Sommario: 1. Profili processuali: in ispecie, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale “sopravvenuta” e la delimitazione temporale degli effetti dell’annullamento. – 2. Profili sostanziali: in ispecie, lo scollamento tra il mezzo (la libertà sindacale) e il fine (la salvaguardia delle condizioni costituzionali relative alla commisurazione della retribuzione).
1. Profili processuali: in ispecie, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale “sopravvenuta” e la delimitazione temporale degli effetti dell’annullamento
Non sembra conoscere limite la tendenza in atto manifestata dalla Consulta a fare un uso “libero” e – se posso esser franco – alquanto disinvolto, a misura dei singoli casi e delle loro complessive esigenze, dei canoni che governano il processo costituzionale, una tendenza di cui si sono avute nell’anno passato e in quello in corso vistose e, a mia opinione, preoccupanti testimonianze: tra le più salienti, la stupefacente “scoperta” secondo cui l’oggetto del giudizio può esser dato altresì da norme consuetudinarie (sent. n. 238 del 2014) e la risoluta messa da canto della incidentalità ad opera della sent. n. 10 del 2015. Proprio quest’ultima decisione presenta evidenti assonanze con la pronunzia qui annotata, distinguendosi nondimeno – come subito si vedrà – per taluni aspetti di non secondario rilievo.
Molti gli spunti di largo interesse teorico presentati dalla decisione in commento. In questa nota mi soffermo unicamente su un paio di essi che considero meritevoli di particolare attenzione.
Il primo e, dal mio punto di vista, più rilevante è dato dalla carente motivazione a sostegno della decisione, qui nuovamente presa, di far decorrere gli effetti dell’annullamento a far data dalla pubblicazione della decisione stessa. Non torno ora a ripetere i rilievi critici che ho ritenuto di muovere avverso una manipolazione siffatta degli effetti temporali prodotti dalle pronunzie ablative, esposti a commento della sent. n. 10, sopra cit.[1]. Qui, però, si va ancora oltre e, diversamente dal caso definito con la decisione appena richiamata, si lascia intendere che non di vera manipolazione si tratta, essendo presentata la delimitazione temporale degli effetti come linearmente discendente dal carattere (non già “originario” bensì) “sopravvenuto” della illegittimità costituzionale della normativa caducata. Quest’ultima, insomma, fino ad oggi non era affetta dal vizio denunziato con la proposizione della questione alla Corte; lo è divenuta solo a partire dalla decisione che lo ha accertato, con la conseguenza che la normativa stessa viene a perdere effetti unicamente dal momento in cui il vizio stesso si forma: produzione del vizio e applicazione della sanzione a carico della norma che ne è responsabile fanno, per l’aspetto temporale, tutt’uno. “Solo ora” infatti – ci dice la Corte[2] – “si è palesata appieno la natura strutturale della sospensione della contrattazione e può, pertanto, considerarsi verificata la sopravvenuta illegittimità costituzionale, che spiega i suoi effetti a séguito della pubblicazione di questa sentenza”. Si faccia poi caso alla circostanza per cui, ammaestrata dall’infedele “seguito” dato dal giudice remittente alla sent. 10, con lo specioso argomento che nulla in modo esplicito si diceva nel dispositivo a riguardo della decorrenza dell’effetto ablativo a far data dalla pubblicazione della decisione che lo ha prodotto[3], nella pronunzia cui si dirige questo breve commento la Corte si premura di precisare che la dichiarazione d’illegittimità costituzionale avrà decorso dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza, richiamando inoltre la motivazione e così quodammodo incorporandola nel dispositivo stesso.
La conclusione suona, per vero, sorprendente, per almeno un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, nessun segno premonitore si vede – perlomeno, non è riuscito a me di vedere – nel pur articolato ragionamento che precede l’affermazione sopra fedelmente trascritta tale da far pensare alla venuta alla luce solo oggi del vizio (e, perciò, alla necessaria caducazione della normativa che ne è affetta “a partire da…”). La Corte enuncia infatti le ragioni che, a suo dire, inducono a qualificare come invalida la normativa stessa in relazione al disposto di cui all’art. 39 della Carta; in nessun passaggio della parte motiva, tuttavia, si fa capire perché l’invalidità sarebbe “sopravvenuta”. La conclusione spunta, insomma, come un fungo a ciel sereno e non risulta sorretta da argomenti idonei ad avvalorarla.
In secondo (e però ancora più rilevante) luogo, appare singolare l’uso qui fatto della categoria della illegittimità costituzionale “sopravvenuta”.
Su ciò è necessario fare chiarezza.
La “sopravvenienza” in parola rimanda, infatti, ad un mutamento del parametro intervenuto in un tempo posteriore alla produzione dell’atto oggetto del giudizio. Il mutamento può, poi, essere essenzialmente di due tipi: normativo e fattuale; può, cioè, interessare direttamente o esclusivamente la norma-parametro oppure riguardare elementi del mondo reale (del “fatto”, appunto) idonei ad essere sussunti entro il parametro stesso e, perciò, a farsi, per la loro parte, parametro[4].
Tanto l’oggetto quanto il parametro, a mio modo di vedere, non risultano, dunque, da pure norme bensì da un mix di norme e fatti, secondo combinazioni peraltro assai varie in ragione del peculiare modo con cui è posta la singola questione. Possiamo, poi, discutere – ma il punto non è ora di specifico interesse e, comunque, obbligherebbe ad uno studio teorico approfondito, di cui è di necessità altra la sede – se, in questo o quel caso, sia maggiore l’apporto che viene dalla norma ovvero quello offerto dal fatto, quale cioè la “misura” del concorso offerto dagli elementi che fanno la questione stessa, al fine della sua complessivamente peculiare connotazione. Possiamo, volendo, sciogliere il nodo teorico ora accennato, ragionando nel senso che la stessa norma, al momento della sua estrazione dai materiali positivi, risente profondamente, strutturalmente, della considerazione del “fatto”, al punto da non potersi neppure distinguere più da questo (una impostazione, quella appena evocata, che poi, con ogni probabilità, obbligherebbe a ripensare la stessa usuale distinzione tra sein e sollen nell’esperienza giuridica).
Sta di fatto che il sindacato di ragionevolezza – ché di questo, in buona sostanza, si tratta – si risolve, e non può non risolversi proprio in ciò: in un giudizio di congruità, a un tempo, rispetto a fatti e a norme, secondo valore.
Ci si deve allora chiedere quale sia il quid novi, determinante, che oggi, e solo oggi, porta a qualificare come invalida la disciplina sottoposta al sindacato della Corte.
V’è di più. È vero che le vicende del giudizio a quo sono (relativamente) separate da quelle del giudizio ad quem, ma la regola – regola sistematicamente osservata, dalla quale solo da ultimo la Corte mostra di volersi discostare – è quella del collegamento funzionale intercorrente tra i giudizi stessi, un collegamento che ha il perno attorno al quale ruota e dal quale stabilmente si tiene nella incidentalità, in ragione ed a garanzia della quale la pronunzia del giudice costituzionale è naturalmente portata a spiegare effetti nel processo da cui origina la questione con la stessa decisa. Anche quando l’illegittimità costituzionale è “sopravvenuta” – qui è il punto trascurato nella decisione in commento – il verdetto della Consulta, per norma, spiega (e deve poter spiegare) effetti nel giudizio a quo. Laddove, invece, non avrebbe potuto spiegarli, senza che l’autorità remittente se ne sia avveduta, la questione sarebbe da considerare manifestamente infondata o – di più – inammissibile per… inesistenza, vale a dire per inesistenza del vizio, essendo chiaro che l’autorità stessa può adire il giudice costituzionale unicamente in quanto già al momento dello svolgimento del giudizio si sia reso palese (o, quanto meno, sospetto) il contrasto tra norma-parametro e norma-oggetto.
Qui, invece, abbiamo una illegittimità “sopravvenuta” sui generis, con un vizio che nasce e muore lo stesso giorno, per mano del giudice che lo dichiara e che, allo stesso tempo, ne accerta la mancanza al momento della remissione degli atti alla Consulta.
Ora, ammettiamo pure (senza tuttavia concedere) che ciò possa astrattamente aversi. Si fatica, nondimeno, a comprendere (o – a dirla tutta – non si capisce affatto) perché ciò si abbia nel caso odierno.
Come si vede, finisce così con l’essere rimessa in gioco la stessa natura giurisdizionale dell’attività nella circostanza svolta dalla Corte. La “giurisdizionalità” fa, infatti, tutt’uno con la motivazione, la quale poi poggia (o dovrebbe poggiare…) su una giustificazione sostanziale, che la sorregge e che è da quella resa palese. Una decisione priva di motivazione o – il che è praticamente lo stesso – corredata di una motivazione carente è un atto di autorità allo stato puro.
In altri luoghi[5], mi sono interrogato sulla condizione di decisioni siffatte, in ispecie se esse godano in ogni caso della formidabile “copertura” offerta dal disposto di cui all’art. 137, ult. c., cost. ovvero se la “copertura” stessa presupponga l’esistenza di una decisione (pur se astrattamente illegittima), elemento costitutivo della quale è appunto la motivazione, intesa non già in senso formale (scolastica l’ipotesi che essa sia del tutto assente) bensì in senso sostanziale, pur nelle obiettive difficoltà del relativo accertamento, che invero viene a prendere corpo su un terreno altamente infido e scivoloso.
Non torno ora a dirne né, dunque, m’interrogo sulle conseguenze discendenti da un’impostazione siffatta, specie con riguardo ai possibili “seguiti” nei giudizi comuni dati a pronunzie della Consulta in tesi sprovviste della “copertura” suddetta[6]. Mi limito solo a riproporre il problema, segnalando che nella più recente giurisprudenza si danno non pochi esempi di motivazioni insufficienti, che poi rendono per la loro parte eloquente testimonianza di quella tendenza ad un’accentuata colorazione politica della giurisprudenza stessa, di cui si hanno numerose e preoccupanti tracce, peraltro ampiamente rilevate dagli studi della più sensibile ed avveduta dottrina.
2. Profili sostanziali: in ispecie, lo scollamento tra il mezzo (la libertà sindacale) e il fine (la salvaguardia delle condizioni costituzionali relative alla commisurazione della retribuzione)
Il secondo punto riguarda il merito della questione oggi decisa.
La Corte non accoglie le lagnanze relative alla supposta violazione degli artt. 53[7], 3 I c.[8], 2[9] e, per ciò che qui più da presso importa, 36 della Costituzione; fa, tuttavia, come si diceva, ugualmente cadere la normativa sottoposta a giudizio per violazione dell’art. 39.
Ora, è fuor di dubbio che la libertà sindacale abbia una sua propria, complessiva configurazione, che la rende meritevole di una parimenti specifica protezione. Opportuni e degni di ogni apprezzamento, al riguardo, sono i riferimenti alle fonti internazionali e sovranazionali[10]; invito, in particolare, a fermare l’attenzione sul passo in cui si rivela che “l’interpretazione della fonte costituzionale nazionale si collega sincronicamente con l’evoluzione delle fonti sovranazionali e da queste trae ulteriore coerenza”[11]: un importante riconoscimento del rilievo posseduto dalle norme di origine esterna in ordine al concorso da esse offerto alla incessante rigenerazione semantica degli enunciati di diritto interno, a partire appunto da quelli costituzionali, ed allo specifico fine della salvaguardia della linearità e coerenza del processo interpretativo.
Ciò posto, nessun dubbio ugualmente si ha a riguardo del fatto che la libertà in parola ha il terreno elettivo sul quale si svolge e nel quale rinviene giustificazione nel garantire ai lavoratori una retribuzione rapportata ai parametri indicati nell’art. 36 (e, tra questi, in ispecie, alle condizioni di vita dignitose che, per il tramite della retribuzione stessa, devono comunque essere assicurate al lavoratore ed alla sua famiglia). Come la stessa Corte si fa cura di rammentare[12], “la contrattazione deve potersi esprimere nella sua pienezza su ogni aspetto riguardante la determinazione delle condizioni di lavoro, che attengono immancabilmente anche alla parte qualificante dei profili economici”.
Si tratta, dunque, d’intendersi. Se la crisi economica grava, ancora al presente, su tutti noi e sull’intero Paese (e – come si sa – non solo sul nostro), l’art. 36, per effetto del bilanciamento al quale è obbligato con le “ragioni” della crisi stessa, può trovarsi costretto, almeno in una certa misura, a recedere: patisce, sì, una lesione grave, così come l’ha patita in tutti questi anni, nondimeno giustificata nel perdurante stato di emergenza in cui versa il Paese stesso. Ma, se la crisi, che ha tra le altre misure portato al blocco della contrattazione nel pubblico impiego, non è ancora cessata, secondo un dato di comune acquisizione, sì da non potersi rilevare la violazione dell’art. ora cit., quale può mai essere il senso della salvaguardia che, anche nella presente congiuntura, dev’essere assicurata alla libertà sindacale? Come può esservi, insomma, allo stesso tempo, lesione dell’art. 39 e non pure dell’art. 36, che della libertà in parola è il fine e il confine del suo svolgimento? Piuttosto, la violazione dell’uno non può che essere la diretta, immediata e necessaria conseguenza della violazione dell’altro disposto, il primo facendo riferimento allo strumento e il secondo al fine per il suo tramite perseguito.
V’è solo un modo, a mia opinione, per uscire da quest’impasse: ammettere che, malgrado la crisi, ieri come oggi il blocco risultava ingiustificato, vale a dire che non necessariamente esso era imposto dal bisogno di porre un argine alla rovinosa crescita dei conti pubblici. Ciò che, però, avrebbe comportato la caducazione della normativa impugnata con gli usuali effetti estesi altresì ai rapporti formatisi nel passato ed ancora pendenti.
Può darsi che, sin dall’inizio, potessero battersi altre strade conducenti alla meta del contenimento del debito pubblico; la Consulta, ad ogni buon conto, ci dice che la soluzione prescelta dall’autore della normativa giudicata non era irragionevole[13]. Ed allora, solo il venir meno o, quanto meno, un significativo ridimensionamento della crisi avrebbe potuto giustificare il superamento del blocco, vale a dire dar modo alla libertà sindacale di potersi efficacemente far valere a presidio dei diritti dei lavoratori, in primo luogo appunto per ciò che attiene alla piena salvaguardia della retribuzione in modo conforme al parametro costituzionale.
Qui è, dunque, il punctum crucis della questione ora discussa. E proprio qui però si rileva la lacuna più vistosa della costruzione giuridica eretta dalla Consulta. Quale che sia la situazione dell’emergenza in atto, il blocco della contrattazione – ci dice il giudice delle leggi – non può ulteriormente protrarsi: sarebbe irragionevole appunto[14]. Con il che, però, viene a spezzarsi il legame, secondo modello indissolubile, tra fatto e norma, tra l’emergenza e la disciplina adeguata a farvi fronte.
Insomma, è così perché è… così. Consapevole del “giudizio di… autorità” (ossimoro non casuale) adottato con la decisione qui annotata, la Corte chiude quest’ultima con un’apertura a beneficio del legislatore. È affare infatti di quest’ultimo sbrogliare la matassa e rinvenire altrove le risorse compensative richieste dal superamento del blocco (sulla cui ragionevolezza – è appena il caso di rammentare – la Corte può, nondimeno, sempre pronunziarsi…). Resta, perciò, riservato al legislatore stesso di definire “modi” e forme” (e, dunque, in buona sostanza, limiti) della “resuscitata” contrattazione collettiva, fermi restando ad ogni buon conto i vincoli di spesa alla cui osservanza lo Stato è pur sempre tenuto, specie a motivo della sua appartenenza all’Unione europea. Come, poi, assicurare la quadratura del cerchio si vedrà.
[1] Li si può, volendo, vedere nel mio Sliding doors per la incidentalità nel processo costituzionale (a margine di Corte cost. n. 10 del 2015), in www.forumcostituzionale.it, 9 aprile 2015.
[2] Punto 17 del cons. in dir.
[3] Disinvoltamente ignorato, dunque, nella circostanza il canone elementare della “totalità” della sentenza (a commento della decisione della Commissione tributaria di Reggio Emilia, che – come si sa – si è largamente rifatta ad un’indicazione di un’attenta dottrina: R. Romboli, L’“obbligo” per il giudice di applicare nel processo a quo la norma dichiarata incostituzionale ab origine: natura incidentale del giudizio costituzionale e tutela dei diritti, in www.forumcostituzionale.it, 2015, spec. al § 9), tra gli altri, A. Morelli, Principio di totalità e «illegittimità della motivazione»: il seguito giurisprudenziale della sentenza della Corte costituzionale sulla Robin Tax (a proposito di Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, 12 maggio 2015, n. 217/3/15), in Consulta OnLine, 2/2015, 28 maggio 2015, 483 ss.
[4] Dei Fatti “interposti” nei giudizi di costituzionalità, sacrifici insostenibili imposti ai diritti fondamentali in tempi di crisi economica, tecniche decisorie a salvaguardia dell’etica pubblica repubblicana, si tratta in un mio scritto che può vedersi in Consulta OnLine, 6 novembre 2014, dal quale possono, se si vuole, aversi maggiori ragguagli a riguardo dei concetti sinteticamente enunciati nel testo.
[5] … già a partire dalle mie Note introduttive allo studio della motivazione delle decisioni della Corte costituzionale (ordini tematici e profili problematici), in La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, a mia cura, Giappichelli, Torino 1994, 1 ss., spec. 24 ss.
[6] Inquieta l’idea di poter far valere in circostanze siffatte l’antico brocardo secondo cui quod nullum est nullum producit effectum: un esito, questo, pure linearmente discendente dalle premesse teoriche enunciate nel testo.
[7] Confesso di non riconoscermi alcuna competenza su questioni di diritto tributario, a riguardo delle quali dunque so di non poter dire nulla; a prima impressione, tuttavia, non mi parrebbe irresistibile la motivazione addotta (spec. al punto 9.1 del cons. in dir.) dalla decisione in esame, laddove si rammenta che tratti caratterizzanti delle prestazioni tributarie sono dati dalla previsione legislativa che le giustificano e dalla loro destinazione a “sovvenire le pubbliche spese” (espressione presa di peso dalla sent. n. 310 del 2013). Elementi che potrebbero, forse, considerarsi presenti anche in relazione al blocco della contrattazione.
[8] … sotto lo specifico aspetto dello sperequato trattamento riservato, rispettivamente, al lavoro pubblico ed a quello privato. Ha ragione la Corte a far notare (punto 9.2 del cons. in dir.) che, in via di principio, i lavori in parola “non possono essere in tutto e per tutto assimilati”; il punto non adeguatamente chiarito è, però, se l’assimilazione stessa aveva (ed ha) fondamento per gli aspetti in rilievo nel caso in esame.
[9] Anche per il versante della solidarietà misteriosa resta la ragione per cui, nel caso portato alla cognizione della Corte, essa può considerarsi legittimamente richiesta ai lavoratori del pubblico impiego e non pure a quelli del settore privato.
[10] … sulle quali, peraltro, potrebbero poggiare eventuali pretese risarcitorie in relazione al blocco della contrattazione anche per gli anni passati.
[11] Punto 16 del cons. in dir.
[12] … al punto 15.2 del cons. in dir.
[13] “La ragionevolezza delle misure varate discende anche dalla particolare gravità della situazione economica e finanziaria concomitante con l’intervento normativo” (punto 12.2 del cons. in dir.).
[14] V. spec. al punto 14.1 del cons. in dir.