Mai come in questa tornata elettorale l’attenzione del mondo intero è puntata sulle presidenziali statunitensi. La possibile permanenza alla casa bianca di Donald Trump, infatti, è percepita come una minaccia non solo all’ordine costituzionale interno -che il presidente in carica in più di un’occasione ha sfidato con successo-, ma altresì all’assetto giuridico internazionale, da cui in un’ottica sovranista Trump ha spesso preso le distanze, destabilizzando consolidate relazioni giuridiche interstatali (per una discussione su questi temi in questa rivista si veda https://www.questionegiustizia.it/articolo/trump-e-la-sfida-al-diritto-impeach-or-perish_15-01-2020.php). L’imprevedibilità delle mosse dell’attuale presidente, che si muove fuori da logiche e schemi convenzionali, è così quanto più preoccupa chi oggi auspica una sua sconfitta il 3 novembre prossimo.
E’ proprio d’altronde l’accennato tratto della sua personalità -ossia l’essere non convenzionale, anti-conformista e istrionico- ciò che rende Trump forte presso il suo elettorato, che i sondaggi indicano intorno al 46% di coloro che votano.
Si tratta certamente di un elettorato di destra e sovranista, che apprezza la politica anti immigrazione di un presidente che separa bambini e genitori migranti alla frontiera, costringendo illegalmente i piccoli a rimanere da soli in alberghi in cui non dovrebbero stare; o che in periodo di pandemia rispedisce in un mese in Messico – paese in cui la metà degli abitanti si trova sotto la soglia di povertà- ben 38000 persone che cercano rifugio negli Stati Uniti (https://www.wsj.com/articles/illegal-u-s-mexico-border-crossings-are-rising-again-driven-by-single-adults-11597665044). E’ un elettorato che con l’incumbent condivide anche il forte attaccamento alla tradizione violenta del “vigilantismo”, con il quale esprime l’adesione al mito di un controllo non statale del crimine, che si riallaccia ai tempi bui dei linciaggi da parte di gruppi di vigilantes contro i nativi americani e gli afro-americani. E’ la pancia di una nazione il cui tratto profondo fa capo a una tanto risalente quanto pervicace tradizione di valori improntati all’autotutela, entro cui trovano collocazione sia la pena di morte, che l’ideale di giustizia “fai da te” -la cui spia odierna è il diritto definitivamente costituzionalizzato dei cittadini statunitensi ad armarsi o a reagire in legittima difesa, uccidendo chiunque provi a violarne la proprietà privata.
Chi vota per di Trump è, però, anche fortemente attratto dal suo atteggiamento di rottura rispetto a un certo capitalismo: quello globale, incolpato di avvantaggiare i poteri forti a danno della maggioranza dei cittadini americani. Che si tratti del capitalismo globale industriale, che ha trovato massima manifestazione nell’organizzazione mondiale del commercio, con relativa messa in competizione di tutti i lavoratori poveri del mondo e conseguente forte delocalizzazione delle industrie statunitensi- accusata di essere la causa della perdita del lavoro e di potere contrattuale dei meno qualificati fra i lavoratori statunitensi; o si tratti di quel capitalismo globale tecnologico delle piattaforme come Facebook, Google, Twitter, ecc.. , che da un lato pretendono di andare esenti da responsabilità per i contenuti delle opinioni che ospitano, ma dall’altro vogliono poter censurare ciò che ritengono inopportuno- con quel che ne segue, agli occhi di molti, in termini di determinazione del pensiero dei fruitori dei social; o ancora si tratti di capitalismo globale farmaceutico, imputato di collusione con l’organizzazione mondiale della sanità -da cui il presidente ha recentemente annunciato il ritiro degli USA-, l’aperta ostilità anti conformista di Donald Trump nei confronti del globale a tutela del locale è percepita da tanti suoi sostenitori come difensiva di Davide nei confronti di Golia.
Ciò che sembra motivare gli elettori di Trump, garantendogli la base che ancora oggi lo contrappone saldamente a Joe Biden, in una competizione dagli esisti del tutto incerti, appare allora in fondo il senso di protezione che essa deriva dalla promessa di rottura rispetto a un ordine -nazionale e internazionale- costituito, sentito come corrotto e incapace di garantire i tanti nei confronti dello strapotere dei pochi.
Accanto a quella base ve n’è però un’altra, quella che dalla morte di George Floyd in poi ha scatenato una delle reazioni più imponenti che si ricordi nella storia degli Stati Uniti nei confronti un sistema che, essi pure, sentono come ingiusto e discriminatorio.
Le manifestazioni di piazza che da mesi ormai si susseguono a Portland, a Kenosha, a Los Angeles, ma anche altrove, come per esempio a Minneapolis, a Washington D.C. o a New York, e che hanno coinvolto fino a 25 milioni di persone, sono infatti certamente l’espressione del disagio profondo della massa della popolazione americana nei confronti della brutalità di una polizia che uccide 1000 persone l’anno, fra le quali spiccano i neri, che muoiono ammazzati due volte di più rispetto ai bianchi. Esse rappresentano, però, anche l’estremo grido di dolore di chi vuole portare l’attenzione della politica sulla straordinaria disuguaglianza economica e sociale americana, che in tempi di coronavirus promette di aumentare esageratamente, portando con sé il definitivo collasso di una parte della popolazione tanto consistente quanto addirittura la sua metà.
Già prima dello scoppio del coronavirus la distanza fra i ricchi e il resto della popolazione americana era, difatti, talmente ampia da consentire a tre soli uomini di possedere una ricchezza pari alla metà degli americani più poveri, i quali –secondo gli ultimi dati della Federal Reserve- fra il 1989 e il 2019 avevano perso 900 milioni (ritrovandosi in grande misura con soli debiti), a vantaggio dell’1 per cento più ricco che invece nello stesso periodo si era arricchito di ben 21mila miliardi (https://www.peoplespolicyproject.org/2019/06/14/top-1-up-21-trillion-bottom-50-down-900-billion/).
Quella metà della popolazione già prima di marzo si trovava in condizioni di indigenza tale da non essere in grado, per la stragrande maggioranza, né di sostenere una spesa improvvisa di soli 400 euro, né di mettere con sicurezza insieme il pranzo, la cena e l’affitto per arrivare alla fine del mese. E’ una destituzione umana che trova le sue manifestazioni più eclatanti nell’esagerato numero di homeless che popolano le strade delle metropoli statunitensi, o nella pandemia di morti per disperazione -di persone, cioè, che perdono il senso della vita- di cui ci parlano Deaton e Case (Angus Deaton, Anne Case, Deaths of Despair and the Future of Capitalism, Princeton University Press, 2020) quando descrivono il suicidio -soprattutto per mezzo di droga legale (oppiacei antidolorifici) e alcool- di 158.000 persone nel solo 2017 («come se tre Boeing 747 max pieni si schiantassero al suolo tutti i giorni dell’anno» spiegano). E’ un disagio che riguarda una fetta assai più consistente di quel che si è portati ad immaginare, giacchè tocca –si è detto- addirittura il 50 per cento degli americani, laddove la loro ricchezza mediana è per esempio di ben un terzo inferiore rispetto a quella italiana, nonostante la ricchezza media degli americani sia quasi il doppio rispetto alla nostra (Global Wealth Databook 2019 in https://www.credit-suisse.com/about-us/en/reports-research/global-wealth-report.html). Si tratta di una realtà che fa a pugni con la notevole crescita economica negli anni di un paese che resta il più ricco del mondo e che trova spiegazione nelle politiche legislative (e giurisprudenziali) che dai tempi di Reagan in poi, qualunque sia stato il colore del partito al potere, hanno permesso quel furto del ricco ai danni del povero testimoniato dai riportati dati della Federal Reserve.
Politiche fiscali regressive, conseguente ristrutturazione al ribasso degli istituti del welfare -che smettono così di proteggere i più deboli- e soprattutto politiche legislative e giurisprudenziali incapaci di tutelare i lavoratori quali parti vulnerabili del rapporto contrattuale (indeboliti per parte loro dalle delocalizzazione del settore manifatturiero) - volte anzi a colpirli pesantemente quando la situazione di quasi piena occupazione avrebbe finalmente potuto attribuire loro una posizione di forza ( penso qui alle non-compete clauses dei contratti di lavoro o alle clausole di arbitrato obbligatorio su cui https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/il-diritto-nordamericano-all-epoca-del-populismo-quali-tutele-per-i-lavoratori-_638.php)-, sono fra le cause di una disuguaglianza che ha significato non solo che i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri più poveri, ma che hanno costretto addirittura la metà della popolazione a combattere giornalmente per la sopravvivenza.
In queste condizioni l’avvento del coronavirus - e il conseguente notevole peggioramento sia delle disuguaglianze che delle condizioni economiche di chi era già sufficientemente provato - ha inevitabilmente esacerbato gli animi di quanti sono ormai consapevoli che, se le politiche legislative non cambieranno, l’aspirazione a vivere una vita minimamente dignitosa sarà persa per lungo tempo per una parte troppo consistente della popolazione. Mentre, infatti, a luglio i miliardari americani avevano incrementato il loro patrimonio di ben 755 miliardi dall’inizio della pandemia (https://inequality.org/billionaire-bonanza-2020-updates/), gli sfratti -bloccati fino alla fine di quel mese- sono ricominciati e le proiezioni ci dicono che addirittura 40 milioni di persone rischiano a breve di finire per strada. D’altronde, dall’inizio della crisi 12 milioni di lavoratori e i loro familiari hanno, insieme al lavoro, perso anche l’assicurazione sanitaria (https://www.epi.org/blog/ui-claims-rising-as-jobs-remain-scarce-senate-republicans-must-stop-blocking-the-restoration-of-ui-benefits/) e con essa (proprio in tempi di pandemia!) la possibilità di curarsi, andando ad aggiungersi ai quasi 30 milioni già in precedenza non assicurati.
Ecco allora che le proteste di piazza, che passano com’è noto anche per saccheggi e morti ammazzati, assumono il preciso significato di una richiesta di cambiamento da parte di chi sa che non potrà altrimenti più andare avanti. Si tratta di una rivendicazione di inversione di rotta rispetto a quanto fatto da quarant’anni a questa parte, di segno (almeno parzialmente) diverso rispetto alla mera rottura delle regole di cui sembra accontentarsi la base Trumpiana.
Il coronavirus, dunque, che ha ostacolato la corsa al secondo mandato presidenziale dell’incumbent -poiché difficilmente un presidente in carica che si presenti all’appuntamento elettorale con un’economia in buona salute (non importa se solo in apparenza per tutti) perde le elezioni- era dunque l’opportunità che si presentava al suo avversario di intercettare le richieste di una base ormai consapevole dei drammatici rischi delle politiche legislative regressive, che nel tempo hanno permesso all’un per cento di depredare tutti gli altri. Era, insomma, il momento di una piattaforma elettorale alla Bernie Sanders, il quale aveva promesso finalmente una tassazione più progressiva, una sanità pubblica per tutti, un’istruzione gratuita, che prendesse le distanze dall’attuale meccanismo che consente solo ai più ricchi -o a chi per tutta la vita sopporterà il peso di un debito- di istruirsi, e un salario minimo garantito capace di evitare quei 53 milioni di working poor che già prima della pandemia caratterizzavano il panorama americano. Le primarie però, anche grazie a un establishment democratico che lo ha emarginato fin dall’inizio perché troppo “socialista”, hanno escluso Sanders e Biden, che è risultato il vincitore, non ne ha raccolto l’eredità. Al contrario l’ex vice di Obama ha assunto un atteggiamento di forte rimprovero nei confronti degli “arsonists and anarchists” delle piazze che -ha asserito- dovranno essere penalmente perseguiti. Nel nominare Kamala Harris -una top cop come lei stessa si è descritta- quale sua candidata vice, ha inoltre dato un segnale assai poco simpatetico rispetto tanto alle esigenze di coloro che manifestano per chiedere meno polizia e più giustizia sociale, quanto di chi chiede meno discriminazione razziale. Nonostante nera, la Harris nella sua carriera si è infatti distinta come un procuratore “tough on crime”, soprattutto nei confronti di reati commessi da poveri, fra cui i neri spiccano in proporzioni notevolmente maggiori. Le sue politiche di persecuzione penale nei confronti dei genitori i cui figli marinano la scuola o quelle che hanno messo in carcere più di 1500 detentori di marijuana, hanno invero colpito in particolare proprio loro: gli afro-americani.
Un’occasione persa, dunque, per Biden, quella delle proteste di piazza ai tempi del coronavirus, che se diversamente interpretate avrebbero invece potuto renderlo gradito come candidato ad almeno una parte di quei 100 milioni di potenziali elettori che alle urne non ci vanno perché sfiduciati da politiche che non li riguardano mai. Un’occasione ben sfruttata, invece, dall’incumbent, che non si è certo lasciato sfuggire l’opportunità di promettere mano dura e law and order nei confronti dei manifestanti della “sinistra radicale”, strizzando l’occhio al suo elettorato timoroso di ogni disordine e pronto a quella giustizia fai da te di cui sopra, quando minacciato nella proprietà privata.
Se, insomma, il presidente in carica ha saputo intercettare il malcontento generale promettendo una sicurezza armata, il suo avversario non è stato in grado di contrapporgli una politica capace di tranquillizzare gli americani sul piano della sicurezza sociale.
In un diverso modo, poi, Donald Trump ha saputo rovesciare a sua favore una circostanza ostile come il coronavirus. L’esigenza, per i timori di contagio, di utilizzare il servizio postale - appositamente lasciato in affanno - in luogo del voto in presenza e il procurato allarme da lui suscitato ad arte sulle possibili truffe cui quella modalità di espressione del consenso darebbe luogo, preludono infatti ad una situazione di estrema confusione. Si pensi soltanto alla non peregrina ipotesi che un’iniziale vittoria di Trump risulti smentita da un successivo e tardivo conteggio dei voti postali. Una sconfitta di questo tipo gli lascerebbe aperta la strada a un’ovvia contestazione del risultato, con quel che ne potrebbe conseguire: da un ricorso alla Corte Suprema, come ai tempi di Bush v. Gore, a una vera e propria guerra civile.
Scenari certo non incoraggianti dunque, che per la prima volta mettono in seria discussione la capacità di resistenza di quello che finora è sempre stato considerato, a torto o a ragione, il sistema più democratico del mondo.