1. L’affaire Succi e altri c. Italia: la legittimità del principio di autosufficienza (quando la sua applicazione è ispirata al principio di proporzionalità)
Lo scorso 28 ottobre la Corte europea dei diritti dell’Uomo si è pronunciata su tre ricorsi, poi riuniti, fondati sulla violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione sotto il profilo del right of access to a court, per avere il giudice di legittimità dichiarato inammissibili i ricorsi per cassazione sulla base delle ragioni di seguito illustrate.
È bene precisare sin dalle battute iniziali che solo con riferimento ad uno dei tre ricorsi (n. 55064/11), la Corte Edu ha ravvisato la effettiva violazione dell’art. 6, dovuta evidentemente ad una svista del collegio di legittimità che, sul fronte dei rimedi interni, sarebbe stata idonea a fondare un motivo di revocazione ex art. 395, n. 4, e 391-bis c.p.c.[1].
Brevemente, si trattava di una decisione con cui la Corte di Cassazione aveva dichiarato inammissibile il ricorso, invocando l’art. 366, nn. 4 e 6, c.p.c.[2], per la ragione che i motivi non menzionavano nel titolo i vizi denunciati né indicavano gli atti e i documenti posti a fondamento del ricorso stesso. Sul punto la Corte di Strasburgo ha, invece, ritenuto che dal ricorso emergeva chiaramente il contenuto delle doglianze e che ivi erano opportunamente richiamati e trascritti i documenti e atti del caso, di talché la declaratoria di inammissibilità era stata dettata da un eccessivo formalismo non giustificabile in virtù del principio di autosufficienza. Il passaggio cruciale per comprendere la posizione della Corte Edu si trova al par. 92, dove la sentenza, nel denunciare il cattivo governo, nel caso di specie, del principio di autosufficienza, ne riconosce l’esistenza e le finalità di garanzia della certezza del diritto e di buona amministrazione della giustizia.
Su questa scia, gli altri due ricorsi esaminati dalla Corte sono stati respinti, poiché nell’uno (n. 37781/13) il ricorrente non aveva indicato né trascritto gli atti e documenti invocati, e nell’altro (n. 26049/14) mancava una esposizione sommaria dei fatti di causa ai sensi dell’art. 366, n. 3, c.p.c., o meglio essa era stata impropriamente sostituita, secondo la tecnica del c.d. assemblaggio[3], da una trasposizione integrale, acritica e, nell’effetto pratico, incomprensibile, dello svolgimento del giudizio pregresso, tale da rendere impossibile lo scrutinio del ricorso da parte della S.C. Pertanto, in entrambi i casi, la Corte Edu ha escluso una violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione.
Il fondamento della decisione del giudice di Strasburgo è chiaramente espresso a partire dal par. 71, ove la Corte, richiamando principi già espressi in precedenti arresti, ad esempio nei casi Zubac. c. Croazia e Trevisanato c. Italia[4], si ripropone di verificare se il rigetto per inammissibilità del ricorso per cassazione si sia tradotto o meno in una violazione del “diritto ad un tribunale”; e dunque se le condizioni imposte per la redazione del ricorso possano dirsi proporzionate alle finalità perseguite dal legislatore e dalla stessa Corte di Cassazione tramite tutte quelle regole[5], analogamente ispirate e volte a limitare l’accesso al giudizio di legittimità ai soli casi davvero meritevoli, perché relativi a decisioni di merito viziate in diritto o perché ad alto gradiente nomofilattico (questi ultimi meritevoli pure della trattazione in pubblica udienza, marginalizzata all’esito della riforma del 2016 del giudizio di legittimità[6]).
Poste queste premesse la Corte Edu – ricordando la funzione del giudice di ultima istanza di assicurare «l’esatta osservanza, l’uniforme interpretazione della legge, l’unità oggettiva del diritto nazionale»[7] e valorizzando altresì l’argomento speso dal Governo italiano in ordine alla esigenza di far fronte all’importante arretrato che grava sui collegi di legittimità – non critica né ridimensiona la portata del principio di autosufficienza[8], e anzi ritiene che esso contribuisca a semplificare il lavoro della S.C. e a meglio garantire il perseguimento degli obiettivi di certezza del diritto e corretta amministrazione della giustizia.
In definitiva, la regola dell’autosufficienza, con i conseguenti oneri redazionali imposti al difensore, è ritenuta legittima e opportunamente imposta al fine di salvaguardare il ruolo della Corte di Cassazione di giudice della nomofilachia, anche se la sua applicazione concreta non deve essere improntata ad un formalismo esorbitante che risulti sproporzionato rispetto ai fini sopra ricordati e alla esigenza di prevedibilità delle condizioni di redazione del ricorso (v., in particolare, i par. 75 e 82).
La Corte giunge a tale conclusione anche a partire da un’analisi del quadro normativo e giurisprudenziale interno. Il riferimento è al codice del processo amministrativo e ai principi ivi affermati di chiarezza e sinteticità[9]; alla giurisprudenza della S.C. sullo stesso principio di autosufficienza e sull’ormai abrogato quesito di diritto ex art. 366-bis c.p.c.[10]; al Protocollo tra Corte di Cassazione e CNF del 2015[11]; nonché agli obiettivi enunciati nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) in materia di efficienza della giustizia civile, in punto di sinteticità degli atti giudiziali.
2. L’autosufficienza e l’attitudine al formalismo della Corte di Cassazione
Se da un lato, dunque, si legittima l’utilizzo dell’autosufficienza come strumento di selezione dei ricorsi ben congegnati e così idonei a consentire un agile scrutinio da parte della Cassazione, dall’altro, si stigmatizza quella tendenza, rinvenibile in alcune pronunce della S.C., ad ampliarne la portata, ad esempio imponendo al difensore del ricorrente l’onere di trascrizione integrale di tutti i documenti richiamati e posti a fondamento del ricorso, non bastando dunque la indicazione degli stessi.
Tale deriva formalistica ha subito una battuta d’arresto perlomeno a partire dalla pronuncia delle Sezioni Unite del 22 maggio 2012, n. 8077 (ricordata, non a caso, come spartiacque dalla stessa Corte Edu, par. 82), che ha ricondotto l’autosufficienza nell’alveo originario della specificità, ritenendo sufficiente la precisa indicazione di atti e documenti, tale da consentirne il reperimento e la consultazione diretta[12].
Ciò nondimeno, ancora diverse recenti pronunce di legittimità continuano a collocarsi nel solco di un formalismo pieno e non davvero (o comunque non sempre) necessario, nella misura in cui impongono un duplice onere: il ricorrente deve trascrivere nella loro completezza gli atti su cui il ricorso si fonda – là dove basterebbe riportarne sinteticamente il contenuto – e, in aggiunta, localizzare la sede processuale in cui sono stati prodotti, per consentire alla Corte la verifica diretta di quanto sostenuto[13].
Per concludere queste brevi note, il monito del giudice di Strasburgo deve senza dubbio far riflettere sull’uso ragionevole e proporzionato dei canoni formali di redazione del ricorso per cassazione e, più in generale, di qualsiasi atto di impugnazione (si pensi alla specificità richiesta, a pena di inammissibilità, dall’art. 342 c.p.c. per la redazione dei motivi di appello[14]), anche in relazione alla diligenza esigibile dall’avvocato, che potrebbe doversi cautelare da azioni di responsabilità professionale per l’eventuale danno (invero di difficile dimostrazione) da redazione di atti processuali non esemplari e ritenuti non sufficientemente idonei a sollecitare una pronuncia nel merito.
Per contro, la legittimazione del principio di autosufficienza da parte della Corte Edu non deve indurre a sopravvalutarne la portata e gli effetti di sistema, né come mezzo di responsabilizzazione degli avvocati né come strumento di abbattimento dell’arretrato della S.C. E a maggior ragione non crediamo che il suo massiccio utilizzo come ragione di inammissibilità restituisca ai giudici della Cassazione tempo e risorse per dedicarsi ai ricorsi che presentano questioni di diritto di particolare importanza.
[1] Sulla revocazione delle pronunce di cassazione v., per tutti, C. Consolo, La revocazione delle decisioni della Cassazione e la formazione del giudicato, Padova, 1989; nonché, per altri riferimenti, si vis, il ns. Possibili rimedi al contrasto tra motivazione e dispositivo della sentenza di cassazione, in Corr. giur. 8-9/2018, pp. 1139 ss.
[2] Sul principio di autosufficienza v., da ultimo, A. Giusti, L’autosufficienza del ricorso, in M. Acierno, P. Curzio, A. Giusti (a cura di), La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte Suprema italiana, Bari, 2020, pp. 213 ss., e N. Giallongo, I requisiti del ricorso in cassazione: il principio della c.d. autosufficienza, in Judicium 1/2019, pp. 5 ss.; con riferimento all’applicazione del principio nel processo penale, v. A. Chelo, L’autosufficienza del ricorso per cassazione nel processo penale, Padova, 2020. In dottrina gli Autori si sono espressi perlopiù criticamente su un principio di origine pretoria (sebbene la stessa S.C. lo riconduca al dettato dell’art. 366, n. 6, c.p.c.): v., fra i tanti, B. Sassani, Il nuovo giudizio di cassazione, in Riv. dir. proc. 1/2006, pp. 217 ss., spec. pp. 228 ss.; E. Ricci, Sull’autosufficienza del ricorso per cassazione: il deposito dei fascicoli come esercizio ginnico e l’Avvocato Cassazionista come amanuense, in Riv. dir. proc. 3/2010, pp. 736 ss.
[3] Il ricorso per cassazione confezionato mediante l’assemblaggio di parti eterogenee del materiale di causa è inammissibile per difetto di autosufficienza, «quando ciò renda incomprensibile il mezzo processuale, perché privo di una corretta ed essenziale narrazione dei fatti processuali (ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), della sintetica esposizione della soluzione accolta dal giudice di merito, nonché dell’illustrazione dell’errore da quest’ultimo commesso e delle ragioni che lo facciano considerare tale, addossando in tal modo alla S.C. il compito, ad essa non spettante, di sceverare da una pluralità di elementi quelli rilevanti al fine del decidere»: così, da ultimo, Cass. 13 luglio 2021, n. 19949, in banca dati Dejure.
[4] Corte Edu 5 aprile 2018, Zubac c. Croazia; Corte Edu 15 settembre 2016, Trevisanato c. Italia. Nel caso Trevisanato, in particolare, la Corte di Strasburgo aveva ritenuto che la imposizione, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, della formulazione dei quesiti di diritto, ai sensi del non più vigente art. 366-bis c.p.c., non costituisse una misura sproporzionata e un onere eccessivo per il ricorrente tale da integrare una violazione dell’art. 6 § 1 Cedu.
[5] Prima fra tutte la norma che disciplina il filtro in cassazione, l’art. 360-bis c.p.c., su cui v. l’analisi di C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Torino, 2019, pp. 592 ss.
[6] Ci si chiede, con le parole di C. Consolo, La Cassazione e il suo nuovo volto “gianuario” (doppio ma, infine “disambiguato”), in Corr. giur. 5/2017, pp. 589 ss., spec. p. 592, se la «marginalizzazione – quasi simbolica – dell’ascolto orale dei difensori giov[i] poi davvero o costituisc[a] una sorta di stigmate». Sulle modifiche al rito in cassazione v., tra gli altri, A. Di Porto (a cura di), La nuova Cassazione civile, Milano, 2017; C. Punzi, La nuova stagione della Corte di cassazione e il tramonto della pubblica udienza, in Riv. dir. proc., 1/2017, I, pp. 2 ss.; B. Sassani, Da Corte a Ufficio di smaltimento: ascesa e declino della “Suprema”, in judicium.it, 18 novembre 2016; G. Scarselli, Il nuovo giudizio di Cassazione per come riformato dalla legge 197/2016, in questionegiustiza.it; A. Panzarola, La Cassazione civile dopo la l. 25 ottobre 2016, n. 197 e i c.d. protocolli, in Le Nuove Leggi Civ. comm. 2/2017, pp. 269 ss.; L. Penasa, Il nuovo procedimento camerale in Cassazione e il principio di pubblicità delle udienze. Possibili profili di incostituzionalità, in Corr. giur. 2017, pp. 1579 ss.
[7] Così l’art. 65 r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, con un lessico “matematico e geometrico”, come definito da G. Canzio, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in A. Carleo (a cura di), Il vincolo giudiziale del passato. I precedenti, Bologna, 2018, p. 29. Sul ruolo della Cassazione quale custode della nomofilachia ci limitiamo a richiamare qui l’opera fondamentale di P. Calamandrei, La Cassazione civile, parte II, Milano-Torino-Roma, 1920, ora in Id., Opere giuridiche, VII, nella collana La memoria del diritto, Roma, 2019; e quelle più recenti di A. Panzarola, La Cassazione civile giudice del merito, Torino, 2005; e S. Rusciano, Nomofilachia e ricorso in cassazione, Torino, 2012.
[8] Per cui, forse, non può davvero dirsi che la sentenza della Corte di Strasburgo rappresenti un «campanello d’allarme» per la nostra S.C., come ha ritenuto B. Capponi, Il formalismo in Cassazione, in Giustiziainsieme.it, proprio in commento alla pronuncia qui annotata.
[9] La Corte colloca su piani contigui la regola dell’autosufficienza e i principi di specificità, chiarezza e sinteticità degli atti giudiziali. E, in effetti, come osserva A. Giusti, L’autosufficienza del ricorso per cassazione civile, in Giust. civ. 4-5/2016, 247 ss., il principio di autosufficienza, prima di recare le «stimmate del formalismo», nasceva proprio come formula di sintesi dei requisiti di specificità dei motivi di ricorso. È noto che nel c.p.c. non è rintracciabile una norma che codifichi espressamente il principio di sinteticità (se si escludono i riferimenti, per gli atti del giudice, alla “concisa” esposizione e alla “succinta” motivazione contenuti negli artt. 132 e 134 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c; ove, invece, per gli atti di parte, vige il principio di libertà delle forme ex art. 121 c.p.c.); a differenza del c.p.a., in cui l’art. 3, co. 2 prescrive che «il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica, secondo quanto disposto dalle norme di attuazione». Eppure sono numerose le sentenze con cui la S.C. respinge, dichiarandoli inammissibili ex art. 366, nn. 3) e 4), c.p.c., i ricorsi tacciati di oscurità o prolissità, spesso anche richiamando proprio la norma del c.p.a., ritenuta espressione di un principio processuale generale, destinato, in quanto tale, ad operare anche nel processo civile: v., fra le altre, Cass. 3.11.2020, n. 24432; Cass. 21.3.2019, n. 8009; Cass. 20.10.2016, n. 21297 (reperibili nella banca dati Italgiureweb). Sul tema v., ex multis, A. Tedoldi, Chiarezza e sintesi tra mito e realtà, in Riv. dir. proc. 3/2018, pp. 669 ss.; L.P. Comoglio, Esposizione «assemblata» dei fatti ed inammissibilità del ricorso in cassazione, in La Nuova Giur. civ. comm. 2/2018, pp. 199 ss.; R. Frasca, Intorno al Protocollo fra Corte di cassazione e C.N.F. sui ricorsi civili, C. Consolo, Il Protocollo redazionale CNF-Cassazione: glosse a un caso di scuola di soft law (... a rischio di essere riponderato quale hard black letter rule), e I. Pagni, Chiarezza e sinteticità negli atti giudiziali: il protocollo d’intesa tra Cassazione e CNF, in Giur. it. 12/2016, pp. 2768 ss.; per più completi ed aggiornati riferimenti si rinvia ai recenti contributi di C. Spaccapelo, La redazione chiara e sintetica degli atti processuali civili (in particolare di quelli di impugnazione) tra protocolli, riforme e principi giurisprudenziali, in N. Donadio, A. Maniaci (a cura di), Tecniche e strategie difensive nel processo civile tra storia e attualità, Milano, 2020, pp. 297 ss.; F. De Giorgis, Principio di sinteticità espositiva e inammissibilità del ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc. 1/2020, pp. 244 ss.; nonché all’opera monografica di F. De Vita, Efficienza del processo civile e formazione degli atti, Napoli, 2018, passim.
[10] La breve, e certo non felice, stagione dei quesiti di diritto, conclusa con la riforma del 2009, è servita quantomeno a testimoniare la scarsa efficacia deterrente della imposizione della formulazione del quesito di diritto a pena di inammissibilità del ricorso, per quanto potesse riconoscersi una funzione pedagogica che forse nel lungo periodo avrebbe mutato le abitudini degli avvocati cassazionisti (così osservava M. Fabiani, Riflessioni inattuali su formalismo giudiziario e quesito di diritto, in Foro it. 9/2008, pp. 225 ss.), oggi senza dubbio fortemente orientate dall’applicazione, più o meno rigida, del principio di autosufficienza. Non potendo qui richiamare i numerosi commenti dottrinali sul quesito di diritto, ci limitiamo a ricordare che, nella vigenza dell’art. 366-bis c.p.c., al ricorrente spettava l’onere di «riassumere in una o poche proposizioni lapidarie la quaestio iuris sottoposta all’esame della Corte», senza doversi sostituire alla Corte di Cassazione nella enunciazione del principio di diritto: in tal senso, reputando “sensata” la norma, C. Consolo e G. Costantino, Un giusto no al quesito di diritto (requisito di forma-contenuto dei soli ricorsi per cassazione) nel regolamento di giurisdizione; un discutibile “sì” alla giurisdizione contabile sulle azioni “accessorie”, in Corr. giur. n. 2/2008, pp. 243 ss.
[11] Su cui v., per tutti, i contributi di R. Frasca, C. Consolo e I. Pagni, cit. in nt. 9.
[12] Come osserva pure A. Giusti, L’autosufficienza del ricorso, ult. cit.
[13] Cfr., fra le più recenti, Cass. 15 ottobre 2021, n. 28434; Cass. 13 aprile 2021, n. 9678; Cass. 2 aprile 2021, n. 9182; in banca dati Dejure.
[14] La prescrizione dell’art. 342 c.p.c., dopo la novella della l. 134/2012, in punto di specificità dei motivi di appello è stata interpretata (seppure da un indirizzo di legittimità minoritario) anche nel senso, più rigoroso, che l’appellante avrebbe avuto l’onere di indicare un «progetto alternativo di decisione»: così Cass. 7 settembre 2016, n. 17712 (in Italgiureweb), poi smentita da Cass. SU 16 novembre 2017, n. 27199, in Foro it. 3/2018, pp. 988 ss., con nt. di G. Balena, I rassicuranti contenuti delle Sezioni unite sul contenuto dell’atto di appello; e in Corr. giur. 1/2018, pp. 70 ss., con nt. di F. Godio, Le Sezioni unite confermano: l’appello “specifico” non richiede all’appellante alcuna sorta di «progetto alternativo di decisione», che ha giustamente smentito la sussistenza di un siffatto onere in capo all’appellante.