della CEDU riconoscendo, in sostanza, che il diritto all’autodeterminazione della coppia in ordine alla propria genitorialità sarebbe leso dal divieto. Inoltre, le coppie sarebbero trattate diversamente in ragione del tipo di sterilità  di cui soffrono e quindi, della possibilità di accedere o meno alla fecondazione omologa. Nel nostro ordinamento, poi, vi sono istituti, quali l’adozione, ove i rapporti genitoriali non sono fondati sulla discendenza genetica.

Quest’ultimo concetto, vedremo è molto importante, per capire l’evoluzione del concetto di genitorialità, il quale può incidere in misura rilevante sulla decisione dei casi problematici che possiamo esser chiamati ad affrontare.

La Corte Costituzionale ha accolto la questione facendo sostanzialmente proprie le censure dei giudici remittenti sottolineando che la PMA coinvolge plurimi interessi di rango costituzionale che richiedono un bilanciamento che assicuri un minimo di tutela legislativa ad ognuno. La tutela dell’embrione non è assoluta, ma limitata alla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze della procreazione. La scelta della coppia di formare una famiglia e di avere dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminazione, riconducibile agli artt 2, 3 e 31 della Costituzione; mentre il divieto di fecondazione eterologa non ha fondamento costituzionale ed è stato per la prima volta introdotto in Italia con la legge 40. La provenienza genetica non è requisito imprescindibile della famiglia ed il divieto incide anche sul diritto alla salute ex art 31 Cost., inteso anche come benessere psichico. La legge, poi, disciplina compiutamente lo status del nato da fecondazione eterologa escludendo la possibilità dell’instaurazione di relazioni giuridiche parentali con i donatori di gameti.

Il Tribunale di Bologna, con ordinanza 14.8.2014, su ricorso ex art 700 c.p.c., ha autorizzato una coppia a ricorrere alla fecondazione eterologa presso una struttura sanitaria ritenendo che non fosse necessario attendere le linee guida del ministero in quanto la sentenza della Corte costituzionale non aveva lasciato un vuoto normativo.

Lo spirito della legge, incentrato sulla tutela quasi assoluta dell’embrione aveva ispirato la disposizione che limitava, per la fecondazione omologa, la possibilità di produrre solo tre embrioni da impiantare con un unico intervento e vietato la crioconservazione degli embrioni. Anche tale norma è stata dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 151 del 2009 in quanto, stabilendo che le tecniche di produzione degli embrioni non debbono crearne un numero superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre, comporta la necessità di moltiplicare i cicli di fecondazione, poiché non sempre i tre embrioni sono in grado di dar luogo a una gravidanza. Ciò determina sia l'aumento dei rischi di insorgenza di patologie collegate alla iperstimolazione ovarica, sia, nei casi in cui siano maggiori le possibilità di attecchimento, un pregiudizio diverso per la salute della donna e del feto, in presenza di gravidanze plurime: questo perché la norma non riconosce al medico la possibilità di valutare il singolo caso, individuando, di volta in volta, il limite numerico di embrioni idoneo ad assicurare un serio tentativo di procreazione assistita. La previsione della creazione di un numero di embrioni non superiore a tre, in assenza di ogni considerazione delle condizioni soggettive della donna, si pone, così, in contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo sia della ragionevolezza che dell'eguaglianza, poiché il legislatore riserva lo stesso trattamento a situazioni dissimili, e con l'art. 32 Cost., per il pregiudizio alla salute della donna, ed eventualmente del feto, ad esso connesso.

La contraddizione massima era poi rappresentata dal sostanziale divieto di accedere alle tecniche di PMA da parte di coppie che non fossero sterili (art 1 comma 2 – art 4 comma 1) ai fini di una diagnosi preimpianto dell’embrione nel caso vi fosse il pericolo di trasmissione di malattie genetiche, essendo in questo caso solo possibile a ricorrere all’aborto terapeutico (i giudici di merito, caduto il limite di tre embrioni ed il divieto di criocongelazione, già avevano ritenuto ammissibile la diagnosi preimpianto per coppie sterili, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa: (cfr. Trib. Cagliari ord 22-24.9.2007, Trib. Firenze ord. 17.12.2007, Trib Firenze ord. 11.7.2008, Trib. Firenze ord. 23.8.2008, Trib. Milano ord. 8.3.2009 Trib. Salerno ord. 9.1.2009).

La Corte EDU 28 agosto 2012, Costa e Pavan c/ Italia, ha condannato l’Italia proprio perché ha ritenuto irragionevole vietare la diagnosi preimpianto consentendo poi di ricorrere all’aborto terapeutico, con le ovvie conseguenze sulla salute fisica e psichica della donna, partendo dal presupposto che il desiderio della coppia di mettere al mondo un figlio non affetto dalla malattia genetica di cui erano portatori sani e di ricorrere a tal fine alla PMA ed alla diagnosi preimpianto rientrava nella tutela offerta dall’art 8 CEDU. La coppia, che aveva già un figlio ammalato di fibrosi cistica, aveva fatto altri tentativi tutti sfociati in aborti terapeutici perché il feto era ammalato. Per questa coppia l’unica possibilità di avere un figlio libero dalla malattia era ricorrere alla PMA onde poter effettuare una diagnosi sull’embrione prima dell’impianto.

Dopo tale decisione, ormai divenuta definitiva, si aprono due strade ai giudici di merito:

a) ritenere la decisione direttamente applicabile (così Tribunale di Roma, ord. del 23 settembre 2013, GD Galterio, nel procedimento d’urgenza introdotto dalle stesse parti Costa e Pavan che ha autorizzato il ricorso alla PMA ed alla diagnosi preimpianto), sul presupposto della portata immediatamente precettiva delle sentenze  CEDU, sancita dall’art.46 della Convenzione, e dell’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia, dotata di immediata precettività nel caso concreto (Cass. S.U. 23.12.2005 n.28507), ritenendo che la rimessione alla Corte Costituzionale dovrà essere limitata alle sole questioni che pur in presenza di una regola CEDU autoapplicativa, evidenzino un possibile contrasto tra quest’ultima e i principi supremi dell’ordinamento costituzionale;

b) oppure il ricorso alla Corte Costituzionale per la dichiarazione di incostituzionalità in relazione all’art 117 Cost. ed 8 e 14 CEDU (così Tribunale di Roma nell’ambito di un procedimento di urgenza introdotto al fine di autorizzare la PMA e la diagnosi preimpianto, ord. 14 gennaio 2014), seguendo l’orientamento della Corte costituzionale (sentenze del 22-24 ottobre 2007, n.348 e 349 e n.39/2008, n. 311/2009) secondo il quale la giurisprudenza CEDU non può essere assimilata al diritto comunitario perché non crea un ordinamento giuridico sopranazionale, ma è diritto internazionale pattizio, capace di vincolare lo Stato, ma non produttivo di effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da legittimare i giudici nazionali a disapplicare le norme interne in contrasto. L’art. 117, comma 1, Cost., cioè, andrebbe interpretato come disposizione capace di riconoscere alle norme CEDU forza passiva superiore a quella delle leggi ordinarie, ma non di elevare le stesse al rango di fonte costituzionale; pertanto il giudice ordinario deve in primo luogo verificare se il conflitto tra disposizione legislativa e norma internazionale può essere eliminato adeguando, in via interpretativa, la norma legislativa a questa particolare norma interposta; se ciò si rivela impossibile, deve sollevare dinanzi alla Corte costituzionale una questione di legittimità costituzionale della disposizione legislativa rispetto al parametro dell’art. 117, comma 1, Cost .

Dopo questo excursus sulla riscrittura giurisprudenziale e costituzionale della legge 40 credo sia utile affrontare gli ulteriori nodi critici posti recentemente all’attenzione della giurisprudenza.

Il progresso scientifico e l’evolversi delle tecniche di riproduzione hanno fatto emergere diverse figure genitoriali: madre genetica, madre biologica, madre sociale, padre genetico, padre sociale), ponendo il problema della regolamentazione dei diversi rapporti di filiazione in ipotesi di ricorso a tecniche procreative vietate dalla legge (cd. maternità surrogata) o non compiutamente disciplinati dalla normativa.

In tutte le ipotesi nelle quali è coinvolto un minore il criterio guida per il giudice nella difficile operazione di bilanciamento degli interessi in conflitto deve essere quello della prevalenza dell’interesse del minore (art 3 Convenzione di NW) ed il principio che ormai governa i rapporti di filiazione è quello dell’autoresponsabilità: l’assunzione di responsabilità in ordine alla genitorialità (non a caso con la recente riforma della filiazione si è abbandonato il concetto di potestà genitoriale passando a quello di responsabilità genitoriale), perdendo di rilevanza la verità genetica del rapporto di filiazione in favore dei rapporti familiari concretamente instaurati.

Uno dei temi che è stato oggetto di ampio dibattito tra i giuristi ed in ambito politico fin dagli anni 80, quando erano in gestazione diversi disegni di legge sulla PMA, è quello della maternità surrogata, non solo se tale tecnica fosse ammissibile nel nostro ordinamento, ma anche se dovesse prevalere, in caso di conflitto, la madre genetica o la madre uterina.

Il legislatore ha scelto di vietare tale tecnica, applicando anche una sanzione penale in caso di violazione, inoltre ha scelto di legare la maternità sempre e comunque al fatto storico del parto (art 269 comma 3 c.c.).

Il problema si pone comunque perché vi sono coppie italiane o miste che vanno all’estero, dove tale tecnica è consentita e viene riconosciuto il rapporto di filiazione in capo alla coppia committente, tornando poi in Italia dove chiedono la trascrizione degli atti di nascita dai quali risultano genitori. Il problema si pone anche per le coppie omosessuali che ricorrono a tale tecnica.

La CEDU è intervenuta in diverse occasioni. La prima, con le sentenze gemelle del giugno 2014 ha condannato la Francia che rifiutava di trascrivere gli atti di nascita relativi a dei bambini nati negli Stati Uniti grazie ad un contratto di “maternità surrogata”. La CEDU ha condannato la Francia, ove la maternità surrogata è vietata,  nonostante l’ordinamento francese non impedisse che i figli vivessero regolarmente con i genitori, ma rilevando gli incovenienti per i minori derivanti dal dovere utilizzare per ogni adempimento burocratico gli atti di nascita statunitensi tradotti ed apostillati e dal mancato riconoscimento della cittadinanza francese (in questo caso il padre era anche il genitore genetico dei bambini, mentre l’ovocita era proveniente da un terzo donatore).

La Corte in questo caso non è entrata nel merito della discrezionalità del legislatore francese di vietare il ricorso a tali tecniche di procreazione, sul quale non c’era peraltro adeguato consenso tra gli stati aderenti alla convenzione, ma ha fatto riferimento al prevalente interesse del minore a vedere riconosciuti i legami familiari concretamente instaurati e consolidati nel tempo (a tale soluzione era giunta in Italia la Corte d’Appello di Bari con la nota sentenza del 13 febbraio 2009, estensore Labellarte, sempre sul presupposto del preminente interesse del minore a mantenere i legami familiari concretamente instaurati).

Di una questione simile ha dovuto recentemente occuparsi anche la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 24001/2014 del 26 settembre 2014 – sez 1 civile, ha rigettato il ricorso di una coppia avverso la dichiarazione di adottabilità di un bambino avuto all’estero attraverso tali tecniche. La coppia era stata anche sottoposta a procedimento penale per il reato di alterazione di stato. Il bambino era stato affidato ad una famiglia e successivamente ne era stato dichiarato lo stato di adottabilità.

La Corte ha sostenuto che nel caso in questione non erano applicabili le sentenze CEDU sopra richiamate perché anche il padre, così come la madre, non era il padre genetico del bambino, il divieto di pratiche di surrogazione era di ordine pubblico (come già suggerisce la sanzione penale prevista) in considerazione della tutela della dignità umana della gestante e della violazione della legge sull’adozione, alla quale solo l’ordinamento affiderebbe la realizzazione di progetti di genitorialità privi di legami biologici con il nato. Ha, quindi, ritenuto che il preminente interesse del minore si realizza, attraverso una valutazione effettuata a monte dal legislatore, attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando all’istituto dell’adozione (con le conseguenti garanzie giurisdizionali) e non all’accordo delle parti la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico.

 Tale sentenza, laddove allude ad una valutazione dell’interesse preminente del minore che prescinde dal caso concreto si discosta non solo da quanto stabilito nelle convenzioni internazionali alle quali l’Italia ha aderito (l’art 3 della convenzione di NY, ratificata con Legge 27 maggio 1991, n. 176,  testualmente recita: “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente”), ma anche dalla giurisprudenza delle corti europee che alludono sempre ad una valutazione da effettuarsi caso per caso.

Non a caso a tale sentenza è seguita una condanna dell’Italia da parte della CEDU per la violazione dell’art 8 CEDU con la sentenza del 27.1.015 nel caso Paradiso e Campanelli contro Italia.

Si trattava di un caso del tutto analogo a quello esaminato dalla Cassazione: contratto di maternità surrogata effettuato all’estero ove la coppia committente, italiana, non aveva legami genetici con il nato (sia l’ovocita che i gameti maschili erano di terzi); il Tribunale per i minorenni inizia il procedimento per la dichiarazione dello stato di abbandono e di adottabilità del minore, nato nel febbraio 2011, che nell’ottobre 2011 veniva allontanato dalla casa dei ricorrenti, posto in una casa famiglia, e nel gennaio 2013 affidato ad una nuova famiglia. La Corte ritiene che l’allontanamento del bambino abbia costituito un’indebita ingerenza nella vita privata e familiare, affermando che l’art 8 CEDU si applica in situazioni in cui vi siano legami familiari di fatto e non solo di diritto. La Corte non entra nel merito della legittima discrezionalità dello stato di vietare tali pratiche di procreazione, ma sostiene che in ogni caso, nelle situazioni nelle quali è coinvolto un minore, l’interesse superiore di questi deve comunque prevalere ed essere l’oggetto principale dell’opera di bilanciamento fra interesse del singolo e quello della comunità.

Ai principi espressi dalle sentenza CEDU sopra richiamati si sono riferiti i giudici di merito in recenti importanti decisioni:

- il Trib. Varese, GUP, 8 ottobre 2014 (est. Stefano Sala), ha ritenuto che le dichiarazioni di nascita relative ad un rapporto di filiazione a seguito di maternità surrogata costituisse un falso innocuo;

- la corte d’Appello di Torino con decreto del 29 ottobre 2014 ha autorizzato la trascrizione dell’atto di nascita di un minore nato in Spagna con la fecondazione eterologa da due madri una italiana e l’altra spagnola (una aveva portato avanti la gravidanza con ovocita dell’altra), poiché, nel caso in questione, non si tratta di introdurre ex novo una situazione giuridica inesistente ma di garantire la copertura giuridica ad una situazione di fatto in essere da diverso tempo, nell'esclusivo interesse di un bambino che è stato cresciuto da due donne che la legge  spagnola – luogo di nascita del figlio - riconosce entrambe come madri. Assume rilievo determinante la circostanza che la famiglia esista non tanto sul piano dei partners ma con riferimento alla posizione, allo status e alla tutela del figlio. Nel valutare il best interest per il minore non devono essere legati fra loro, il piano del legame fra i genitori e quello fra genitore-figli: l'interesse del minore pone, in primis, un vincolo al disconoscimento di un rapporto di fatto, nella specie validamente costituito fra la co-madre e un figlio.

Il principio del superiore interesse del minore è stato posto alla base anche dell’ordinanza sullo scambio di embrioni della quale sono stata estensore.

La situazione credo sia nota per essere stata a lungo oggetto di dibattito tra i giuristi e sui media già prima di approdare davanti al giudice.

L’udienza si è tenuta quando i gemelli erano già nati ed iscritti all’anagrafe con figli della madre biologica e del di lei marito. E’ stato, quindi, chiesto dai genitori genetici di sollevare la questione di costituzionalità delle norme che legavano la maternità al fatto storico del parto e precludevano alla madre genetica di contestare lo stato di figlio ed al padre genetico di proporre l’azione di disconoscimento di paternità. I convenuti hanno dedotto che la fattispecie andava ascritta ad un’ipotesi di fecondazione eterologa.

In realtà la disciplina della fecondazione eterologa non poteva applicarsi mancando il consenso informato relativo all’accesso a tale tecnica (essendosi acquisito il consenso solo in ordine alla fecondazione omologa), né poteva essere inquadrata tra le ipotesi di maternità surrogata, mancando il consenso della madre biologica.

Nella pronuncia si sottolinea come: “Il rapporto di filiazione - ed il conseguente diritto all’identità personale - si è andato sempre più sganciando nel nostro ordinamento dall’appartenenza genetica,  potendosi rinvenire, grazie anche al rilievo “rivoluzionario” delle nuove tecniche riproduttive, diverse figure genitoriali; “la madre genetica” (la donna cui risale l’ovocita fecondato), “la madre biologica” (colei che ha condotto la gestazione), e la madre sociale (colei che esprime la volontà di assumere in proprio la responsabilità genitoriale); il padre genetico ed il padre sociale. Figure che possono anche di fatto non coincidere.

Mentre il concetto di famiglia si è andato, dal canto suo, sempre più sganciando dal dato biologico e genetico degli appartenenti, venendo concepita sempre più come luogo degli affetti e della solidarietà reciproca, prima comunità ove si svolge e sviluppa la personalità del singolo; d’altra parte millenaria filosofia dell’uomo ha identificato nella famiglia l’archetipo della comunità sociale.

Tutte le più recenti pronunce dei giudici interni o europei che si sono trovate a dover dirimere interessi in conflitto relativi al rapporto di filiazione, sono fondate sulla valutazione del dato concreto del legame affettivo familiare ed hanno come punto di riferimento l’interesse del minore (secondo quanto stabilito dalla Convenzione sui diritti dell’Infanzia approvata dalle Nazioni Unite il 20.11.1989 e ratificata in Italia dalla L. n. 176/91) ed il principio di “autoresponsabilità” che deve sottendere al rapporto genitoriale, che trova il proprio fondamento nell’obbligo di solidarietà sancito dall’ art. 2 della Costituzione, mettendo, quindi, seriamente in discussione il principio del carattere necessariamente biologico  o genetico del rapporto di filiazione.” (v., oltre alle sentenze già citate, Cass. 2315/99 Sul divieto di disconoscimento di paternità da parte del marito che ha dato il consenso alla fecondazione eterologa, poi recepito dalla legge 40, sent. Corte Cost n. 50/2006 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art 274 c.c., sentenza C. Cost. n. 31 del 2012 che, rivedendo un precedente orientamento in base al quale aveva rigettato la medesima questione, ha dichiarato la parziale incostituzionalità della pena accessoria al reato di alterazione di stato previsto dall’art. 567 c.p., sent. del Trib di Roma n. 9563 del 2012, io estensore, sull’impugnazione del riconoscimento di compiacenza).

Pure “Il legislatore italiano della riforma della filiazione, infatti, nel rivedere la disciplina delle azioni di disconoscimento di paternità e  di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ha previsto un termine tombale di cinque anni per il loro esercizio, anche nei casi di sospensione previsti dalla legge, dando prevalenza all’interesse del minore alla stabilità del rapporto di filiazione ed a non recidere i legami familiari e di affetti che ne fondano l’identità, sulla verità genetica o biologica del rapporto di filiazione.

Il legislatore ha accolto il principio in base al quale la tutela del diritto allo status ed alla identità personale può non identificarsi con la prevalenza della verità genetica.”  …

Il diritto della personalità costituito dal diritto all’identità appare sempre più sganciato dalla verità genetica della procreazione e sempre più legato al mondo degli affetti ed al vissuto della persona cresciuta ed accolta all’interno di una famiglia.

Se è vero che la famiglia è sempre più intesa come comunità di affetti piuttosto che come istituzione posta a tutela di determinati valori, incentrata sul rapporto concreto che si instaura tra i suoi componenti, ne deriva che al diritto spetta di tutelare proprio quei rapporti, ricercando un equilibrio che permetta di bilanciare gli interessi in conflitto, avendo sempre come riferimento il prevalente interesse dei minori coinvolti.

Non può più ragionevolmente ritenersi che il principio della verità genetica nei rapporti di filiazione sia sovraordinato rispetto agli altri interessi in conflitto.

Ho ritenuto, quindi, che le norme che venivano in questione nel caso in esame, che legavano la maternità al fatto storico del parto, non fossero in contrasto con l’interesse preminente dei due minori a mantenere il legame con colei che li aveva partoriti, in quanto è nell’utero materno che la vita si forma e si sviluppa e si crea il legame simbiotico del neonato con la madre.

La soluzione opposta, tra l’altro, “attribuirebbe legittimità giuridica ad una coattiva maternità di sostituzione, con la rinuncia imposta ad un figlio che pure la madre biologica ha condotto alla vita. Soluzione che è totalmente inconciliabile con il diritto della donna che ospita il feto all’intangibilità del suo corpo e, pertanto, ad assumere ogni decisione in ordine alla sua gravidanza, nonché gravemente lesiva della dignità umana della gestante.

In ordine ai rischi di instabilità dello status dei nati, sempre dal punto di vista della concreta valutazione di quale fosse in concreto il loro interesse, ho ritenuto applicabili per analogia le norme previste per la fecondazione eterologa, che proprio fondandosi sul principio di autoresponsabilità di chi si obbliga ad accogliere un figlio che sa non avere il proprio patrimonio genetico, stabiliscono il divieto di disconoscimento di paternità o di impugnazione del riconoscimento e della madre di chiedere di non essere nominata. “Non può infatti attribuirsi a chi abbia consapevolmente deciso di assumersi la responsabilità di accogliere un soggetto come figlio, consapevole di non esserne il genitore genetico, di poter porre nel nulla uno status che ha contribuito consapevolmente a formare”.

Il diritto di autodeterminazione del singolo è quello che informa le decisioni in ordine al tema di fine vita.

Il diritto alla vita, tutelato dall’art 2 della CEDU, è un valore fondamentale delle società democratiche. Sul tema di quando comincia la vita, considerata la delicatezza e le opzioni differenti determinate dalle differenti opzioni culturali, il nostro codice civile è abbastanza chiaro identificandola con la nascita e la CEDU, sebbene abbia un atteggiamento molto cauto sembra essere delle stessa opinione.

Quanto al fine vita, il nostro ordinamento non consente il cd. suicidio assistito (od eutanasia), mentre la CEDU ha avuto modo di pronunciarsi sul punto in diverse occasioni ed in tale contesto è stato tratteggiato il diritto all’autodeterminazione della persona, che ha fondato anche la decisione della Corte di cassazione sul caso Englaro.

La CEDU ha più volte affermato che dall’art 3 della Convenzione, che vieta i trattamenti degradanti non può farsi discendere un obbligo dello stato di consentire a terzi di porre fine alle sofferenze di chi si trovi in uno stato grave di malattia e sofferenza, anche al fine di scongiurare rischi di abuso nei confronti delle persone più fragili e vulnerabili. d’altro canto l’imposizione di un trattamento medico a persona adulta e sana di mente può costituire un attentato all’integrità fisica della persona in violazione dell’art 8 (v. sent. nel caso Pretty c/ Regno Unito, e 20 gennaio 2011 Haas contro Svizzera), quindi una persona potrebbe rivendicare il diritto di morire rifiutando di consentire ad un trattamento che potrebbe avere l’effetto di prolungargli la vita (v. Cedu 10 giugno 2010 testimoni di Geova di Mosca c/Russia). Il diritto di autodeterminazione trova conferma nel nostro ordinamento, che prevede che le cure sono di norma volontarie, sulla base di un consenso adeguatamente informato, e nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non è previsto dalla legge. Il paziente ha diritto a ricevere tutte le informazioni in ordine alla natura ed ai possibili sviluppi di un percorso terapeutico, nonché in ordine alla eventuale sussistenza di terapie alternative, in modo da garantire una scelta libera e consapevole da parte sua.

La CEDU, quindi, fonda il diritto all’autodeterminazione sull’art 8 della convenzione, abbracciandone una nozione ampia ed ha ritenuto (v. Haas c/Svizzera cit.) che rientri tra le prerogative tutelate dall’art 8 CEDU il diritto di un individuo di porre fine alla propria esistenza, in modo dignitoso, allorché la scelta sia frutto di una ben ponderata volontà.

Il problema è se il soggetto non sia in condizioni tali da poter esprimere una propria volontà e quindi della rilevanza delle direttive eventualmente date quando era capace o dell’interpretazione postuma della sua volontà.

L’indagine in merito deve assumere un particolare vigore, tenuto conto che nel dubbio l’ordinamento privilegia sempre la vita.

La Corte di cassazione sul caso Englaro si è rifatta a tali principi, consentendo la ricostruzione in via presuntiva della volontà della persona in stato di incoscienza, non potendo questa essere sostituita da quella del rappresentante legale, trattandosi di un diritto personalissimo

04/05/2015
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