Siano alle solite, tocca a noi
Siamo tutti in trepidante attesa della motivazione della sentenza del 12.2.2014 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale – per violazione dell’art. 77, secondo comma, della Costituzione, che regola la procedura di conversione dei decreti-legge – degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, come convertito con modificazioni dall’art. 1 della legge 21 febbraio 2006, n. 49, e che ha rimosso “… le modifiche apportate con le norme dichiarate illegittime agli articoli 73, 13 e 14 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309…”: così recita il comunicato emesso dalla Corte Costituzionale.
La dichiarazione di incostituzionalità colpisce la legge che eliminò la differenza tra “droghe leggere e pesanti” ed aumentò di molto le pene per le cd. droghe leggere: il “vecchio” comma 4 dell’art. 73 d.p.r. 309/1990, per le condotte penalmente rilevanti relative alle cd. droghe leggere, prevedeva una pena da due a sei anni e la multa da lire dieci milioni a lire centocinquanta milioni.
L’art. 73 d.p.r. 309/1990, modificato dalla legge (incostituzionale) di conversione del 2006, aumentò le pene, portando il limite minimo edittale da due a 6 anni di reclusione e quello massimo da 6 a 20 anni; la multa fu elevata con una oscillazione da € 26.000 ad € 260.000.
Salvo un intervento legislativo specifico, difficile da prevedere in periodo di crisi politica e di formazione del nuovo governo, alcuni effetti concreti sono prevedibili ed occorre che la magistratura si organizzi. Ancora una volta tocca a noi magistrati rimediare.
Alcune vicende recenti, collegate alla dichiarazioni di incostituzionalità o alla “crisi” del giudicato, ci possono aiutare a prevedere cosa accadrà.
Gli effetti sui termini di custodia cautelare
È bene che ogni ufficio controlli i processi o i procedimenti pendenti ex art. 73 d.p.r. 309/1990, relativi alle cd. Droghe leggere, perché il ritorno al passato, alla norma in vigore prima del 2006, determina la riduzione drastica dei termini di fase della custodia cautelare; per fare un esempio, nella fase delle indagini preliminari il termine di custodia cautelare di fase si riduce a tre mesi, tenuto conto dei limiti edittali del "vecchio" art.73 comma 4 d.p.r. 309/1990.
Dunque il controllo della misure cautelari in atto è quanto mai doveroso, perché con la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale la riduzione del termine di fase genererà l'estinzione di molte misure cautelari, ed è bene organizzarsi prima, per evitare il protrarsi di ingiuste detenzioni.
Il gioco dell’oca: le sentenze di patteggiamento
È segnata la sorte dei processi nei quali sono state emesse sentenze ex art. 444 c.p.p., per le fattispecie rientranti nel risorto comma 4 dell’art. 73 d.p.r. 309/1990, non definitive per la proposizione di ricorso per cassazione: è del tutto probabile che questi procedimenti saranno definiti dalla Suprema Corte con annullamento con rinvio.
Sul punto di veda Cass. Sez. 3ª, Sentenza n. 1460 del 26/03/1996:
In caso di patteggiamento per una pluralità di reati, qualora nel corso del giudizio uno dei reati venga depenalizzato (ma lo stesso vale in caso di abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale), il venir meno di uno dei termini essenziali del contenuto dell'accordo che ha portato al patteggiamento travolge l'intero provvedimento e impone l'annullamento della sentenza per una nuova valutazione delle parti. Non è perciò possibile una pronuncia di annullamento senza rinvio da parte della corte di cassazione limitatamente alla fattispecie venuta meno e la conseguente modifica nel computo della pena. (Nell'affermare il principio di cui in massima la corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata perché i fatti non sono più previsti come reato con riferimento alla contestazione dei reati di cui agli articoli 5 e 6 della legge 10 gennaio 1935, n. 112 e degli articoli 1 e 5 della legge 5 gennaio 1953, n. 4 in materia di collocamento dei lavoratori, essendo stati gli stessi depenalizzati dagli articoli 8 e 10 del D.L.G. 19 dicembre 1994 n. 758 e ha ordinato la trasmissione degli atti alla autorità procedente per un nuovo giudizio con riferimento alle ipotesi di reato già contestate e ancora vigenti).
Questo principio è stato di recente richiamato dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sez. I Penale, 16 ottobre 2012, n. 40464; nel caso esaminato dalla Corte, all’imputato erano stati contestati i reati ex art. 73 d.p.r. 309/1990 e 337 c.p., entrambi aggravati dall’art. 61 n. 11 bis c.p.; tale ultima norma è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 249 del 2010.
Ha ritenuto la Corte di cassazione che l’annullamento con rinvio si impone, nonostante che fosse stata riconosciuta prevalente l’attenuante di cui al comma 5, sia perché l’aggravante “incostituzionale” era stata contestata anche con riferimento al reato ex art. 337 c.p., sia perché, nonostante il giudizio di prevalenza, sulla determinazione della pena base e dell’aumento per la continuazione non si poteva escludere che avesse influito anche l’aggravante poi dichiarata incostituzionale.
Si torna al via, come nel gioco dell'oca, con conseguenti problemi di incompatibilità del giudice.
L’annullamento con rinvio è poi prevedibile anche per i ricorsi per cassazione avverso le sentenze di appello, perché occorrerà procedere ad una nuova valutazione di merito sull’entità della pena, adoperando il potere discrezionale del giudice.
La prescrizione
Alcuni processi invece non torneranno al via, ma moriranno velocemente nelle nostre aule.
Il termine massimo di prescrizione si riduce da 25 anni a 7 anni e 6 mesi: i ruoli, penso soprattutto alle Corti di Appello, sono stati organizzati tenendo conto dei più ampi termini di prescrizione; molti si troveranno o a fare le corse per evitare l'estinzione del reato o a prenderne atto.
Il paradosso di una legge che rispondeva a logiche repressive e securitarie è che la sua dichiarazione di incostituzionalità, a causa del cattivo uso del potere legislativo, produrrà l'estinzione di quei reati che si voleva punire più gravemente.
Le sentenze passate in giudicato
E per i processi già definiti? Cosa accadrà?
In sede di esecuzione il giudice potrà rideterminare la pena inflitta al condannato per quel reato reso più grave da una norma dichiarata incostituzionale?
Le vicende giudiziarie dei nostri tempi, a partire dal caso Scoppola per finire alla dichiarazione di incostituzionalità dell'art.61 n.11 bis c.p. (la circostanza aggravante della clandestinità) ci aiutano a trovare una risposta.
Una questione analoga infatti è già stata rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, quanto agli effetti della dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 69 comma quarto c.p., per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012:
Cass., Sez. I, ord. 20 novembre 2013, ric. P.m. in proc. Gatto: "se la dichiarazione di illegittimità costituzionale di norma penale sostanziale diversa dalla norma incriminatrice (nella specie dell'art. 69, comma quarto, cod. pen., in parte de qua, giusta sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012) comporti la rideterminazione della pena, vincendo la preclusione del giudicato".
E ha occupato la Suprema Corte a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 61 n. 11 bis c.p., anche qui con una duplicità di orientamenti.
Le norme che vengono in esame sono:
- l’art. 136 Cost: "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione";
- l'art. 673 cod. proc. pen., comma 1: "Nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice della esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti”;
- l’art. 30 comma 3 della legge 11 marzo 1953, n. 87: "Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione";
- l’art. 30 comma 4 della legge 11 marzo 1953, n. 87: "Quando in applicazione delle norme dichiarate illegittime è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali".
C'è un orientamento che possiamo definire "tradizionalista" che ha espresso i seguenti principi di diritto (cfr. Cass. Sez. 1ª, Sentenza n. 27640 del 19/01/2012):
L'art. 30, comma quarto, della l. n. 87 del 1953, relativo alla cessazione della esecuzione e di tutti gli effetti penali di sentenza irrevocabile di condanna in applicazione di norma dichiarata incostituzionale, è stato implicitamente abrogato dall'art. 673 cod. proc. pen., che ne ha completamente assorbito la disciplina.
Non è soggetta a revoca "in executivis" la sentenza di condanna intervenuta per reato aggravato da circostanza dichiarata costituzionalmente illegittima successivamente al suo passaggio in giudicato né è consentito al giudice dell'esecuzione dichiarare non eseguibile la porzione di pena corrispondente.
Tale orientamento si fonda sulla intangibilità del giudicato, nei limiti dell’art. 2 c.p., e limita l'applicazione dell'articolo 673 c.p.p., solo alla ipotesi di abrogazione o di dichiarazione di incostituzionalità di una norma incriminatrice.
Secondo tale orientamento, l’art. 673 c.p.p. non può essere interpretato né estensivamente né analogicamente, fino a ricomprendervi “… il caso della sopravvenuta dichiarazione della illegittimità costituzionale della previsione di una circostanza aggravante, ritenuta dal giudice e influente sul trattamento sanzionatorio inflitto colla condanna irrevocabile …”.
Inoltre, sempre secondo tale orientamento:
Nè la norma costituzionale, né le norme contenute negli ultimi due commi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, ostano alla esecuzione della pena, quando sulla determinazione del trattamento sanzionatorio (cristallizzato dal giudicato) ha influito una disposizione (come nella specie la aggravante dell'art. 61 cod. pen., comma 1, n. 11 bis) successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima.
Il giudicato è visto da questo orientamento quale “… limite invalicabile alla applicazione retroattiva della pronuncia della illegittimità costituzionale di una norma ...”; è “… il punto di arresto alla espansione della retroattività delle sentenze della Corte costituzionale …”.
Secondo questo orientamento, “… l'articolo 136 della Costituzione non offre alcun addentellato che suffraghi l'assunto che la dichiarazione della illegittimità costituzionale (della previsione) di una circostanza aggravante osti alla esecuzione, in parte de qua, della pena inflitta per effetto dell'applicazione della circostanza in parola …”.
Tale conclusione è ribadita quanto all’art. 30, comma 3 della legge 11 marzo 1953, n. 87, poiché la disposizione ricalca il testo dell'art. 136 Cost., comma 1.
Aggiunge però la Corte di Cassazione che con la pronuncia della sentenza irrevocabile di condanna “… si esaurisce la "applicazione" di ogni norma penale incidente sul trattamento sanzionatorio, laddove la esecuzione della pena trova esclusivamente titolo nel relativo provvedimento di irrogazione dalla sanzione, il quale, in virtù della efficacia preclusiva del giudicato, è affatto insensibile a ogni questione circa la "applicazione" della norma definitivamente operata dal giudice. Sicché in executivis non si pone - alla evidenza - alcuna questione di (ulteriore) applicazione della norma penale in parola ...”.
Quanto al comma 4 dell’art. 30 prima riportato, secondo la Corte tale norma ordinaria ha esteso l'efficacia della sentenza di illegittimità costituzionale “… oltre l'ambito previsto dal legislatore costituente, sicché la declaratoria di illegittimità della norma penale (incriminatrice) viene a incidere - comportandone la cessazione - sulla esecuzione del giudicato di condanna, altrimenti insensibile (alla esclusiva stregua dell'art. 136 Cost.) alla decisione del Giudice delle leggi …”.
Osserva la Corte che la mancata espressa indicazione, nel testo del quarto comma dell'articolo 30, della natura incriminatrice della norma penale dichiarata illegittima non può essere risolta nel senso della inclusione nella previsione normativa di tutte indiscriminatamente le norme penali sostanziali, e, pertanto, anche di quelle "non incriminatrici": la Corte segue, richiamandolo, il sedimentato orientamento della Suprema Corte, risalente al 1968 per il quale l'ultimo comma della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, “… che dispone la cessazione dell'esecuzione e di tutti gli effetti penali delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate in base a norma dichiarate incostituzionali, si riferisce alle sole norme incriminatrici dichiarate incostituzionali …" e non a quelle che abbiano previsto l’applicazione di circostanze aggravanti.
Afferma perentoriamente la Corte che:
“… l'effetto della cessazione (non solo della esecuzione, ma anche congiuntamente e perentoriamente) di "tutti gli effetti penali" della "sentenza irrevocabile di condanna" implica necessariamente - alla evidenza - il radicale presupposto della abolitio criminis. E, per vero, non è d'uopo indugiare sul punto della patente inconciliabilità del regime della cessazione di "tutti" gli effetti penali della condanna irrevocabile colla dichiarazione della illegittimità costituzionale di una mera circostanza aggravante del reato giudicato …”.
Conclude la Corte che l’identità di contenuto tra il comma 4 dell’art. 30 e l’art. 673 c.p.p. ha prodotto la abrogazione implicita della prima norma.
Orbene, questa tesi “tradizionale” della intangibilità assoluta del giudicato e restrittiva non è condivisibile: non tiene conto di quanto è accaduto negli scorsi anni, a partire dalla cd. vicenda Scoppola, e degli orientamenti maturati successivamente. Tali orientamenti non sono affatto isolati, ma anzi sono ora del tutto prevalenti.
Dell'articolo 30 comma 4, lungi dall’essersi prodotto un effetto di abrogazione implicita, è doverosa una interpretazione adeguatrice, che tenga conto della mutata realtà giuridica; interpretazione che affermi che gli effetti delle dichiarazioni di incostituzionalità riguardano non solo la norma incriminatrice ma anche la norma che preveda un aumento di pena derivante dalla introduzione di una circostanza aggravante o dalla modifica dei limiti edittali.
Questi principi, con riferimento all’ipotesi di dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 61 n. 11 bis c.p., sono stati affermati da più sentenze della Corte di Cassazione:
cfr. Cass. Sez. 1ª, Sentenza n. 977 del 27/10/2011: Gli artt. 136 Cost. e 30, commi terzo e quarto, legge n. 87 del 1953 non consentono l'esecuzione della porzione di pena inflitta dal giudice della cognizione in conseguenza dell'applicazione di una circostanza aggravante che sia stata successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima. (La Suprema Corte ha precisato che spetta al giudice dell'esecuzione il compito di individuare la porzione di pena corrispondente e di dichiararla non eseguibile, previa sua determinazione ove la sentenza del giudice della cognizione abbia omesso di individuarla specificamente, ovvero abbia proceduto al bilanciamento tra circostanze).
Cass. Sez. 1ª, Sentenza n. 19361 del 24/02/2012: La dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma di previsione di una circostanza aggravante (nella specie, dell'art. 61 n. 11-bis c.p.) impedisce che sia eseguita la porzione di pena, irrogata con sentenza irrevocabile, corrispondente all'indicata circostanza, spettando al giudice dell'esecuzione individuare la porzione di pena da eliminare.
Cass. Sez. 1ª, Sentenza n. 26899 del 25/05/2012: A seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale (v. Corte cost., n. 249/2010) dell'art. 61, n. 11 bis, cod. pen., introdotto dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, che ha previsto la nuova circostanza aggravante della commissione del fatto da parte di una persona che illegalmente si trovi sul territorio nazionale, il giudice dell'esecuzione deve rideterminare la pena applicata con la sentenza di patteggiamento in conseguenza dell'effetto abolitivo prodotto dalla citata pronuncia, laddove l'ipotesi circostanziale sia stata considerata dal giudice di merito nella determinazione del trattamento sanzionatorio.
La Sentenza n. 977 del 27/10/2011 opera una lettura sistematica e costituzionalmente orientata degli artt. 673 c.p.p. e 30 comma 4 della legge n. 87 del 1953. Attribuisce all’art. 30 comma 4 della legge n. 87 del 1953 uno spazio di applicazione autonomo:
“… Allorché si parla di norma penale in senso stretto, s'intende comunemente fare riferimento - nell'accezione mutuata appunto dall'art. 25 Cost., comma 2, - alle disposizioni che comminano una pena o che determinano una differenza di pena in conseguenza di determinati comportamenti o situazioni. Nella misura in cui da dette norme deriva una sanzione criminale per un aspetto dell'agire umano, di esse può dirsi altresì che sono analoghe alle norme incriminatrici, essendo indifferente, da tale punto di vista, che istituiscano un autonomo titolo di reato o una circostanza aggravante.
La differenza tra la L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 4, e l'art. 673 cod. proc. pen., non risiede perciò, a ben vedere, nel riferimento alle norme penali sostanziali o incriminatrici, ma nel fatto che l'art. 673, prevedendo (come detto) che il giudice dell'esecuzione, nel revocare la sentenza di condanna, dichiari che il fatto non è previsto come reato, limita evidentemente quel riferimento alle sole norme che prevedono un autonomo titolo di reato, ovverosia al norme che non possono ritenersi solo in senso lato incriminatrici, ma che istituiscono specifiche fattispecie incriminatrici.
La stessa interpretazione riduttiva non è imposta invece dalla lettera dell'art. 30, che non circoscrive in alcun modo, ne' direttamente ne' indirettamente, il divieto di dare esecuzione alla condanna pronunziata "in applicazione" di una norma penale dichiarata incostituzionale, e che si presta perciò ad essere letto nel senso di impedire anche solamente una parte dell'esecuzione, quella relativa alla porzione di pena che discendeva dall'applicazione della norma poi riconosciuta costituzionalmente illegittima …”.
È questa una interpretazione conforme ai principi di personalità, proporzionalità e rimproverabilità desumibili dall'art. 27 Cost., “… che investono la funzione della pena dal momento della sua irrogazione a quello della sua esecuzione, oltre che a quegli stessi precetti costituzionali posti a base della sentenza n. 249 del 2010 (l'art. 3 Cost., che inibisce di istituire discriminazioni irragionevoli; l'art. 25 Cost., comma 2, che prescrive, in modo rigoroso, che un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali), ovverosia all'insieme dei principi costituzionali che regolano l'intervento repressivo penale e che impediscono di ritenere costituzionalmente giusta, e perciò eseguibile, anche soltanto una frazione della pena, se essa consegue all'applicazione di una norma contraria a Costituzione …”.
La sentenza conclude affermando che l'art. 136 Cost. e i commi 3 e 4 dell’art. 30 della L. n. 87 del 1953 ostano alla esecuzione della porzione di pena inflitta dal giudice della cognizione in conseguenza dell'applicazione di una circostanza aggravante dichiarata costituzionalmente illegittima: di conseguenza, compito del giudice dell’esecuzione è quello di individuare la porzione di pena corrispondente e di dichiararla non eseguibile, previa sua determinazione ove la sentenza del giudice della cognizione abbia omesso di individuarla specificamente, ovvero abbia proceduto, come nel caso in esame, al bilanciamento tra circostanze.
Anche la Sentenza n. 26899 del 25/05/2012 propone un’interpretazione, costituzionalmente orientata, che attribuisce all’ art. 30, comma 4, della L. 11 marzo 1953, n. 87, uno spazio autonomo rispetto all’art. 673 c.p.p.:
L'interpretazione letterale e logico-sistematica della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 4, permette, invece, di ritenere che l'ambito applicativo della norma non è limitato alla fattispecie incriminatrice intesa in senso stretto, ma riguarda qualunque parte della condanna pronunziata "in applicazione" di una norma dichiarata incostituzionale e impedisce, perciò, anche solo una parte dell'esecuzione della sentenza irrevocabile, quale appunto quella relativa alla porzione di pena irrogata in attuazione della norma poi dichiarata costituzionalmente illegittima.
Tale approdo interpretativo appare l'unico conforme al quadro costituzionale di riferimento e, in particolare, ai principi fissati dagli artt. 27 e 3 Cost., art. 25 Cost., comma 2, che regolano l'intervento penale e non consentono di considerare costituzionalmente giusta e, perciò eseguibile, anche soltanto una porzione di pena che consegua all'applicazione di una norma ritenuta non conforme alla Carta fondamentale (Sez. 1^, 27 ottobre 2011, n. 977; Corte Cost. sent. n. 249 del 2010).
Una conferma autorevole dell’orientamento “più moderno” si rinviene nell’ordinanza del 10 settembre 2012 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, nel procedimento penale a carico di E. S., uno dei cd. “figli di un dio minore del caso Scoppola”.
Le Sezioni Unite hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 ed 8 del d.l. 341/2000, convertito nella legge n. 4 del 2001, in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU. La questione è stata accolta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 210 del 2013.
Non è questa la sede per ripercorrere tutte le questioni relative al caso Scoppola ed ai “suoi figli”; in sintesi però deve osservarsi che le Sezioni Unite:
- richiamano, condividendolo, il principio di diritto affermato dalla Sez. 1ª della Corte di Cassazione con la sentenza n. 977 del 27 ottobre 2011, prima riportata;
- individuano nell’art. 30 comma 4 della legge n. 87 del 1953 la norma da adoperare nel procedimento di esecuzione per rimediare alle questioni relative alla incostituzionalità della pena;
- affermano che l’art. 30 comma 4 della legge n. 87 del 1953, quale norma che deroga al principio d intangibilità del giudicato, ha uno spazio più ampio rispetto all’art. 673 c.p.p. perché “… impedisce anche l’esecuzione della pena o della frazione di pena inflitta in base alla norma dichiarata costituzionalmente illegittima”;
- affermano che tale interpretazione è anche coerente con la funzione che la pena, ex art. 27 Cost., deve assolvere dal momento della sua irrogazione a quello della sua esecuzione;
- l’art. 30 comma 4 della legge n. 87 del 1953 è eccezione alla regola generale prevista nell’art. 2 comma 4 c.p. e legittima quindi il superamento del giudicato di fronte alle primarie esigenze, insite nell'intero sistema penale, di tutelare il diritto fondamentale della persona di fronte alla legalità della pena anche in fase esecutiva e di assicurare parità di trattamento tra i condannato che versano in una identica situazione.
Se dunque è questo è l’ambito interpretativo in cui ci muoviamo, è prevedibile che tutte le pene fondate sul “nuovo ed incostituzionale” art. 73 d.p.r. 309/1990, debbano essere riportate nei limiti del vecchio quarto comma dell’art. 73 d.p.r. 309/1990.
Si tratta di un numero rilevante di incidenti di esecuzione: sarebbe dunque il caso di prevenire il problema, cercando di conoscere il numero di detenuti coinvolti nella rideterminazione della pena.
Un suggerimento in conclusione
Non so se qualcuno che lavora al Ministero della Giustizia leggerà queste lunghe note. Ma se ha la pazienza di arrivare fino alla fine mi permetto di dare un suggerimento.
Un intervento del legislatore è necessario per evitare i costi rilevanti dei movimenti dei fascicoli dalla Cassazione al giudice di primo o di secondo grado e per semplificare il lavoro del giudice dell’esecuzione, anche tenendo conto dei limiti dei suoi poteri.
Tenuto conto che il legislatore nel 2006 ha triplicato le pene minime, potrebbe emanarsi una norma che preveda che tutte le pene irrogate (inflitte o applicate) per effetto del “nuovo” art. 73 d.p.r. 309/1990, anche con sentenza definitiva, sono ridotte di due terzi; se per effetto della riduzione le pene sono superiori ai massimi edittali, si riducono nei limiti massimi di cui al “vecchio” comma 4 dell’art. 73 d.p.r. 309/1990.
Si potrebbe prevedere che la riduzione è possibile anche per i procedimenti pendenti dinanzi alla Corte di Cassazione.
Ciò ridurrebbe di molto i margini di discrezionalità del giudice dell’esecuzione, con un criterio matematico che richiama al contrario l’aggravamento, incostituzionale, delle pene avvenuto nel 2006; consentirebbe anche alla Corte di Cassazione il calcolo della pena, senza che avvenga la restituzione degli atti.
“Perché io, ho bisogno di un piccolo aiuto …”.