L’ordinanza del Tribunale di Catanzaro in commento rappresenta una importante applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza delle Corti europee centrali e della Corte di cassazione in materia di attribuzione dello status di rifugiato e contiene interessanti affermazioni in merito a diverse questioni, processuali e sostanziali, di primario rilievo.
Per comprenderne più agevolmente la portata è opportuno avere presente per quale ragione il ricorrente – che pure era stato ritenuto dalla Commissione Territoriale in condizione di ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari – ha impugnato la relativa decisione per ottenere il riconoscimento della protezione internazionale.
Al riguardo, va precisato che in Italia sono previste tre forme di protezione per gli immigrati c.d. “forzati”, di cui due internazionali, rappresentate dallo status di rifugiato e dalla protezione sussidiaria, e una terza nazionale, cioè la protezione umanitaria, la cui disciplina di base è contenuta negli artt. 5, comma 6, e 19 del d.lgs. n. 286 del 1998, nonché nell’art. 32 della legge n. 189 del 2002.
Quest’ultima forma di protezione – prevista nel nostro ordinamento molto tempo prima del recepimento della c.d. direttiva qualifiche – non è tuttavia riconosciuta dal Sistema di asilo europeo, anche se – come reiteratamente affermato dalla Corte di giustizia UE (vedi, per tutte: sentenza della Grande Sezione 9 novembre 2010 nelle cause riunite C-57/09 e C-101/09) – è consentita, a condizione che la sua previsione non comporti un rischio di confusione con la protezione internazionale. Ciò significa, in primo luogo, che la “protezione umanitaria” – che rappresenta tuttora una delle soluzioni più frequenti adottate dalle Commissioni Territoriali – trova riconoscimento soltanto nel territorio nazionale, sicché finisce con il rappresentare un ulteriore ostacolo per un successivo reinsediamento legale dell’immigrato in un Paese diverso dal nostro.
Detto questo, l’ordinanza in oggetto può considerarsi una importante applicazione di quella che è la caratteristica peculiare dei giudizi in materia di protezione internazionale, che trova la sua base normativa nell’art. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007 e che si sostanzia nell’attribuzione al giudice di un ruolo attivo nell’acquisizione delle informazioni utili per l’esame del caso, pur rimanendo, il ricorso introduttivo del giudizio, sottoposto all’applicazione del principio dispositivo, che comporta l’onere del ricorrente di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, non essendo possibile per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio stesso (vedi, sul punto: Cass. 28 settembre 2015, n. 19197 e Cass., 20 gennaio 2012, n. 820).
La suddetta caratteristica ha assunto grande rilievo nell’evoluzione della giurisprudenza e rappresenta la valorizzazione di uno dei principi ispiratori della normativa UE in materia, quello secondo cui alle autorità (amministrative e giurisdizionali) coinvolte, a vario titolo, nelle diverse fasi del procedimento per il riconoscimento del diritto d’asilo e/o della protezione internazionale spetta il compito prioritario di cooperare per l’accertamento delle condizioni che consentano allo straniero di godere della protezione richiesta.
In particolare, da epoca risalente, è stato evidenziato che il suddetto ruolo attivo richiesto al giudice per giungere al più completo accertamento dei fatti e delle situazioni prospettate deriva dalla implicazione nei suddetti giudizi di diritti umani fondamentali e dalla necessità di rispettare le norme internazionali e sovranazionali di riferimento (vedi, per tutte: Cass., SU 17 novembre 2008, n. 27310 nonché Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, sentenza 2 dicembre 2014, cause riunite da C-148/13 a C-150/13).
Peraltro, la giurisprudenza nazionale ed europea, ha sempre posto l’accento anche sullo stretto collegamento esistente tra il ruolo attivo che il giudice è chiamato a svolgere nel procedimento e il comportamento tenuto dall’interessato nel corso del procedimento stesso.
Va, infatti, sottolineato che anche al ricorrente è richiesto di avere un comportamento collaborativo. Egli è tenuto non soltanto a presentare oltre alla domanda di protezione internazionale tutti gli elementi di documentazione necessari per motivarla, ma anche a mostrare, nel corso della procedura, un atteggiamento collaborativo, atteggiamento che assume grande rilevanza, visto che la valutazione degli elementi probatori deve essere effettuata dal giudice con la cooperazione dell’interessato. Pertanto, la diligenza e la buona fede del richiedente possono servire ad integrare l’insufficiente quadro probatorio offerto ovvero a valutare come attendibili e verosimiglianti le allegazioni di fatti e le dichiarazioni del richiedente medesimo.
Peraltro, la stessa correttezza è richiesta anche all’Amministrazione, sicché è stato affermata la necessità di far precedere il provvedimento amministrativo della Commissione Territoriale dalla comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241, espressamente richiamato dall’art. 18 del d.lgs. n. 25 del 2008, in quanto l’iniziativa officiosa e collaborativa del giudice, pur potendo essere negata quando le prospettazioni documentali ed orali del richiedente protezione siano di tale implausibilità da rendere la stessa inutile, non può essere declinata allorché il richiedente protezione, per omesso avviso dell’inizio del procedimento amministrativo, non abbia potuto ragionevolmente formulare nessuna produzione o deduzione (vedi: Cass., 26 giugno 2012, n. 10546).
Si tratta di una disciplina – corrispondente alle indicazioni contenute nel manuale dell’UNHCR, che nel precedente regime erano invece ininfluenti, visto che doveva essere il richiedente a fornire la prova della propria credibilità – la quale ha dato luogo non solo a una rivoluzione delle ordinarie regole dell’onere della prova nell’ambito del processo civile ma anche a una precisa configurazione dei poteri istruttori di ufficio delle Commissioni Territoriali e dei giudici, nonché al comportamento tenuto dall’interessato.
Ciò è stato evidenziato, in più occasioni, dalla giurisprudenza di legittimità che, con consolidato indirizzo, ha affermato che il regime dell’onere della prova previsto dall’art. 3 del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, in tema di accertamento del diritto ad ottenere una misura di protezione internazionale, va inteso nel senso che, se il richiedente non ha fornito prova di alcuni elementi rilevanti ai fini della decisione, le allegazioni dei fatti non suffragati da prova devono essere ritenuti comunque veritieri se il richiedente: a) ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) ha fornito un’idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi, le dichiarazioni rese sono coerenti, plausibili e correlate alle informazioni generali e specifiche riguardanti il caso; c) ha presentato la domanda il prima possibile o comunque ha avuto un valido motivo per ritardarla; d) dai riscontri effettuati il richiedente è attendibile (Cass., 18 febbraio 2011, n. 4138 e, nello stesso senso, fra le tante: Cass., 24 marzo 2011, n. 6879). Pertanto, le lacune probatorie del racconto del richiedente asilo non comportano necessariamente inottemperanza al regime dell’onere della prova. Il giudice, infatti, non deve prendere in considerazione puramente e semplicemente la maggiore o minore specificità del racconto del richiedente asilo, ma è tenuto anche a valutare se questi abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda (lett. a), se tutti gli elementi pertinenti in suo possesso siano stati prodotti e se sia stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi (lett. b), sicché, in linea generale, può superare le suddette eventuali lacune grazie alla valutazione che è tenuto a compiere delle circostanze indicate alle lettere da a) ad e) dell’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 251 cit. (Cass. 10 luglio 2014, n. 15782; Cass. 30 luglio 2015, n. 16201).
Ovviamente, è stato altresì sottolineato che nei presenti giudizi è determinante individuare con precisione quale è la reale situazione del Paese di provenienza dello straniero onde verificare, sulla base di informazioni oggettive e facendo uso dei poteri officiosi d’indagine ed informazione indicati nell’art. 8 del d.lgs. n. 25 del 2008, se l’interessato sia nella condizione di poter essere perseguitato o minacciato (per i motivi indicati dalla legge), prendendo in considerazione, ma soltanto con riguardo alla specifica riferibilità al richiedente delle suddette situazioni, anche le dichiarazioni da questi rese, la loro credibilità e le modalità con le quali lo stesso ha adempiuto all’onere probatorio a suo carico ha (vedi, per tutte: Cass., 23 dicembre 2010, n. 26056; Cass., 27 luglio 2010, n. 17576).
Ebbene, il Tribunale di Catanzaro ha applicato in modo completo i suddetti principi dando adeguato rilievo alla centralità del sistema di attenuazione dell’onere probatorio nei giudizi in materia di protezione internazionale e dando ampio spazio alla valutazione di tutti gli elementi previsti dall’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 251 del 2007, a partire dal comportamento processuale collaborativo e corretto del ricorrente.
Quanto al merito della richiesta, il Tribunale, dopo aver acclarato la genuinità delle dichiarazioni del ricorrente in merito alla propria condizione di omosessuale, ha dato debitamente conto dell’istruttoria svolta per determinare la situazione degli omosessuali del Paese di provenienza del ricorrente (Ghana) ed avendo accertato che l’omosessualità è considerata un reato dall’ordinamento giuridico di tale Paese, ha riconosciuto lo status di rifugiato.
Anche, per questa parte, l’ordinanza risulta del tutto conforme ai principi affermati dalla giurisprudenza in materia (vedi, per tutte: Cass., 10 luglio 2012, n. 11586; Cass., 20 settembre 2012, n. 15981; Cass. 25 luglio 2007, n. 16417). Da ultimo Cass. 20 settembre 2012, n. 15981 (citata dal Tribunale di Catanzaro) ha specificato (con riferimento al Senegal) che la circostanza per cui l’omosessualità sia considerata un reato dall’ordinamento giuridico del Paese di provenienza è rilevante, ai fini della concessione della protezione internazionale richiesta, perché costituisce una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali, che compromette grandemente la loro libertà personale e li pone in una situazione oggettiva di persecuzione. Ed ha aggiunto che devono, pertanto, essere acquisite le prove, necessarie al fine di acclamare la circostanza della omosessualità del richiedente, la condizione dei cittadini omosessuali nella società del Paese di provenienza e lo stato della relativa legislazione, nel rispetto del criterio direttivo della normativa comunitaria e italiana in materia di istruzione ed esame delle domande di protezione internazionale.
Proprio come è accaduto con riguardo alla presente interessante e ben motivata ordinanza del Tribunale di Catanzaro.