Il 3 aprile 1944, Piero Pisenti, Guardasigilli della Repubblica sociale italiana, impara il significato dell’espressione «magistrati del vecchio Piemonte».
Quel giorno Pisenti è venuto a Torino, da Milano, per incontrare una delegazione di magistrati, guidati da Domenico Riccardo Peretti Griva, e convincerli a prestare il giuramento di fedeltà alla Repubblica di Salò. Tra quei giudici ci sono uomini moderati, legati alla tradizione di casa Savoia, che da sempre, sulle pareti di casa e dell’ufficio, hanno il ritratto di Vittorio Emanuele III. Ce ne sono altri, più giovani, di sentimenti ormai repubblicani e che, dopo la fuga del re a Brindisi, quel ritratto avevano tolto dal loro ufficio; ma poco dopo lo avevano riappeso, come risposta polemica alle circolari del nuovo Ministro che imponevano la rimozione, da tutti gli uffici pubblici, «dei ritratti e dei busti degli appartenenti all’ex casa regnante» [1]. E, allo stesso tempo, avevano continuato ad intestare le loro sentenze «In nome del Re», disobbedendo all’ordine ministeriale che aveva disposto la nuova intestazione «In nome della Legge».
La data è importante perché in quei giorni, la Repubblica sociale italiana estende ancora il suo dominio su tutta l’Italia settentrionale e centrale: la linea Gotica (a sud di Roma, all’altezza della foce del Garigliano, verrà sfondata dagli Alleati solo a metà maggio; Roma sarà liberata il 4 giugno). Quel 3 aprile, anziani e giovani magistrati si ritrovano, tutti, sulla linea proposta da Peretti Griva: opporre il giuramento già prestato allo Statuto albertino come argine concettuale e morale contro la pretesa del nuovo Stato di Salò. Dopo una lunga ma serena discussione, Peretti Griva la spunta: Pisenti non insiste e rinvia la soluzione ad un momento successivo, di fatto esonerando dal giuramento i magistrati piemontesi [2].
Ma facciamo un passo indietro.
Quando parliamo di “magistrati resistenti” non possiamo ricordare soltanto la resistenza di alcuni magistrati dopo l’8 settembre 1943. Ci fu, durante il fascismo, un’importante resistenza di molti magistrati italiani. Soprattutto dei magistrati più anziani, formatisi nell’età giolittiana, i quali sentivano l’iscrizione al Partito nazionalfascista (che nel 1933 divenne obbligatoria) come un adempimento formale: un’umiliazione, che però non li obbligava a comportamenti contrari alla loro coscienza. Quei magistrati, di cultura liberale, non potevano non provare disgusto verso l’irrompere, nella vita civile e politica italiana, del fascismo con le sue «violenze squadristiche e sguaiataggini, la sua incultura, la sua sprezzante irrisione delle tradizioni liberali» [3]. Per loro l’opposizione al fascismo fu uno stato d’animo pre-politico. Un’opposizione innanzitutto culturale. Un “antifascismo di stile”.
Fu quella indipendenza culturale che consentì di pronunciare sentenze libere. E fece dire a Calamandrei che, nei vent’anni del regime, «la trahison des clercs ha avuto dai giudici minor contributo che da ogni altra categoria di intellettuali».
È grazie a quell’indipendenza che nel 1927 – quando già erano state emanate le “leggi fascistissime”, sciolti i partiti, chiusi i giornali non allineati, istituito il Tribunale speciale, revocati tutti i passaporti − la sezione istruttoria della Corte di appello di Cagliari assolse per legittima difesa Emilio Lussu che undici mesi prima, con un colpo di fucile alla tempia, aveva fulminato uno dei fascisti che stavano dando l’assalto alla sua casa.
È grazie a quell’indipendenza che nacquero sentenze come quella del processo di Savona per la fuga in Corsica di Filippo Turati: quando i giudici, di fronte ai dieci anni di reclusione richiesti dal pubblico ministero (che allora prendeva ordini dal governo), derubricarono il reato in una semplice contravvenzione, condannando gli imputati a soli dieci mesi di arresto.
È grazie a quell’indipendenza che nel 1931 Peretti Griva, come presidente del Tribunale di Piacenza, fissò un processo (che da anni giaceva in un armadio) contro tre capi del fascismo locale imputati di aver aggredito un avvocato antifascista piacentino cui avevano fratturato un dito di una mano. Celebrò ritualmente il processo in un’aula affollata da miliziani in divisa e con gli imputati difesi da un collegio di avvocati fascistissimi guidati da Roberto Farinacci, che, oltre ad essere avvocato, era stato tra i fondatori dei Fasci di combattimento. E pronunciò sentenza di condanna. Molti anni dopo Peretti Griva, rievocando quel processo, ricorderà onestamente che la sentenza non provocò alcuna conseguenza negativa sulla sua carriera. Anzi: fu la «dimostrazione che anche in regime fascista, il magistrato era nella possibilità di ragionare con la propria testa e di seguire la propria coscienza» [4]. Perché – ricorderà sempre Peretti Griva – «il conformista agisce da pauroso, anche senza che sussista, in concreto, una ragione» [5].
Queste decisioni anti-conformiste e indipendenti avevano, sullo sfondo, una rigorosa difesa del principio di legalità, in netta contrapposizione con il cd. “sistema della formulazione giudiziaria del diritto” che affidava all’interprete un vasto potere creativo: il compito di applicare la norma scritta rinvigorendola con le esigenze della società, lasciandosi investire dal “vento che irrompe dalle finestre”, sino a modificare la stessa norma: così annullando la distinzione tra il momento della creazione del diritto e quello della sua applicazione. Era, questo, l’indirizzo giurisprudenziale che si ispirava alle teorie del “diritto libero”, ampiamente diffuse nella Germania nazista. La resistenza giurisprudenziale dei magistrati liberali ha dunque anche il sapore di una resistenza all’influenza culturale dell’alleato tedesco.
È noto che la testimonianza più significativa di questa resistenza culturale fu la conferenza che Piero Calamandrei tenne, nel gennaio 1940, agli studenti cattolici fiorentini della Fuci [6]. Con le teorie del diritto libero – avvertiva Calamandrei – si annulla la distinzione tra il momento della creazione del diritto e quello della sua applicazione: «Qui il giudice non importa che si affatichi a studiare le leggi, perché le leggi non ci sono: occorre soltanto che in qualsiasi evenienza, anche quando si tratta di giudicare sulla rivendicazione di una gallina, egli sia pronto a interrogare la storia».
Il giurista fiorentino difende dunque il «sistema della formulazione legislativa»: in cui «vige la repartizione tra giustizia e politica: che al giudice (ed in generale al giurista) non spetta discutere la bontà politica delle leggi; spetta soltanto, in quanto giudice e in quanto giurista, osservarle e farle osservare». Soltanto questo sistema – sempre secondo Calamandrei − permette al cittadino di sapere in anticipo quali sono i limiti del lecito e quale comportamento deve tenere se vuol essere un buon cittadino.
In realtà, la polemica di Calamandrei si indirizza non tanto contro la teoria del “diritto libero” quanto piuttosto contro la degenerazione di questa teoria: che con il nazismo e il comunismo era divenuta diritto non “libero” bensì fortemente ideologizzato, ispirato alle ideologie dominanti. Calamandrei, nella conferenza ai giovani della Fuci, cita l’esperienza della Russia staliniana; dove, grazie ad una riforma del 1936, il giudice era chiamato ad interpretare la legge ispirandosi «alla politica generale del governo» e dove era stato abrogato il principio “borghese” del nullum crimen sine lege [7].
Per chi, come me, è cresciuto culturalmente tra gli anni Sessanta e Settanta è difficile disgiungere il concetto di giudice che si fa carico delle nuove istanze di giustizia dei cittadini dall’idea di espansione dei diritti e delle libertà. Ma se meditiamo su cosa significa, oggi, chiedere al giudice di applicare la Legge (ad esempio in materia di immigrazione) lasciandosi investire dal “sano sentimento del popolo”, comprendiamo molto meglio i timori che facevano tremare i magistrati degli anni Trenta. E dobbiamo ammettere che il concetto di «giudice creatore dei diritti» contiene in sé, irrimediabilmente, insieme a tante altre cose positive, il rischio di una giustizia ordalica e illiberale.
A sorreggere la rigorosa difesa del principio di stretta legalità, che animava molti giudici degli anni Trenta, vi è la convinzione − ampiamente diffusa tra i magistrati che avevano preso le funzioni prima dell’avvento del fascismo − che il quadro legislativo italiano fosse rimasto in larga parte coerente con l’impronta liberale che lo aveva caratterizzato prima del ventennio e che il regime soltanto in parte aveva intaccato. Certo, Calamandrei sapeva bene che le leggi razziali del ’38-’39 avevano costituito, rispetto a questo sistema, un vulnus difficilmente classificabile come una semplice contraddizione. Eppure, rimaneva in lui l’idea di fondo che, persino negli anni del fascismo trionfante, la difesa della legalità avrebbe perlomeno costituito un freno, un rallentatore, un «argine concettuale e morale contro l’invadenza accentratrice del potere esecutivo» (come avrebbe scritto il suo allievo Mauro Cappelletti). Persino con l’obbrobrioso innesto delle “leggi che facevano orrore” il sistema legislativo, nel suo complesso, era preferibile all’irruzione prepotente, nel sistema della giustizia, dell’ordalico “spirito dei tempi” affidato all’interpretazione delle nuove generazioni di giudici politicizzati, allevati dal regime.
Sappiamo bene che negli anni successivi il pensiero di Calamandrei avrà una svolta significativa. Quella svolta fu imposta dai carri armati tedeschi e dagli ebrei caricati sui carri bestiami, in forza della legge imperante in quel momento. Sappiamo anche che, difendendo la legittimazione del processo di Norimberga − in cui erano state applicate ai criminali di guerra norme con effetto retroattivo approvate dai vincitori − Calamandrei polemizzerà con «lo scrupolo legalitario di certi loici, che non si turba dinanzi a milioni di vittime umili ed anonime sacrificate senza processo» ma si turba invece per una «sentenza uscita da un anno di dibattimenti». E concluderà invocando «le leggi non scritte nei codici dei re, alle quali obbediva Antigone; le “leggi dell’umanità”». Ricordiamo tutti l’ultima arringa di Calamandrei, in difesa di Danilo Dolci, in cui, richiamando ancora Antigone, invoca la legge che «in cuor di porta», che si pone «al di sopra delle leggi scritte».
Quella diversità tra il Calamandrei della fine degli anni ’30 e il Calamandrei successivo al 1945 può apparire un abisso. Certo. Ma quell’abisso ha un nome preciso: quell’abisso si chiama Auschwitz. Quando sento dire che «Calamandrei è stato il giurista più contraddittorio che sia mai esistito», rispondo che la sua fu una «contraddizione coerente». Dietro quella contraddizione profonda, in continua e mai appagata oscillazione tra leges e mores, c’è infatti una profonda coerenza di valori. I valori che muovono lo sdegno del Calamandrei del 1940 contro la condanna senza legge dei giudici russi e i valori che nel 1944 gli faranno dire che le leggi razziali non sono altro che «forma senza anima», sono immutati. La molla che lo spinge è la stessa: il terrore per la disumanità di cui sono capaci gli uomini; e dunque l’invocazione dei principi eterni, riconosciuti da tutti, portati nel cuore di ciascuno, di quei valori (religiosi, filosofici, culturali in senso lato) intorno ai quali e grazie ai quali, in ogni epoca della storia, un agglomerato di persone diventa società di essere umani e come tale sa vivere.
Ma torniamo alla resistenza culturale dei magistrati durante il fascismo.
Le sentenze particolarmente coraggiose che ho prima citato furono in realtà sporadiche. Anche perché, con la creazione dei tribunali speciali, i magistrati ordinari furono esonerati dal dover decidere processi schiettamente politici. E così, per usare ancora una volta le parole di Galante Garrone, «alla fine, il fascismo si consolidò, divenne regime; e la magistratura di allora, onesta ma non combattiva, al pari di ogni altro corpo dello Stato liberale non vi si oppose: lo subì passivamente, senza intime adesione e senza entusiasmi» [8]. È curiosa l’assonanza tra queste parole di un giudice che entrò in magistratura nel 1933 e quelle che Leonardo Sciascia fa dire al “piccolo giudice” nel romanzo Porte aperte di Sciascia: «Si sono fatti i loro tribunali speciali, ci hanno tenuti al di fuori e – perché non riconoscerlo – al di sopra della politica. Non potevamo opporci: avremmo perduto quello che ancora ci resta. Ci siamo contentati» [9].
***
Oltre alla “resistenza culturale” dei vecchi magistrati liberali durante il ventennio ci fu, dopo la caduta del fascismo, un’attività antifascista militante.
Dopo il 25 luglio 1943, i giudici che negli anni precedenti erano stati sotterraneamente antifascisti cominciarono a prendere contatti, a contarsi, a uscire dall’ombra.
Dopo l’armistizio, a Roma si organizzò un CLN dei magistrati che, dopo la strage delle Fosse Ardeatine, del 24 marzo 1944, riuscirono a bloccare le udienze [10]. Molti magistrati, in varie regioni d’Italia, pagarono con la vita il loro impegno antifascista.
Penso a Carlo Alberto Ferrero, della Corte d’appello di Torino che, per aver definito «prive di fondamento giuridico» le sanzioni a carico dei familiari dei renitenti alla leva, fu catturato dai tedeschi, seviziato, costretto a sfilare nel paese di Chiusa Pesio con appeso al collo un cartello con la scritta «traditore» e infine fucilato.
Penso al magistrato socialista Mario Fioretti che a Roma, il 12 dicembre 1943, fu ucciso in piazza di Spagna al termine di un comizio.
Penso al giudice di Ferrara Pasquale Colagrande, il quale, incarcerato dai fascisti, quando gli si offri di fuggire, rispose «Salvarsi? O tutti o nessuno». E poco dopo, davanti al plotone di esecuzione, alzò il grido: «Assassini!». Dirà Calamandrei in un discorso commemorativo tenuto a Ferrara nel novembre 1950: «Quella non fu un’imprecazione; egli era un magistrato: quella fu una sentenza, l’ultima inappellabile sentenza di un magistrato eroico».
Penso al giudice cuneese Vincenzo Giusto, che cadde in combattimento dopo aver raggiunto sulle montagne le formazioni partigiane.
Penso a due magistrati di Savona: il giudice Nicola Panevino, che morì sotto le torture delle SS; e il giudice Francesco Drago, catturato e fucilato dopo essersi unito alle unità combattenti.
Ma furono questi atti di eroismo individuale sostanzialmente isolati.
L’unica regione in cui una rete organizzata di magistrati venne coinvolta attivamente negli organismi politici e militare della Resistenza, fu il Piemonte. Anche perché a Torino, dopo il 25 luglio 1943, confluirono magistrati antifascisti da tutto il Nord. Tra questi, il giudice veneto Giovanni Colli, monarchico, che i magistrati della mia generazione ricordano come conservatore di ferro e arcigno Procuratore generale di Torino; ma che, nei mesi successivi al luglio 1943, fu tra i magistrati più intransigentemente antifascisti.
Proprio di questa originale esperienza piemontese devo ora parlare.
Già dall’estate 1944 il CLN piemontese affronta il problema di come assicurare l’ordine pubblico e governare la piazza al momento dell’insurrezione finale. Bisogna organizzare la giustizia per i giorni della Liberazione, per evitare il prolungamento della guerra civile [11]. Soprattutto, si tratta di stabilire come celebrare i processi nei giorni in cui, crollato il regime, le prevedibili rappresaglie di nazisti e fascisti imporranno una pronta repressione, per la quale certamente i normali tribunali saranno inadeguati. Cosa si dovrà fare delle spie, dei cecchini colti in flagranza, degli appartenenti a formazioni volontarie presi con le armi in pugno? Come assicurare un’immediata repressione, senza che questa si trasformi in brutale vendetta? Fin dal 20 luglio 1944, il CLN del Piemonte nomina segretamente Domenico Riccardo Peretti Griva presidente della Corte d’appello di Torino e Giacinto Bozzi procuratore generale [12]. Intorno a loro, avvocati e magistrati antifascisti torinesi intrecciano un’approfondita discussione, in costante collegamento con il CLN, sulle soluzioni giuridiche da adottare [13]. Il punto di riferimento più autorevole è Paolo Greco, liberale, professore di diritto commerciale all’università di Torino, rettore alla Bocconi di Milano dal ’38 al ’45, autore di testi divenuti classici sul contratto di lavoro, le società commerciali, il diritto d’autore. Sarà lui − con il nome di battaglia di “dottor Martini” − il primo presidente del CLN piemontese [14] e il vero “legislatore” del Comitato: l’estensore di tutti i principali suoi decreti.
Emergono subito due diverse posizioni. Gli “anziani”, Greco e Peretti Griva, tendono ad affermare una precisa continuità giuridica con il previgente ordinamento del regno d’Italia ed a rispettare, anche nella fase insurrezionale, i «fondamentali e universali canoni del diritto» [15]: nei processi che si dovranno celebrare ai fascisti arrestati nel momento del trapasso, Peretti Griva e Greco vogliono assicurare le garanzie processuali e vogliono che sia osservato il tradizionale principio di irretroattività della legge penale. Ritengono che sia possibile processare gli esponenti del regime autori dei fatti più gravi utilizzando gli strumenti del codice fascista, semplicemente invertendone i presupposti ideologici. Reati come il disfattismo politico a seguito di «intelligenza con lo straniero», puniti gravemente dal codice Rocco del 1930 − una volta assunto che lo Stato italiano, dopo il settembre 1943, è il regno di Brindisi − possono ora servire a colpire i fascisti.
Al contrario i più giovani, soprattutto gli uomini d’azione del CLN, non amano questi esercizi troppo giuridici: vorrebbero organi di giustizia e procedure eccezionali, capaci di realizzare una giustizia di popolo, con una repressione immediata e inflessibile.
Nei mesi che preparano l’insurrezione finale prevale la linea di coloro (i più giovani) che hanno contatti diretti con i combattenti. Il CLN del Piemonte approva a maggioranza un progetto che istituisce [16], per il periodo del trapasso, un organo straordinario di giustizia politica e militare: le «corti d’assise del popolo», presiedute da un magistrato designato dal CLN, che dovranno giudicare con una procedura semplificata ed emettere sentenze senza appello, immediatamente esecutive.
Non solo: le istruttorie per i reati di competenza delle corti non saranno svolte dai pubblici ministeri delle procure bensì da «commissioni di giustizia», composte da membri designati dai partiti [17].
Peretti Griva si allarma: le corti del popolo ma ancor di più le «commissioni di giustizia» gli sembrano uno strumento rivoluzionario che agirebbe «in contrasto con un principio giuridico e politico che fu una delle prime rivendicazioni della coscienza civile moderna» [18]. Scrive una lettera che, tramite la Svizzera, riesce a far pervenire ad Umberto Tupini, Ministro di grazia e giustizia del governo Bonomi: gli dice che il governo di Roma deve intervenire, per impedire atti di giustizia sommaria, perché queste «assise del popolo» rischiano di trasformarsi in «organi di vendetta, non di giustizia».
Si giunge infine ad una mediazione: il 6 aprile 1945, al termine di una faticosa discussione con il CLN, Peretti Griva accetta l’istituzione delle corti d’assise del popolo, ottenendo però che i loro presidenti vengano nominati non dal Comitato di liberazione ma dallo stesso presidente della Corte d’appello.
Peraltro, si stabilisce anche che, prima ancora delle «corti di assise del popolo», sino a quando le «operazioni belliche» saranno concluse, dovranno funzionare i «tribunali di guerra»: una sorta di organo di giustizia militare, che il CLN approva già nell’estate 1944, su proposta di Giovanni Colli [19]. Questi tribunali dovranno giudicare immediatamente, nei giorni dell’insurrezione, capi fascisti e spie [20]. E ciò con il dichiarato intento di «evitare l’insorgere di sommosse popolari ai fini di una giustizia che fatalmente degraderebbe in disordine ed arbitrio» [21].
Molto più delle «corti di assise del popolo», i «tribunali di guerra» (che verranno poi impropriamente chiamati «tribunali partigiani») sono organi di giustizia schiettamente politica, previsti per una fase rivoluzionaria. Sono composti da membri delle formazioni combattenti e decidono con giudizi sommari [22]. Ministri, sottosegretari, prefetti e segretari federali si considerano già condannati a morte per «intesa con il nemico ed opera diretta a colpire le forze armate del governo legittimo»: per loro i «tribunali di guerra» dovranno semplicemente accertare l’identità fisica «per ordinarne l’esecuzione capitale» [23]. Ugualmente, per i combattenti fascisti, sarà sufficiente verificare l’appartenenza dell’imputato ad una formazione volontaria [24] per pronunciare condanna a morte con esecuzione immediata.
Dunque, secondo le decisioni finali del CLN, i «tribunali di guerra» dovranno funzionare esclusivamente nei giorni dell’insurrezione: per reprimere i reati commessi dai traditori in tempo di guerra, secondo le regole sommarie della giustizia militare. Immediatamente dopo la Liberazione, dovranno entrare in funzione le «corti d’assise del popolo».
Questo era il programma, sulla carta, alla vigilia della insurrezione finale. Ma l’insurrezione di un popolo e l’incandescenza della folla al crollo di una dittatura non sempre sono incanalabili sui binari della giustizia tracciati dai giuristi. E così, nei giorni della Liberazione, gli equilibrati compromessi raggiunti tra Peretti Griva ed i membri del CLN non reggono l’onda d’urto dell’esplosione della piazza e sono spazzati dagli eventi. Le corti del popolo − che Peretti Griva aveva accettato a malincuore ma che avrebbero pur sempre operato nel solco della legalità - non diventano mai effettive. Operano invece «organi giudicanti composti in vario modo» [25] proclamatisi «tribunali partigiani» o «tribunali del popolo» il cui operato verrà semplicemente ratificato da decisioni dei «tribunali di guerra» delle formazioni del Corpo Volontari della Libertà. Il risultato sarà una giustizia sommaria che colpirà inesorabilmente alcune spie, qualche torturatore ma che a volte darà anche sfogo a «rancori e vendette private» [26].
Commentando questi fatti ed in particolare la scena di piazzale Loreto a Milano, Peretti Griva parlerà di «macabri episodi di sangue» e riconoscerà l’ingenuità della sua speranza di governare ed arginare «la sanguinosa immediata vindicta della folla esasperata» [27].
Piccola annotazione finale: gli anziani giuristi liberali, che erano stati protagonisti della «opposizione legalitaria» al fascismo, dimostrarono di essere difensori della legalità anche quando la Storia si ribaltò. Nei «giorni del furore», che accompagnarono la Liberazione, questi uomini furono i più strenui difensori delle garanzie processuali e del rispetto del tradizionale principio di irretroattività della legge penale.
Tentarono di sostenere, sia pur senza successo, l’idea dolce e giusta, anche quando storicamente irrealizzabile, che il “nemico”, nel momento in cui sale sul banco degli accusati, cessa d’essere un “nemico” e diventa, semplicemente, un imputato.
E nei giorni immediatamente seguenti, furono proprio questi magistrati liberali, intransigenti avversari del fascismo, a contribuire, più di chiunque altro, alla riaffermazione della legalità, prima ancora che gli Alleati facessero ingresso nelle grandi città del Nord Italia.
Anche in questo, furono coerenti.
[*] Relazione tenuta al corso Storia della magistratura (Roma, 10, 11 e 12 giugno 2019, Corte di cassazione).
L'immagine di copertina è un fotogramma tratto dal film La lunga notte del '43 di Florestano Vancini (1960).
[1] Circolari del ministro Pisenti del 31 gennaio e del 7 marzo 1944. Sulla visita a Torino di Pisenti, vds. A. Galante Garrone, La magistratura italiana fra fascismo e Resistenza, in Nuova Antologia, n. 2159, Luglio-Settembre, 1986; nonché P. Borgna, Un Paese migliore-Vita di Alessandro Galante Garrone, pp. 195-196, Laterza, 2006
[2] D.R. Peretti Griva − nel suo Esperienze di un magistrato, Einaudi, Torino, 1956, p. 30 − ricostruisce questo episodio ricordando una discussione stranamente pacata: «Il Pisenti, per le verità, mostrò di non adontarsi per un simile atteggiamento che, a priori, nei suoi confronti, aveva potuto apparire alquanto ardito, e dichiarò che egli stesso si era dato carico della cosa e che ci sarebbe stato tempo per pensarci. In effetti, nonostante – si noti bene – le furie di Farinacci su questo tema specifico, fu lodevolmente risparmiata dal Pisenti l’imposizione del giuramento ai magistrati».
[3] Così A. Galante Garrone, La magistratura italiana fra fascismo e Resistenza, cit., p. 80
[4] D.R. Peretti Griva, Esperienze di un magistrato, cit., p. 25.
[5] Ibidem, p. 327.
[6] Pubblicata per la prima volta da Laterza nel 2008 con il felice titolo Fede nel diritto.
[7] Calamandrei indica alcuni esempi aberranti di ritorno alla «barbarie», attuata contro i «russi bianchi» da «giudici politici liberati dal giogo delle leggi»: la madre del giovane ribelle che viene passata per le armi per «avere delittuosamente raccolto il cadavere di suo figlio»; il medico fucilato con l’accusa di «eccesso di popolarità»; il colonnello portato al patibolo «per avere fotografato il monumento di Caterina II».
[8] A. Galante Garrone, La magistratura italiana fra fascismo e Resistenza, cit., p. 81.
[9] Parole che ci vengono ricordate da A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, Bologna, 2012. p. 172.
[10] Traggo la notizia da A. Meniconi, cit., p. 242.
[11] Vds. G. Neppi Modona, Sanzioni contro il fascismo e amministrazione della giustizia, in Aspetti della Resistenza in Piemonte, Book’s store (ed. 1977), pp. 307-374 (vds. in particolare pp. 314 ss.). Neppi Modona approfondisce anche il problema del rapporto fra la produzione legislativa del CLN Alta Italia e quella del CLN della Regione Piemonte. Il Comitato piemontese precede il CLNAI nella propria attività legislativa, concependola come espressione di un «potere originario imposto dalla situazione di fatto, senza la necessità di alcuna investitura da parte di organi sovraordinati». Al contrario, il CLNAI, a partire dal settembre 1944, nella intestazione dei suoi decreti farà seguire, alla propria sigla, la frase «in virtù dei poteri ad esso delegati dal governo italiano» (ivi, pp. 319 ss.).
[12] Sia Peretti Griva che Bozzi sono magistrati di riconosciuta esperienza: entrambi già presidenti di sezione della Corte d’appello.
[13] Tra i magistrati che affiancano Peretti Griva spiccano Giuseppe Manfredini (amico di Piero Gobetti e collaboratore di Rivoluzione liberale e, più tardi, tra i fondatori del Partito d’Azione in Piemonte) e Giovanni Colli (il giudice veneto di cui abbiamo prima detto).
[14] Gli succederà Franco Antonicelli, anch’egli liberale.
[15] Questo era il dichiarato intendimento di Peretti Griva: vds. Esperienze di un magistrato, cit., p. 36.
[16] Con decreto n. 34 del 10 marzo 1945: riportato in Aspetti della Resistenza in Piemonte cit., p. 421.
[17] G. Neppi Modona, in Aspetti della Resistenza in Piemonte, cit., p. 345.
[18] Lettera di Peretti Griva al CLN del 18 ottobre 1944, cit. ibidem, p. 346.
[19] I «tribunali di guerra» sono istituiti con decreto n. 20 del 15 ottobre 1944 e saranno richiamati dall’art. 7 del piano «E 27» elaborato dal CLN piemontese come piano da applicare nei giorni dell’insurrezione. Il piano «E 27» fu approvato definitivamente dal CLN col nome ufficiale di «Prot. 211/1 segreto del 20 febbraio 1945».
[20] Precisamente: «Coloro che hanno fatto prendere e portare le armi a favore dello straniero contro le forze armate del governo legittimo e coloro che con azione di spionaggio hanno favorito lo straniero» (art. 7, IV comma del piano «E 27»).
[21] Art. 7, III comma, piano «E 27».
[22] Sono costituite cinque sezione del Tribunale di guerra: una per ogni settore operativo in cui viene divisa la città di Torino. Ciascuna sezione è composta da un presidente e due giudici tratti dalle formazioni mobili ed altri due giudici designati dai comandi di settore.
[23] Art. 7, IV comma, lett. A) piano «E 27».
[24] Brigate nere, formazioni Muti, X flott. MAS, Raggr. Btg. Cacciatori delle Alpi e degli Appennini, SS italiane, Milizie speciali indossanti la camicia nera, RAP, RAU [art. 7 IV comma. lett. B) piano «E 27»]. La condanna a morte obbligatoria riguarda solo i volontari. Al contrario, per i militari coscritti dell’esercito repubblicano il piano «E 27» prevede (all’art. 10) che essi vengano lasciati liberi «previa esplicita dichiarazione di non portare ulteriormente le armi contro le forze del CLN».
[25] A. Galante Garrone, Il mite giacobino-Conversazione su libertà e democrazia raccolta da Paolo Borgna, Donzelli, Roma, 1994, p. 92.
[26] Ibidem, p. 93.
[27] D.R. Peretti Griva, Esperienze di un magistrato, cit., p. 38.