1. Una vittoria inaspettata per i democratici, che non è apprezzamento per l’operato di Joe Biden
A più di due settimane dalle elezioni, i risultati del midterm statunitense -salvo il ballottaggio per il senatore della Georgia- appaiono definitivi. Se il Senato rimane ai democratici, la House of Representatives passa oggi ai repubblicani, che si avvantaggiano per 9 seggi.
Negli Stati Uniti le elezioni di midterm, che cadono a metà del mandato presidenziale e mettono in palio 435 seggi alla Camera bassa -ossia la House of Representatives nella sua interezza- e un terzo del Senato -ovvero 35 seggi in questa tornata- sono tradizionalmente considerate un vero e proprio test di gradimento dell’amministrazione e del Presidente in carica. La regola è che esse riservino sorprese amare a chi è al timone. 13 delle ultime 19 elezioni di midterm si sono concluse con la perdita di entrambe le camere per il partito presidenziale e delle 6 rimanenti solo in un caso il partito al governo le ha mantenute entrambe (si tratta di George W. Bush, nel 2002). 4 degli ultimi cinque Presidenti, che avevano il controllo di camera e senato nell’anno della loro prima elezione, al midterm hanno perso almeno una delle due camere, a volte con disfatte notevoli (https://www.reuters.com/graphics/USA-ELECTION/MIDTERMS/gdpzyzowgvw/index.html). Barack Obama, per esempio, al primo midterm, nel 2010, subì una diminuzione di ben 63 seggi alla Camera, perdendone il controllo, mentre nel secondo midterm restò senza né Camera né Senato. Lo stesso Donald Trump al midterm perse 41 seggi alla Camera, che passò così in mani democratiche.
E’ per questo che, nonostante la conquista della camera da parte dei Repubblicani, i democratici salutano i risultati di questa tornata come una grande vittoria. Malgrado la bassa approvazione popolare di Joe Biden (per tutto l’anno attestatasi sempre sotto il 45%) e la difficile contingenza economica -dovuta all’inflazione più alta da 40 anni a questa parte e al prezzo del gas che dal 2008 non si vedeva raggiungere le cifre attuali- Biden ha tenuto. Eccome se ha tenuto! Non soltanto il suo partito ha mantenuto il Senato; i risultati del ballottaggio del 6 di dicembre in Georgia ci diranno se non avrà addirittura guadagnato un seggio. Perfino alla camera il numero dei seggi persi è stato molto al di sotto dei pronostici: solo 9. Ciò che ha ribaltato le forze in campo: oggi 222 per i repubblicani e 213 per i democratici, mentre ieri la situazione era specularmente opposta. Alcuni studi statistici, basati su fattori prognostici legati al gradimento del Presidente e alla situazione economica -che peraltro si erano rivelati molto precisi nel 2018, quando la stima dei seggi persi da Trump aveva puntualmente trovato riscontro nei risultati delle urne- valutavano in 45 i seggi che il partito democratico avrebbe perso alla camera, ciò che avrebbe significato una House of Representatives formata da 177 democratici e 258 repubblicani (https://www.dropbox.com/s/95s7hip8bzg5x8n/Jacobson%202022%20Essay.pdf?dl=0). Altri studi, che insieme al basso apprezzamento per l’operato del Presidente prendevano in considerazione il numero di seggi che il partito democratico avrebbe dovuto difendere, stimavano in una trentina i seggi che sarebbero stati persi alla Camera, dando per sicura una sconfitta netta di non meno di 12- e tre quelli in meno al Senato (https://www.presidency.ucsb.edu/analyses/the-2022-midterm-elections-what-the-historical-data-suggest).
Cosa ha prodotto un risultato così diverso dalle attese? Due sono i fattori che paiono aver avuto un peso determinante, su cui i democratici hanno potuto contare: il pesante gerrymandering, che connota la definizione dei collegi elettorali negli Stati Uniti, e il fenomeno che John Sides, Chris Tausanovitch, and Lynn Vavreck hanno chiamato calcificazione del voto (The Bitter End: The 2020 Presidential Campaign and the Challenge to American Democracy, 2022). Una calcificazione che oggi produce sempre più partigianeria negativa, in un mondo politicamente iperpolarizzato.
2. Il gerrymandering
La prima ragione per la quale, nonostante la bassa approvazione da parte degli americani per il suo operato nel passato biennio, Biden ha evitato la débacle che i modelli statistici pur pronosticavano, è legata al modo in cui negli Stati Uniti vengono disegnati i distretti elettorali: il così detto gerrymandering. Si tratta della determinazione dei perimetri dei collegi elettorali, da parte della legislatura in carica, intenzionalmente effettuata per avvantaggiare il proprio partito ai danni di quello avversario. Il nome deriva dalla salamandra – “mandering” – perché i confini tracciati seguendo una logica strettamente partigiana finiscono spesso per dar luogo a una configurazione dei distretti così tortuosa da farli rassomigliare a quel mitologico animale. Laddove “gerry”, sta per Gerry Elbridge, il governatore del Massachusetts che per primo, nel 1812, firmò una legge volta a creare un collegio elettorale, che includesse la parte della popolazione favorevole al suo partito ed escludesse quella ad esso sfavorevole, al fine di far vincere al proprio raggruppamento politico un seggio senatoriale. Il gerrymandering può essere effettuato sia concentrando in un solo distretto tutti coloro che si pensa voteranno per il partito che si vuole svantaggiare (così detto packing), sia sparpagliando gli stessi su vari distretti in cui la maggioranza si esprimerà presumibilmente per il partito opposto, per modo che il loro voto risulti diluito e in concreto irrilevante (così detto cracking). Nonostante appaia come un’ovvia ingannevole mappatura dei collegi e come un modo per alterare il risultato elettorale a favore del partito che ha l’opportunità di realizzare il redistricting, dopo il suo recente definitivo sdoganamento da parte della Corte suprema nel 2019, negli Stati Uniti il partisan gerrymandering è consentito (https://micromegaedizioni.net/2021/11/05/stati-uniti-elezioni-distretti-elettorali/). Di esso si avvalgono tanto i democratici quanto i repubblicani per garantirsi seggi elettorali blindati. In questa elezione di midterm per la Camera c’erano, per esempio, 142 distretti blindati per i democratici e 169 per i repubblicani, ma 45 disegnati in modo che i seggi fossero più probabilmente democratici e 39 in modo che fossero più probabilmente repubblicani. I rimanenti 40 seggi erano competitivi, cioè effettivamente lasciati al gioco democratico. Indipendentemente, perciò, dall’approvazione per le politiche messe in campo da Biden e dal suo partito nei due anni passati e dalla situazione economica da esse determinata, i democratici potevano contare su un buon numero seggi a prescindere.
3. Calcificazione del voto, partigianeria negativa e iperpolarizzazione politica
Un secondo fattore che ha giocato a favore dei democratici in questa tornata elettorale è stata la calcificazione del voto, trasformatasi in partigianeria negativa. Come capita nel corpo umano, anche nel corpo elettorale la calcificazione produce rigidità e gli elettori che decidono di cambiare casacca sono ormai una specie in via di estinzione, spiegano Sides, Tausanovitch e Vavreck. Ciò accade -è questo il dato interessante segnalato da Pippa Norris e Ron Inglehart, in Cultural Backlash: Trump, Brexit, and Authoritarian Populism (2019) - perché i due partiti si dividono su linee ideologiche-culturali insormontabili, che li allontana sideralmente. Sempre Sides, Tausanovitch e Vavreck evidenziano per esempio che nel 1952, soltanto il 50% dei votanti pensava che ci fosse una grande differenza fra il partito democratico e quello repubblicano. Nel 1984 quella percentuale era pari al 62, nel 2004 al 76 e nel 2020 i convinti di una radicale differenza fra i due partiti erano addirittura il 90%. La competizione elettorale diventa allora una vera e propria guerra fra due fazioni, in cui la spinta a votare è determinata più dall’odio per l’altro che dall’amore per il proprio partito. Si vota, cioè, più contro che a favore: si vota il proprio partito, non tanto per attestargli o meno l’approvazione per ciò che ha fatto nel biennio precedente, in particolare sul piano delle politiche economiche, ma affinché non prevalga l’ideologia nemica. E’ la così detta partisanship negativa, che trova linfa vitale nelle contrapposte posizioni dei due partiti su temi quali l’aborto, l’immigrazione, il controllo sulle armi, la critical race theory, la gender theory, i diritti dei LGBTQI+, il vaccino anti-covid, ma che tralascia completamente ogni questione di distribuzione della ricchezza, epperciò di giustizia economico sociale. Accecati dall’odio alimentato da questioni socio-culturali nei confronti del partito avversario, quando ben potrebbero essere uniti nella richiesta di una distribuzione più equa delle risorse, gli elettori non mettono infatti più in discussione il proprio partito –democratico o repubblicano che sia- in relazione alle politiche economiche che da più di quarant’anni a questa parte -indipendentemente da chi si è avvicendato al governo- hanno accresciuto a dismisura le disuguaglianze e prodotto una povertà crescente (si confronti l’ultimo rapporto dello US Census Bureau sul reddito e la povertà in America e, in particolare, le tavole storiche https://www.census.gov/library/publications/2022/demo/p60-277.html ed eventualmente su questi temi il mio, Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Sellerio, 2017. Si tratta della completa esenzione da ogni responsabilità sul piano “materiale” dei partiti politici e la sconfitta bruciante della parte più debole della popolazione statunitense. Da ciò Biden, che si presentava addirittura come il nuovo Franklin Delano Roosevelt -l’artefice cioè delle politiche redistributive che avevano condotto al trentennio glorioso della prosperità condivisa- ma che pur avendo dalla sua Camera e Senato non ha rispettato nessuna delle promesse di equità socio-economica fatte in campagna elettorale (si pensi soltanto che il salario minimo garantito è fermo dal 2009 a 7.25 dollari all’ora, quando perfino una paga di 15 dollari orari, pur promessa da Biden, garantirebbe a stento una sopravvivenza dignitosa a chi lavora e ha famiglia), ha senz’altro tratto vantaggio. La calcificazione politica dei votanti, degenerata in partigianeria negativa, determina dunque la iperpolarizzazione cui oggi assistiamo e se sul piano ideologico-culturale la differenza fra i partiti è abissale, è invece bassa in termini di numero dei loro accoliti. La cifra dei voti su cui si gioca la partita diventa così molto limitata, come confermano la gran parte delle competizioni appena svoltesi.
4. Conclusioni
L’eventuale cambio di casacca del governo, da sinistra a destra o viceversa, non è però più destinato a produrre effetti significativi sul piano della eguaglianza economico-sociale dei consociati statunitensi. Iperpolarizzazione determinata da fattori ideologici-culturali e manipolazione strategica del voto degli elettori, ottenuta attraverso il gerrymandering, pongono, infatti, in secondo piano l’attenzione per tali questioni. Meglio per tutti i partiti giocare su altri piani, quello dell’odio verso il nemico e del rimaneggiamento truffaldino dei collegi elettorali, con buona pace per l’esigenza di invertire la rotta di una disuguaglianza sempre più insopportabile. Scriveva Frank Stricker nel 2007: «Gli Stati Uniti possono avere alcuni milioni di persone estremamente ricche oppure possono avere meno poveri e homeless. Non possono avere entrambi»[1]. Da qualche tempo a questa parte gli Stati Uniti si sono “calcificati” sulla prima delle due possibilità.
[1] F. Stricker, Why America Lost the War on Poverty-And How to Win it, The University of North Carolina Press, Chapel Hill (Nc), 2007, cap. II, p. 35.