La scelta di dedicare un numero monografico della Rivista al tema della formazione dei magistrati non è dipesa solo dal fatto che all’inizio di quest’anno è scaduto il primo quadriennio di funzionamento della Scuola superiore della magistratura, con conseguente rinnovo del suo Comitato direttivo. Questa circostanza, naturalmente, non è irrilevante. Fornisce un’opportuna occasione per cercare di tracciare un primo bilancio del funzionamento di un’istituzione di nuovo conio, che la parte più avveduta della magistratura ha fortemente voluto e per dar vita alla quale si è battuta per anni. E fornisce anche all’occorrenza – perché no? – un’occasione per formulare qualche critica costruttiva al modo in cui questa straordinaria esperienza ha preso concretamente avvio, tentando magari anche di avanzare suggerimenti che valgano a renderne più spedito e produttivo il futuro cammino.
Ma non è soltanto per questo che è parso doveroso dare tanto spazio al tema della formazione. È per la profonda convinzione che intorno ad esso si gioca una partita decisiva per chi ha a cuore la giustizia: perché si tratta di un tema assolutamente basilare, ricco di molte sfaccettature e di ancor più numerose implicazioni, dal quale in larga misura dipende se il tanto parlare che si fa di diritti, di tutele e di garanzie è destinato a restare sul piano dell’astratta affermazione di principio oppure è in grado di calarsi davvero nella realtà quotidiana del nostro agire. Non basta che ci sia un giudice a Berlino, occorre che egli sappia essere all’altezza del suo compito. Se il giudice è il garante di ultima istanza della legalità ed è perciò chiamato a svolgere un’attività essenziale nel consorzio sociale, il modo in cui egli si attrezza per farlo non è cosa che riguardi solo lui, o la corporazione cui appartiene, bensì la società tutta.
Certo, della formazione del magistrato si può parlare sotto molti e diversi aspetti. Proprio per questo ci è parso necessario ospitare contributi assai variegati che toccano la formazione iniziale, quella permanente, quella dei dirigenti, quella dei magistrati amministrativi, il modo in cui l’attività formativa si iscrive nella disciplina dell’ordinamento giudiziario e come quindi si rapporta ai principi ispiratori dell’autogoverno della magistratura ed alle funzioni del Consiglio superiore. E ci è parso anche utile gettare uno sguardo alla formazione dei magistrati di altri Paesi europei il cui sistema giudiziario è comparabile al nostro.
D’altronde è del tutto evidente che un magistrato può esser chiamato a svolgere attività tra loro anche molto distanti, le quali richiedono competenze di tipo assai diverso, giacché ben diverse sono le esigenze con cui devono confrontarsi un giudice minorile ed un giudice che si occupa di procedure fallimentari, o un pubblico ministero antimafia ed un magistrato di cassazione alle prese con problemi di riparto di giurisdizione, e così via. Inoltre, essendo oggi più che mai il magistrato chiamato a formare il cd diritto vivente, bisogna non soltanto che egli sia un raffinato conoscitore delle norme giuridiche e di come esse si rapportano concettualmente tra loro, ma anche che abbia un’adeguata comprensione dei molteplici aspetti – economici, sociali, psicologici, in breve: umani – della realtà su cui l’interpretazione e l’applicazione di quelle norme sono destinate ad incidere.
Molteplici quindi debbono essere i suoi saperi, estesi sovente ad ambiti di conoscenza non coperti dalla sola tradizionale preparazione universitaria o postuniversitaria. Donde il fondamentale compito della formazione – e quindi della Scuola della magistratura ad essa preposta – e la necessità che esso si articoli con grande ampiezza e varietà di orizzonti culturali.
Un punto però va mantenuto ben fermo, pur nella varietà dei compiti e dei saperi che si richiedono al magistrato, ed è un punto essenziale da tener presente in qualsiasi aspetto della sua formazione. Mi riferisco – sia detto senza ombra di retorica – alla necessità che il suo operare resti sempre fortemente radicato nella cultura della giurisdizione. Una cultura che deve essere comune a tutte le funzioni che il magistrato svolge, ivi comprese naturalmente le funzioni requirenti, e che implica la corretta percezione di quanto sia fondamentale ed al tempo stesso delicato il compito di far sì che da quell’enorme insieme di parole di cui son fatte le norme possa scaturire l’effettiva realizzazione, nel concreto del vivere sociale, dei principi e dei valori a quelle norme sottesi; senza la quale non ha più senso il parlare di Stato di diritto.
Se deve esservi una Scuola della magistratura, essa deve prima di tutto insegnare questo: che giurisdizione significa «dire il diritto», farlo parlare, quindi renderlo vivo nel tessuto sociale; ma che, per fare ciò, è indispensabile che il magistrato abbia sempre piena consapevolezza di quanto la sua funzione sia determinante affinché la società si avvicini, almeno tendenzialmente, al modello di civiltà così felicemente disegnato nella nostra Carta costituzionale e di come il modo in cui egli adempie ai propri compiti possa incidere sulla vita dei suoi concittadini.
Da questa cultura della giurisdizione, che la Scuola deve saper trasmettere e rafforzare, mi pare derivi non dico un modello di magistrato – ché sarebbe troppo e forse anche errato dirlo – ma un suo modo di porsi rispetto ai compiti cui è chiamato, quali che essi siano. Un modo di porsi che implichi sia consapevolezza del suo essere oggettivamente parte della classe dirigente del Paese in cui vive, poiché ciò è insito nella fondamentale funzione di dare voce al diritto e di dare forza ai diritti, sia la consapevolezza della responsabilità sociale che ne deriva. Molti pensano che sia ormai definitivamente tramontato il tempo delle forti passioni ideologiche e delle grandi battaglie sociali che hanno attraversato anche la storia della magistratura.
Non so se sia del tutto vero, ma, se anche lo fosse, credo che ciò comunque non varrebbe mai a giustificare una concezione burocratica del ruolo del magistrato: preoccupato solo di smaltire, come che sia, il carico di lavoro affidatogli, di evitare al meglio le complicazioni, di avanzare rivendicazioni sindacali di stampo corporativo e di sottrarsi il più possibile alle responsabilità. So bene che vi sono purtroppo spinte in tale direzione provenienti anche dall’interno della stessa magistratura. È in parte anche questo un perverso effetto collaterale della cronica lentezza della giustizia, per fronteggiare la quale si moltiplicano gli appelli ad accrescere la produttività degli uffici giudiziari in una logica che rischia di divenire fin troppo aziendalistica. Ma resto assolutamente persuaso che l’approccio burocratico al proprio ruolo sia, per il magistrato, la negazione del significato stesso della sua funzione; e che – come ho già detto – uno dei compiti fondamentali della formazione risieda nel contrastare una siffatta deriva.
La consapevolezza dell’importanza del ruolo (non del rango: si badi!) sociale del magistrato deve però accompagnarsi con l’altrettanto chiara percezione dei relativi limiti. L’attitudine a riconoscere e distinguere i limiti, come ci ha ricordato in un suo recente piccolo ma stimolante libro uno dei più acuti filosofi contemporanei, è «un’arte che va coltivata e praticata con cura, lasciandosi guidare, nello stesso tempo, dall’adeguata conoscenza delle specifiche situazioni, da un ponderato giudizio critico e da un vigile senso di responsabilità» (Remo Bodei, Limite, Il Mulino, 2016). Quest’arte è difficile, ma il magistrato deve massimamente saperla coltivare, tanto più in un momento storico come l’attuale in cui la sovrapposizione e la scarsa coerenza delle fonti normative amplia fatalmente lo spazio di discrezionalità dell’interprete, che è privo però di una diretta legittimazione democratica.
Qualsiasi opera di formazione (pur con tutte le ambiguità che questa parola assume quando la si adopera per le persone umane) non credo possa prescindere da un risvolto deontologico, implicito ma ben presente del resto nelle considerazioni appena svolte. Il magistrato deve saper riscuotere la fiducia ed il rispetto dell’ambiente in cui opera.
Non è questione di bon ton, è semmai questione di quei doveri di sapore un po’ antico, doveri di «disciplina ed onore», che l’art. 54 della Costituzione impone a chiunque esercita pubbliche funzioni. Ma qui penso in modo particolare al rischio che il magistrato – e specificamente il giudice, cui nel processo spetta di dire l’ultima parola – si inebri del piccolo o grande potere che la sua funzione di tanto in tanto gli conferisce e sia tentato di adoperarlo in modo arrogante, o addirittura prepotente, quasi che l’essere super partes lo renda il protagonista assoluto sulla scena del processo relegando gli altri al rango di comparse. Ed invece cultura della giurisdizione significa anche rispetto degli altri attori del processo, quale che ne sia la posizione sociale e processuale, e significa attenzione alla doverosa tutela dei loro diritti: condizione assolutamente necessaria perché il magistrato possa, a propria volta, pretendere dagli altri quel rispetto e riscuotere quella fiducia che sono indispensabili al buon governo della giustizia. Anche di questo la Scuola della magistratura deve farsi carico e si fa carico.
L’opera della Scuola tocca dunque davvero aspetti fondamentali del modo di essere del magistrato, delle modalità del suo porsi rispetto al mondo circostante, del suo ruolo e della sua capacità d’incidere sulla società in cui opera. Ciò rende inevitabilmente delicato il rapporto con l’organo di autogoverno della magistratura e richiede particolare equilibrio e buon senso nel delineare le rispettive competenze e prerogative. Era probabilmente inevitabile che, nella prima esperienza, si producessero momenti d’incertezza e persino di tensione nei rapporti con il Consiglio superiore.
Se ne parla diffusamente in alcuni articoli di questo numero della Rivista, ma vorrei solo aggiungere a tal proposito, in via generale, che la valenza costituzionale dell’autogoverno della magistratura, affidato al Consiglio superiore quale organo di carattere elettivo, non dovrebbe lasciar dubbi sulla sua legittimazione nell’indicare a grandi linee i criteri ispiratori della formazione dei magistrati e nel verificarne l’attuazione; e però, nel medesimo tempo, la Scuola perderebbe la sua stessa ragion d’essere se non le fosse riconosciuta concreta ed effettiva autonomia nel ricercare e sperimentare i modi per l’attuazione di quei criteri ispiratori, in un costante dialogo improntato a lealtà istituzionale, senza gelosia di potere ed improduttive rivalità.
Che ciò si realizzi è di importanza fondamentale, non solo per l’avvenire immediato della Scuola, ma anche per allontanare il pericolo di quella deriva burocratica dei magistrati alla quale prima ho accennato: perché occorre che essi possano riconoscere tanto l’una quanto l’altra istituzione come loro propria espressione e non come dei corpi estranei e vagamene minacciosi, che intralciano il loro lavoro o dai quali talvolta occorre addirittura difendersi. Anche questo è in gioco sul terreno della formazione.