Il 5 gennaio 2016 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212 di attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI. Il provvedimento entrerà in vigore il 20.1.2016, fuori tempo massimo ma con un ritardo contenuto: la direttiva imponeva agli Stati membri per conformarsi mediante misure legislative, regolamentari e amministrative il termine del 16 novembre 2015.
Il Parlamento europeo e il Consiglio verranno informati entro il 16 novembre 2017 dalla Commissione in quale misura gli Stati membri avranno adottato i provvedimenti necessari per adeguarsi alle prescrizioni della direttiva.
L'Europa vuole sapere soprattutto – attraverso una precisa descrizione – come saranno state messe a punto quelle misure che garantiscono il diritto di accesso ai servizi di assistenza alle vittime (art. 8), il tipo di assistenza prestata dai servizi a favore delle vittime (art. 9) e il diritto alla protezione delle vittime esposte a rischi per la loro integrità psico-fisica prima, durante e dopo il procedimento penale (art. 23).
Diciamo subito che sono proprio questi diritti delle vittime – all'assistenza e alla protezione – quelli di cui il decreto legislativo si disinteressa totalmente, a differenza di altri Stati membri a noi omologhi (come la Francia, la Spagna e il Portogallo) che hanno tempestivamente e compiutamente dato attuazione alla direttiva 2012/29/EU.
Un'occasione mancata.
Il d.l.vo 15.12.15, n. 212 introduce solo modifiche di natura procedimentale in aperta sconfessione della direttiva che impone agli Stati una cura “complessiva” verso la vittima capace di collegare le esigenze di sicurezza individuale e collettiva, la preoccupazione per le conseguenze sociali del reato e quelle imprescindibili di garanzia processuale verso l'accusato.
Anziché varare una normativa generalista sulla tutela delle vittime il legislatore delegato ha preferito un intervento “spot” improntato a soluzioni formalistiche in una materia che richiede, al contrario e a differenza delle garanzie che devono assistere il ruolo dell'accusato, essenzialmente misure di ordine materiale sul piano organizzativo dell'assistenza e della protezione delle persone.
La mancata attuazione della direttiva aumenterà il dislivello tra il nostro e gli Stati membri nelle forme di tutela delle vittime di reato e alimenterà certamente il contenzioso nei confronti dello Stato italiano da parte dei cittadini stranieri – offesi da un reato – che non potranno contare sul nostro territorio delle misure minime di assistenza volute dalla direttiva o di quelle eventualmente più ampie garantite nei loro Stati di appartenenza. Siamo dunque esposti ad un nuova procedura d'infrazione dopo esser stati deferiti, nell'ottobre 2014, dalla Commissione alla Corte di Giustizia dell'Unione europea per l'insufficiente normativa italiana sull'indennizzo delle vittime di reato previsto dalla direttiva 2004/80/CE.
Il testo.
L'art. 1 contiene tutte modifiche al codice di procedura penale. L'art. 2 contiene due variazioni alle disposizioni di attuazione del codice stesso.
Viene modificato, innanzitutto, l'art. 90 c.p.p. sui diritti e le facoltà della persona offesa. Si aggiunge un comma 2 bis per invitare il giudice (ma era così necessario ?) a disporre perizia in caso di dubbio sulla minore età dell'offeso e a presumerla – ai soli fini processuali – quando la perizia non sia decisiva. E', invece, conforme alla direttiva l'estensione ai conviventi, legati affettivamente alla persona offesa deceduta, dei diritti e delle facoltà processuali che il codice (art. 90 comma 3 c.p.p.) riservava solo ai prossimi congiunti.
Il diritto all'informazione.
Viene aggiunto l'art. 90 bis c.p.p. che contiene un lungo elenco di informazioni – ben 14 – dovute alla persona offesa da parte dell'autorità procedente, in lingua comprensibile per la vittima.
Ad eccezione dell'ultimo tipo d'informazione (lett. p) relativa ad indicazioni sulle strutture sanitarie presenti sul territorio, sulle case famiglia, sui centri antiviolenza e sulle case rifugio) la norma vuole che si forniscano alla vittima informazioni tecniche procedurali. E' facile immaginare come l'autorità “procedente” assicurerà il rispetto della disposizione consegnando alla persona offesa un foglio variamente compilato ed eventualmente tradotto in alcune lingue, contenente – nel solito linguaggio burocratico con dovizia di riferimenti normativi – un elenco dei diritti e delle facoltà che la legge italiana riconosce alla persona offesa.
La direttiva 2012/29/UE non voleva questo. La direttiva ha dedicato al tema dell'informazione della vittima ben 4 articoli sui 32 complessivi. Il legislatore europeo vuole garantire alla persona offesa il diritto fondamentale di comprendere e di essere compresa: questo diritto si garantisce attraverso una relazione umana e non attraverso un adempimento burocratico.
La direttiva propone l’obiettivo di “assistere” la vittima nel momento delicato della denuncia affinché possa comprendere quello che succede e quello che succederà in conseguenza della sua denuncia e, soprattutto, per essere capita affinché gli inquirenti abbiano piena contezza di quanto le è successo.
La direttiva presuppone, come si vedrà meglio più avanti la costituzione di servizi di aiuto alla vittima che il nostro ordinamento invece disconosce totalmente come forma di intervento pubblico. Una legge di attuazione della Direttiva avrebbe dovuto prevedere un collegamento diretto tra uffici di polizia e uffici giudiziari, da un lato, e servizi di assistenza dall’altro affinché garantiscano un’attenzione individualizzata alla vittima nei termini che la stessa direttiva indica negli articoli successivi.
Si trattava di sviluppare le disposizioni che limitatamente al reato di stalking (art. 612 bis c.p.) il d.l. 23 febbraio 2009 n. 11 convertito in l. 23 aprile 2009 n. 39 prevedevano un obbligo di informazione a carico delle forze dell’ordine, dei presidi sanitari e delle istituzioni pubbliche a conoscenza di una notizia di reato per indirizzare la vittima consenziente ai centri antiviolenza presenti sul territorio.
Tale obbligo informativo è stato esteso dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, a favore delle vittime dei reati previsti dagli artt. 572 (maltrattamenti), 600 (riduzione in schiavitù) 600 bis (pornografia minorile), 600 ter (pornografia minorile), 600 quinquies (iniziative turistiche volte alla prostituzione minorile), 601 (tratta di persone), 602 (acquisto e alienazione di schiavi), 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies (violenza sessuale).
La direttiva vorrebbe procedere verso l’obiettivo del trattamento individualizzato della vittima a seguito di una denuncia per fatti penalmente rilevanti.
Una legge fatta come si deve dovrebbe pertanto indicare chi, a seconda dello stadio e della fase del procedimento penale, deve informare la vittima, con quale formazione devono essere preparati gli operatori incaricati, dove tali informazioni sono reperibili e come devono essere comunicate. Ad esempio è piuttosto improbabile che gli uffici di polizia abbiano tempo e attitudini per offrire tali informazioni. Ma gli uffici di polizia possono essere formati per indirizzare le vittime a degli operatori (soprattutto associazioni che operano a favore delle vittime) in grado di offrire una informazione individualizzata. Problemi simili si pongono a livello di uffici giudiziari. Chi fornisce tali informazioni? L’U.R.P.? Il casellario? Un ufficio apposito? Il decreto legislativo che qui si commenta concepisce la vittima ancora come oggetto, strumento – certo da manipolare con delicatezza – ma non come soggetto processuale e, sopratutto, non come soggetto-persona.
L'art. 6 della direttiva impone agli Stati di assicurare il diritto della vittima a conoscere stato e grado del procedimento che la riguarda, ivi compresa – anche se non è costituita parte civile – la decisione finale per mezzo di una motivazione sintetica.
L'insieme delle informazioni che la vittima dovrebbe ricevere nei palazzi di giustizia avrebbe dovuto indurre il nostro legislatore – sull'onda del positivo esempio francese del juge délegué aux victimes – a creare all’interno degli uffici giudiziari un apposito servizio per le vittime, animato da associazioni di volontariato ma con un magistrato incaricato al rilascio delle informazioni richieste dalle persone offese interessate.
D'altra parte nel parere (favorevole con osservazioni allo schema di decreto) espresso dalla Camera dei deputati nella seduta conclusiva del 27 ottobre 2015 il governo veniva invitato a prevedere la costituzione di un apposito ufficio per le vittime di reato presso ogni tribunale.
Sempre con l'art. 1 viene inserito l'art. 90 ter c.p.p. per conformare la nostra procedura penale alla previsione contenuta nell'art. 6 comma 5 della direttiva secondo cui gli Stati membri devono garantire alla vittima la possibilità di essere informata, senza indebito ritardo, della scarcerazione o dell'evasione della persona posta in stato di custodia cautelare, processata o condannata che riguardino la vittima stessa.
E' però inaccettabile che una legge dello stato costruisca un elementare dovere di informazione a favore di una vittima subordinandolo ad una espressa attivazione della persona offesa. E' troppo chiaro l'intento difensivo a tutela dell'amministrazione giudiziaria che potrà agevolmente sottrarsi alle proprie responsabilità per il mancato avvertimento alla vittima della scarcerazione del detenuto, con la scusa della mancata espressione da parte della vittima di voler essere informata della liberazione del proprio aggressore.
C'è un malcelato intento dissuasivo da comportamenti che una nazione civile non dovrebbe neppure disciplinare tanto ovvi dovrebbero essere i riguardi verso chi è stato vittima di aggressioni ed abbia motivo di temerne la ripetizione. Non a caso il parere della Commissione giustizia aveva esplicitamente suggerito la soppressione delle parole – riferite alla vittima –“che ne faccia richiesta” (di essere avvisata della scarcerazione o dell'evasione dell'accusato) contenute nell'art. 90 ter c.p.p.
E qui arriviamo ad un passaggio centrale della nuova disciplina sulle vittime di reato.
La vulnerabilità.
L'idea di fondo della direttiva – su cui sono già stati spesi molti commenti evidentemente sconosciuti al nostro legislatore – è che la condizione di vittima non è una sorta di status collegato ad una determinata qualità personale o al tipo di reato subito. Certo: le qualità soggettive della vittima e la natura dell'offesa non sono indifferenti. Però: l'essere vittima e i rischi di esposizione a nuove offese o, più semplicemente, di patire conseguenze negative per il solo fatto di essere vittime (la cd. vittimizzazione secondaria) dipendono da caratteristiche così soggettive che non possono essere classificate a priori. Questa è la ragione per cui è stata concepita una direttiva “generalista” per le vittime, che non garantisce assistenza e protezione solo ad alcune di esse. Questa è la ragione per cui è necessario comprendere quale sia la “vulnerabilità” in concreto della singola persona offesa.
Il d.l.vo 2015/212 sembra non aver letto la direttiva.
Il capo 4 della direttiva dedica alla protezione delle vittime e al riconoscimento delle specifiche esigenze di protezione ben sette articoli (dal 18 al 24): i primi quattro descrivono cosa debba intendersi per diritto alla protezione, diritto all'assenza di contatti tra vittima e autore del fatto, diritto alla protezione durante il procedimento penale e in particolare alla vita privata; l'art. 22 spiega quali debbono essere i criteri per valutare la vulnerabilità e solo il comma 3 di quest'ultima disposizione precisa che, nell'ambito della valutazione individuale, debba essere rivolta particolare attenzione “alle vittime che hanno subito un notevole danno a motivo della gravità del reato, alle vittime di reati motivati da pregiudizio o discriminazione che potrebbero essere correlati in particolare alle loro caratteristiche personali, alle vittime che si trovano particolarmente esposte per la loro relazione e dipendenza nei confronti dell'autore del reato. In tal senso, sono oggetto di debita considerazione le vittime del terrorismo, della criminalità organizzata, della tratta di esseri umani, della violenza di genere, della violenza nelle relazioni strette, della violenza o dello sfruttamento sessuale o dei reati basati sull'odio e le vittime con disabilità.”
Il d.l.vo 2015/212, invece, inserisce nel codice di procedura penale l'art. 90 quater con il preciso scopo di stabilire quali siano i criteri che permettono di effettuare la valutazione di vulnerabilità e indica nell'ordine: eta', stato di infermita' o di deficienza psichica, tipo di reato, modalita' e circostanze del fatto per cui si procede con particolare riguardo a fatti commessi con violenza alla persona, odio razziale, in contesti di criminalita' organizzata o di terrorismo, anche internazionale, di tratta degli esseri umani, con finalità di discriminazione, in danno di persona affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall'autore del reato.
In altri termini si fa desumere l'esigenza di protezione della vittima da caratteristiche “specifiche” anziché accertarla, in concreto, di volta in volta, a prescindere da quelle caratteristiche che qualificano una particolare situazione di vittimizzazione.
Le due prospettive hanno conseguenze inevitabilmente diverse: infatti se si afferma che la vulnerabilità della vittima va desunta da precise caratteristiche estrinseche si preclude la protezione per quelle vittime che non rientrano nel catalogo dell'art. 90 quater c.p.p. E, sopratutto, si affida la valutazione di vulnerabilità - e in particolare del rischio di vittimizzazione secondaria – all'operatore giudiziario (polizia giudiziaria o magistrato) anziché ad operatori formati alla bisogna.
Il decreto, infatti, non si preoccupa di indicare quale sia il soggetto abilitato a fornire elementi di valutazione della vulnerabilità della vittima contraddicendo l'indicazione della direttiva che all'art. 9 attribuisce tale compito ai servizi di assistenza. Anche su questo punto il parere della Camera dei deputati era stato chiaro nell'invitare il governo a considerare l'opportunità di attribuire al pubblico ministero lo specifico compito di dichiarare l'eventuale stato di vulnerabilità della vittima anche attraverso un accertamento tecnico psicologico.
Nel parere della Commissione giustizia la rubrica dell'art. 90 quater c.p.p. si intitolava, appunto, alla “dichiarazione dello stato di vulnerabilità della vittima e del testimone” da notificarsi – a seconda dei casi – alla vittima stessa, all'indagato e ai loro difensori.
D'altra parte – secondo il d.l.vo 2015/212 – la valutazione e l'accertamento dello stato di vulnerabilità ha numerose conseguenze pregnanti sul piano processuale:
⁃ sancisce l'irripetibilità delle dichiarazioni della persona offesa vulnerabile che sia stata sentita in sede di incidente probatorio o in dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate: il ri-esame è ammesso solo – in linea con le altre situazioni “a rischio” già previste dall'art. 190 bis c.p.p. - se riguarda fatti o circostanze diversi o se il giudice o una parte lo ritengono necessario in base a specifiche esigenze. Questo prevede l'integrazione al comma 1 bis dell'art. 190 bis c.p.p.;
⁃ la p.g. può avvalersi di un esperto nominato dal pubblico ministero per sentire a sommarie informazioni la persona offesa e si assicura che la stessa non abbia contatti con la persona accusata (in occasione della richiesta di s.i.t.) e che non sia chiamata più volte a rendere tali informazioni (aggiunta all'art. 351 comma 1 ter c.p.p.);
⁃ identica previsione è, ovviamente, estesa quando è il pubblico ministero ad acquisire le sommarie informazioni (aggiunta all'art. 362 comma 1 bis c.p.p.);
⁃ il pubblico ministero – anche su richiesta della vittima vulnerabile – o l'accusato possono chiedere che si proceda con incidente probatorio all'assunzione della testimonianza dell'offeso (aggiunta all'art. 392 comma 1 bis c.p.p.);
⁃ il giudice, su istanza della persona offesa vulnerabile o del suo difensore, dispone l'adozione di modalità protette (art. 398 comma 5 quater e sostituzione del comma 4 quater dell'art. 498 c.p.p.).
Queste ricadute dell'accertamento della vulnerabilità della vittima sul piano della formazione della prova dimostrano tutta la delicatezza del “procedimento” valutativo delle condizioni soggettive della vittima. Le garanzie di una corretta valutazione non possono essere che affidate a personale esperto, appositamente formato al contatto e al trattamento della vittima. E' necessaria non solo una formazione di base di tipo psicologico e giuridico ma anche un'esperienza maturata sul campo.
Per questo occorre ribadire non solo che la valutazione di vulnerabilità non può essere “desunta” da elementi estrinseci, non solo non può essere lasciata in mano all'operatore giudiziario (pm o pg) ma che questa valutazione è una delle ragioni fondanti la necessità di istituire appositi servizi per le vittime di reato.
Per esperienza professionale posso affermare che la valutazione della vulnerabilità e, in particolare, la valutazione del rischio di vittimizzazione secondaria prospettabile in occasione dell'esame dibattimentale della vittima sono funzionali all'individuazione delle esatte modalità di protezione che il giudice deve disporre a garanzia della genuinità delle dichiarazioni dell'offeso e dei diritti dell'accusato.
E' infatti nel corso del colloquio tra la vittima e l'operatore dei servizi per le vittime che possono emergere gli elementi che orientano la scelta o l'esclusione di modalità protette nell'esame dibattimentale o nell'incidente probatorio.
Solo la diffidenza da parte dell'avvocatura verso garanzie diverse da quelle che devono essere riservate all'accusato impedisce di comprendere come una buona e precoce valutazione della vulnerabilità della vittima costituisce lo strumento migliore per disvelare precocemente false accuse che, altrimenti, conducono a prolungate fatiche dibattimentali dolorose per l'accusato stesso.
Credo, infine, di poter affermare che se si accogliesse fino in fondo la prospettiva indicata dalla direttiva tutta la materia dell'esame della persona vulnerabile in sede di incidente probatorio (anche l'accusato può avere interesse a sentire persone vulnerabili che non siano persone offese) sia esso un maggiorenne o un minorenne potrebbe essere riscritta in modo lineare superando l'attuale groviglio di eccezioni (e di eccezioni di eccezioni) a seconda della natura del reato o delle qualità della persona da sentire.
La ripresa audiovisiva delle dichiarazioni della vittima vulnerabile.
Credo che una delle tecniche migliori per apprezzare, valutare e giudicare la vulnerabilità della persona offesa consista nel registrare in modalità audio-video le sue prime dichiarazioni che nella maggioranza dei casi coincidono con il momento della denuncia. E' noto come – sopratutto nei casi di violenza di genere e domestica – la rivelazione sulla reale consistenza dei fatti avvenga in situazioni di “crisi” che conducono la vittima a scegliere la strada della denuncia rivolgendosi alle forze dell'ordine prima ancora di intraprendere percorsi riabilitativi e assistenziali.
La Commissione giustizia – facendo proprie indicazioni di associazioni per le vittime e di esperti – aveva espressamente invitato il governo ad inserire nell'art. 351 c.p.p. la previsione della videoregistrazione obbligatoria da parte della p.g. delle sommarie informazioni rese dalla persona vulnerabile maggiore o minore di età.
Ma, anche in questo caso, il governo ha dato prova di miopia e sordità con un intervento limitato alla documentazione degli atti processuali (art. 134 c.p.p.) consentendo la riproduzione audiovisiva delle dichiarazioni della persona offesa in condizioni di particolare vulnerabilità “al di fuori delle ipotesi di assoluta indispensabilità” : il che è un controsenso perché se la vittima versa in condizioni di vulnerabilità e si tratta di apprezzare anche quegli aspetti (principalmente emotivi e non esattamente verbalizzabili) attraverso la videoregistrazione della sua deposizione va da sé che ricorrono gli estremi della indispensabilità e non del capriccio del giudice.
Merita, invece, richiamare per esteso il parere della Commissione giustizia della Camera dei Deputati: la videoregistrazione obbligatoria della persona vulnerabile in fase di indagini è “una misura coerente anche con le indicazioni della giurisprudenza della Corte di legittimità che assegna un valore inquinante alle domande suggestive (che possono essere poste anche all'inizio della progressione dichiarativa, ovvero durante le audizioni investigative, senza che la correttezza dell'esame sia controllabile).La misura si manifesta opportuna anche in relazione al fatto che le difese spesso (legittimamente) basano le loro strategie difensive proprio sul dubbio circa l'eteroinduzione dei contenuti accusatori in fase investigativa. Fase a volte «oscura», che la videoregistrazione renderebbe finalmente fruibile a garanzia dell'accusato e della parte lesa”.
La nomina di un interprete.
Il d.l.vo 2015/212 introduce l'art. 143 bis c.p.p. per allargare le ipotesi di nomina dell'interprete per la traduzione di uno scritto, per acquisire dichiarazioni di una persona (diversa dall'imputato) che non conosce la lingua italiana o, quando trattasi di persona offesa, al solo fine di permettere di seguire l'udienza in una lingua a lei comprensibile.
La novità interessante di questo art. 143 bis c.p.p. è contenuta nel comma 3 che ammette l'assistenza dell'interprete “anche mediante l'utilizzo delle tecnologie di comunicazione a distanza, sempreché la presenza fisica dell'interprete non sia necessaria per consentire alla persona offesa di esercitare correttamente i suoi diritti”.
Qui dobbiamo poter immaginare – ma non so se questa era la prospettiva del legislatore delegato – la possibilità di istituire (ovviamente solo in funzione della persona offesa e non dell'imputato) un servizio di interpretariato a distanza che permetta all'alloglotta di comprendere e di farsi comprendere nel processo con dei semplici auricolari collegati ad un centro di interpretariato. Un tale servizio potrebbe essere condiviso da più uffici giudiziari con risparmio di spesa e indubitabili vantaggi in termini di professionalità oggi irraggiungibili per l'indisponibilità degli interpreti a perdere giornate interne per un servizio di poche ore o di pochi minuti sottopagati.
L'art. 143 bis c.p.p. - e in un certo senso anche il nuovo art. 107 ter disp. att. c.p.p. introdotto dall'art. 2 del d.l.vo 2015/212 - ripropone la necessità di istituire un apposito ufficio per le vittime di reati all'interno dell'ufficio giudiziario perché, al comma 4, vuole garantire alla persona offesa che non conosce la lingua italiana il diritto alla traduzione GRATUITA degli atti o di parti di essi purché, ovviamente, contengano informazioni utili all'esercizio dei suoi diritti. E poiché tale traduzione può essere disposta sia in forma orale che per riassunto si comprende come un moderno ufficio giudiziario possa associare la costituzione di un ufficio per le vittime ad un servizio call-center per facilitare la comprensione della vicenda processuale alle vittime.
Conclusione.
Vi sarebbero ulteriori osservazioni da svolgere a commento di questo impianto del tutto inidoneo ad assicurare conformità del nostro ordinamento alla direttiva sulle vittime. Si è persa un'occasione importante per affrontare finalmente il tema delle vittime di reato in termini di cura verso le persone coinvolte loro malgrado nel percorso giudiziario, per una effettiva riduzione dei danni derivanti dal reato e, sopratutto, per un lavoro di semplificazione e pulizia processuale a tutto vantaggio di una corretta formazione della prova dibattimentale.
Il d.l.vo 2015/212 continua a considerare la vittima come un oggetto, uno strumento – per quanto delicato – nella formazione della prova. Non considera che è al tempo stesso “parte” a tutto tondo del processo anche quando non si costituisce per il risarcimento dei danni patiti e che in quanto parte, portatrice di interessi non solo civilistici ma relativi alla propria integrità psico-fisica, alla propria dignità, alla propria libertà, introduce nella dialettica processuale una variante di cui i processualisti dovrebbero cominciare a tener conto.
Non vi è dubbio che l'irruzione della vittima nella normativa processualistica altera il tradizionale schema accusatorio che oppone il cittadino accusato alla potestà punitiva dello stato e propone una relazione triadica nella quale anche il giudice diventa sempre più spesso interlocutore per soddisfare esigenze che non si risolvono nel mero giudizio. La direttiva sulle vittime elegge il giudice a garante della vittima non meno di quanto non lo debba essere già dell'accusato.
E, sopratutto, la direttiva indica una strada completamente elusa dal nostro legislatore: il processo penale non è un regno separato dal contesto nel quale operano attori sociali importanti per le stesse funzioni giurisdizionali. La salute della vittima, non diversamente da quella dell'accusato, costituisce un bene oltre che un diritto da tutelare in forme che impongono un rapporto stretto tra istituzione giudiziaria, servizio sanitario, amministrazione locale e volontariato.
Questa prospettiva lascia del tutto indifferente il nostro legislatore. Perché? Per ottusa mentalità giuridica? Per pura miopia? Per disinteresse? Per timore di mettere a bilancio spese insostenibili?
Ai lettori la corretta risposta.