1. Premessa
La protezione umanitaria prevista dall’art. 5 co. 6 d.lgs n. 286/1998, abrogata nel 2018 e superata dalla protezione speciale e complementare (che è stata successivamente rivisitata attraverso il dl n. 130/2020 convertito nella L. n. 173/2020), rimane oggetto di un dibattito giurisprudenziale costante: anche se le recenti opportune modifiche normative appena richiamate hanno ridotto gli effetti (negativi, a parere di chi scrive) del dl n. 113/2018 convertito nella l. n. 130/2018, sono molte le questioni ancora irrisolte per una ricostruzione della fattispecie pienamente compatibile con i principi della Carta Costituzionale e delle Convenzioni Europee ed internazionali.
Come è noto, il primo arresto significativo per la definizione dei contorni della protezione umanitaria è rappresentato dalla nota decisione Cass. n. 4455/2018 che presenta un contenuto motivazionale ben più ampio dei confini della massima costantemente richiamata: tutti i provvedimenti che si occupano, quasi sempre in via gradata, della fattispecie, infatti, richiamano il principio secondo cui «in materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui all'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d'origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel Paese d'accoglienza».
La sentenza impugnata, in quel caso, venne cassata su ricorso del Ministero dell’Interno in quanto, in assenza di comparazione, era stato riconosciuto ad un cittadino gambiano, presente in Italia da oltre tre anni, il diritto al rilascio del permesso di soggiorno in ragione della raggiunta integrazione sociale e lavorativa, sulla base, però, della generica allegazione della violazione dei diritti umani nel Paese d'origine, sulla quale venne ritenuto che non ci fosse stato un sufficiente approfondimento istruttorio.
Dalla lettura della motivazione, emerge che il vulnus su cui venne incentrata la cassazione della sentenza era una inadeguata valutazione della “vulnerabilità” del richiedente asilo che, nel percorso argomentativo seguito, rappresentava il fulcro sostanziale che la Corte di Cassazione richiese al giudice di merito di rivalutare: venne infatti affermato che «i "seri motivi" di carattere umanitario oppure risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano (art. 5, comma 6, cit.), alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (Cass., sez. un., n. 19393/2009 e Cass., sez. un., n. 5059/2017), non vengono tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore, cosicché costituiscono un catalogo aperto (Cass. n. 26566/2013), pur essendo tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità attuali o accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero, in presenza di un'esigenza qualificabile come umanitaria, cioè concernente diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale (cfr. Cass., sez. un., 19393/2009, par. 3) il cui livello di tutela nel paese di origine doveva essere compiutamente accertato».
L’oggetto principale della protezione “minore”, riconosciuta dal diritto interno è, dunque, la “vulnerabilità” della persona che deve essere individuata attraverso il giudizio di comparazione, rispetto al quale l’integrazione lavorativa non rappresenta un fattore esclusivo ma solo una circostanza che può concorrere a determinarla: già in quell’occasione, venne affermato che il parametro di riferimento non poteva che cogliersi, oltre che nell'art. 2 Cost., nel diritto alla vita privata e familiare, protetto dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, così come declinato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, senz'altro da includersi nel catalogo (aperto) dei diritti della persona. Oltretutto, in tal modo, la protezione umanitaria rappresentava, per la conformazione atipica, una fattispecie idonea ad esaurire, insieme alle altre forme di protezione internazionale, il contenuto dell’asilo costituzionale di cui all’art. 10 Cost.
2. L’evoluzione della normativa e della giurisprudenza
Sono note le vicende normative ed interpretative successive a Cass. n. 4455/2018 che vengono di seguito sintetizzate, in ordine cronologico:
a) dapprima l’entrata in vigore della l. n. 130/2018 di conversione del dl n. 113/2018 che ha abrogato l’art. 5 co. 6 T.U.I., nel tentativo di circoscrivere l’atipicità della fattispecie e di collocarla in spazi molto più ristretti[1], sottraendo, di fatto, al giudice il potere di valutazione delle svariate declinazioni esistenziali compatibili con tale forma temporanea di tutela;
b) in tempi immediatamente successivi, l’intervento della Corte di Cassazione, a sezioni semplici, attraverso le numerose pronunce affermative della irretroattività della normativa abrogatrice del 2018[2] alle quali è seguita l’ordinanza di rimessione alle sezioni unite ( cfr. Cass. n. 11749/2019) per la rivalutazione sia della questione intertemporale sia di quella relativa alla individuazione dei presupposti della fattispecie, con specifico riferimento al rapporto fra integrazione e vulnerabilità: venne rilevato, infatti, in termini critici rispetto a Cass. n.4455/2018, che la soluzione ivi postulata «avrebbe condotto ad una impropria sovrapposizione della tutela "umanitaria", prevista dal diritto nazionale, alle tutele (non a caso definite "maggiori") previste dal diritto eurounitario per i rifugiati ed i beneficiari della protezione sussidiaria, con notevoli incertezze applicative, in mancanza di qualsiasi abbozzo normativo che potesse indicare all'interprete quali fossero i casi di pericolo persecutorio (meno gravi rispetto a quelli tipizzati nel d.lgs. n. 251 del 2007) e di danno (meno grave rispetto alla protezione sussidiaria) che avrebbero potuto giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria». (cfr. Cass. 11749/2019 in motivazione).
c) a seguire, la decisione di Cass. sez. un. civ. n. 29459/2019 che - dopo aver confermato l’irretroattività della normativa del 2018 e, conseguentemente, l’applicazione, per le domande presentate anteriormente alla sua entrata in vigore, dei presupposti predicati dall’art. 5 co 6 T.U.I. - ha condiviso l’impianto esegetico di Cass. n. 4455/2018, con la precisazione che l’esito positivo dello scrutinio di esso avrebbe comportato il rilascio del permesso di soggiorno "per casi speciali" previsto dall'art. 1, comma 9, del decreto legge nel frattempo entrato in vigore, “attualizzando” il provvedimento che doveva concretamente essere rilasciato al richiedente asilo dall’autorità amministrativa.
d) infine, l’introduzione del dl n. 130/2020 convertito nella l. n. 173/2020 che, pur non abrogando la protezione speciale, introdotta nel 2018 , ha riaperto “le maglie” interpretative della fattispecie, richiamando espressamente il rispetto degli obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato ed integrando significativamente l’art. 19 del d.lgs. n. 286/98: infatti, dopo il comma 1 - che disciplina il divieto di espulsione e di respingimento verso uno Stato in cui lo straniero può essere oggetto di persecuzione per motivi di sesso, razza, lingua, cittadinanza, opinioni politiche ovvero condizioni personali o sociali - è stato inserito il comma 1.1., che prevede il divieto di espulsione, respingimento o estradizione di una persona «verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti», tenendo anche in considerazione se, nello Stato di origine, vi siano sistematiche e gravi violazioni dei diritti umani. Si prevede, inoltre, la necessità di valutare se l’allontanamento dal territorio nazionale possa comportare la violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, salvo ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica: gli indici da considerare, a tale fine, sono la natura e l’effettività dei vincoli familiari dell’interessato, il suo inserimento sociale in Italia, la durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine.
3. La vulnerabilità: problema centrale e contrasti di giurisprudenza
Il percorso argomentativo seguito da Cass. SU n. 29459/20219 sopra richiamata mostra, ancora una volta, che la questione di più centrale rilievo, nella valutazione dei presupposti della protezione umanitaria, è la “vulnerabilità”, concetto “liquido” sul quale si sono espresse numerose e (spesso) contrastanti pronunce della giurisprudenza di merito e di legittimità, anche in relazione alla difficoltà di attribuire, all’interno della dialettica processuale, un significato che fosse concretamente traducibile negli oneri di allegazioni (delle parti) o nel dovere di adempimento istruttorio (del giudice).
In particolare, le questioni oggetto di più frequente dibattito risultano essere le seguenti:
a. se la vulnerabilità debba essere riferita solo ad una condizione personale del richiedente asilo ascrivibile al suo vissuto nel paese di provenienza o/e di transito;
b. se debba essere riferita solo (od anche) al rischio che potrebbe derivare dal rimpatrio in un paese che presenta un livello di tutela dei diritti fondamentali al disotto del nucleo minimo della dignità umana, con una valutazione sia del suo passato che prognostica, rispetto alle conseguenze future del rientro;
c. se i connotati della vulnerabilità debbano essere oggetto di specifica allegazione, di cui è onerato il ricorrente;
d. se tale allegazione debba avere per oggetto fatti diversi da quelli già prospettati per le protezioni “maggiori”, trattandosi di una misura diversa che, pur rientrante nell’ambito della protezione, non ha carattere internazionale, ha una durata temporanea ed è richiesta, nella stragrande maggioranza dei casi, in via gradata, rispetto allo status di rifugiato ed alla protezione sussidiaria.
Su tutte le questioni sopra sintetizzate si sono verificati numerosi contrasti di giurisprudenza fra le sezioni semplici: in sintesi, e salva la peculiarità del caso concreto, l’approdo maggioritario ha escluso che la vulnerabilità sulla quale si fonda la domanda di protezione umanitaria necessiti dell’allegazione di fatti diversi da quelli dedotti in relazione alle protezioni maggiori; la valorizza rispetto alle violenze ed ai traumi subiti nel paese di transito; la riconduce indissolubilmente all’accertamento del livello di tutela dei diritti fondamentali nel paese di rimpatrio che deve essere oggetto di adempimento istruttorio officioso da parte del giudice, in ragione della chiara disposizione dell’art. 8 d.lgs. n. 25/2008; la riferisce sia alla storia pregressa che ha causato la fuga, ma anche alla condizione nella quale il ricorrente si è venuto a trovare dopo di essa, incluso il periodo di permanenza in Italia.
Su tale ultima questione si è incentrata sia l’ordinanza di rimessione della prima sezione civile della Cassazione (Cass., n. 28316/2020), riferita anche alla rilevanza da assegnare, nel percorso esegetico, ai nuovi presupposti di protezione introdotti dal dl n. 113/2020, convertito nella L. 173/2020, sia la conseguente pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. SU n. 24413/2021).
4. L’ordinanza di rimessione (Cass., n. 28316/2020)[3]
La prima sezione civile è partita dal presupposto che le Sezioni Unite (i.e. Cass. SU n. 29459/2019), in continuità con l'orientamento espresso da Cass. n. 4455/2020, avevano ribadito che la norma sulla protezione umanitaria, anch'essa attuativa del diritto di asilo costituzionale ex art.10, comma terzo, Cost., è necessariamente collegata ai diritti fondamentali che l'alimentano, sì da assurgere, in via evolutiva e col sostegno dell'art.8 della CEDU, a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l'attuazione.
Viene, tuttavia, rilevato che l'applicazione di detti principi non ha trovato risposte univoche nella giurisprudenza successiva alla citata pronuncia delle Sezioni Unite, quanto all'individuazione del preciso contenuto dell'indagine comparativa che il giudice di merito deve svolgere, principalmente in ordine ai criteri di accertamento del secondo fattore di cui si è detto ed al livello di caratterizzazione soggettiva richiesto, al fine di verificare, secondo un giudizio necessariamente prognostico, quale sia il nucleo essenziale dei diritti umani a rischio di lesione nel paese di eventuale rimpatrio.
Ad esempio, si osserva che «sulla rilevanza della condizione di povertà del paese di origine, ipotesi di più frequente ricorrenza, all'indirizzo che la nega, per non avere lo Stato italiano l'obbligo di garantire i parametri di benessere economico e sociale a cittadini stranieri, a meno che la povertà raggiunga la soglia della carestia (Cass.n.20334/2020) oppure perché la solitudine e l'indigenza economica non integrano una grave violazione di diritti umani (Cass.n.17118/2020), se ne contrappone un altro che la afferma, a determinate condizioni - per assoluta ed inemendabile povertà di alcuni strati della popolazione o di tipologie analoghe a quella del ricorrente, tali da determinarne l'impossibilità di sostentamento (Cass. n.16119/2020) -, oppure per ragioni individuali di indigenza (Cass.n.18443/2020), individuate in quel caso nell'ingente debito personale contratto dal richiedente nel suo paese, valutate unitamente alla condizione generale di povertà del paese stesso».
Il quesito che è stato posto, dunque, alle Sezioni Unite, come questione di massima di particolare importanza, ridonda ancora una volta sulla configurazione “della vulnerabilità”: prendendo le mosse dal percorso evolutivo ulteriore rispetto a quello tracciato dalla precedente pronuncia del 2019, la Corte osserva che il legislatore ha valorizzato, nel Dl 130/2020 ed attraverso l’ampliamento dei casi di protezione speciale, l'art.8 CEDU, ed in particolare la rilevanza del raggiunto inserimento non solo lavorativo ma anche affettivo e relazionale: l’ordinanza di rimessione chiede, quindi, di valutare se «può ritenersi che, nelle ipotesi considerate e a date condizioni, il vulnus possa conseguire direttamente, anche, proprio dall'allontanamento del cittadino straniero dal paese di accoglienza. Infatti, a fronte di una situazione di "stabile insediamento", per usare la stessa espressione della Corte EDU, da accertarsi secondo precisi parametri connessi alla durata, stabilità e consistenza qualitativa della condizione di permanenza in Italia, l'allontanamento può configurarsi come evento idoneo a provocare la lesione dei diritti umani fondamentali che connotano il "radicamento" dello straniero nel paese di accoglienza e dei quali il richiedente risulterebbe privato nel paese di origine. Dunque, la vulnerabilità, in questa ipotesi, può scaturire dallo "sradicamento" del cittadino straniero che, col tempo, abbia trovato nel paese ospitante una stabile condizione di vita, da intendersi riferita non solo all'inserimento lavorativo, che è indice indubbiamente significativo, ma anche ad altri ambiti relazionali rientranti nell'alveo applicativo dell'art. 8».
In buona sostanza, il quesito nuovamente posto alle Sezioni Unite riguardava:
a. la configurabilità del diritto alla protezione umanitaria, sulla base di un giudizio prognostico degli effetti dello "sradicamento" che incentri la valutazione comparativa sulla condizione raggiunta dal richiedente nel paese di accoglienza, con attenuazione del rilievo delle condizioni del paese di origine non eziologicamente ad essa ricollegabili[4];
b. l’applicabilità della nuova ipotesi di protezione speciale, introdotta dal Dl 130/2020, attraverso la modifica integrativa dell’art. 19 co. 1 .1 Dlvo 286/1998.
5. La soluzione di Cass., S.U., n. 24413/2021
L’approdo delle sezioni unite fornisce una soluzione equilibrata che, senza alcun torsione dei principi generali in materia di intertemporalità e con apprezzabile chiarezza, raggiunge comunque l’obiettivo di ampliare il raggio d’azione della protezione umanitaria, ove sia stata domandata nella vigenza dell’art. 5.co 6 T.U.I..
Dopo aver escluso che possa farsi riferimento, in termini di diretta applicabilità, alla nuova fattispecie coniata dal dl n. 130/2020 - in quanto la disciplina che la regola, per espressa previsione dell'articolo 15, comma 1, del medesimo decreto legge, è applicabile retroattivamente solo ai procedimenti che alla data di entrata in vigore di detto decreto legge (22.10.2020) pendevano «avanti alle commissioni territoriali, al questore e alle sezioni specializzate dei tribunali», ipotesi diversa da quella esaminata pendente dinanzi alla Corte di Cassazione - viene però valorizzato il rilievo imprescindibile dell’art. 8 CEDU, come faro interpretativo della centralità dell’integrazione ai fini della valutazione della vulnerabilità.
Il principio di diritto pronunciato[5] rimarca la necessità di un approccio ermeneutico basato sulla “comparazione attenuata” fra l’integrazione raggiunta e le condizioni di tutela dei diritti fondamentali ai quali il richiedente andrebbe ad esporsi nel caso di rimpatrio.
La comparazione attenuata, a ben vedere, si rispecchia nel principio di “ragionevolezza”, recentemente riaffermato anche in altri casi affrontati dalle Sezioni Unite in materia di diritti fondamentali[6]. Essa era stata, in passato, elaborata soprattutto come metodo di raffronto fra la valutazione della vulnerabilità delle donne sottoposte al brutale fenomeno della “tratta”, anche durante il soggiorno nel paese di transito[7] ed il livello di tutela dei diritti fondamentali nel paese di rimpatrio: si era, infatti, affermato che tanto più marcata era la vulnerabilità emersa dal racconto di violenze e torture subite e la gravità della sofferenza ad essa conseguente, tanto minore doveva essere il rigore con il quale il giudice era tenuto ad accertare gli indici di integrazione nel paese di accoglienza, in quanto le ferite esistenziali subite – e quindi la sua maggiore vulnerabilità – esponevano, di per sé in modo molto più immediato e diretto, la richiedente asilo ai danni derivanti dal rimpatrio: con la conseguenza che la complessiva situazione, in tal modo ricostruita, configurava i presupposti legittimanti la concessione della protezione umanitaria.
Il principio è stato, dunque, ribadito: ma, soprattutto, le Sezioni Unite hanno affermato che la valutazione dell’integrazione che ridonda sulla vulnerabilità, da esaminare ai fini comparativi, dovrà fondarsi su una considerazione complessiva dell’esistenza che il migrante è riuscito a costruirsi nel paese di accoglienza, e deve tenere conto di tutti gli aspetti di essa, e cioè non soltanto l’attività lavorativa svolta ma anche le relazioni affettive e familiari instaurate, lo stabile inserimento abitativo ( titolarità di contratti di locazione), nonché la rilevanza dei rapporti intrecciati nel luogo di accoglienza: viene, dunque, significativamente ampliato il senso dell’ “integrazione” che segue le orme del paradigma interpretativo della credibilità, predicato dall’art. 3 co 5 Dlvo 251/2007 e fondato su una valutazione complessiva e non atomistica delle emergenze istruttorie, nonché l’ampiezza del perimetro di attuazione dell’art. 8 CEDU: ciò ha consentito di evitare, deragliando dai principi generali, l’applicazione diretta o analogica della nuova formulazione dall’art. 19 T.U.I, disegnando, tuttavia, in modo più nitido il paradigma interpretativo della fattispecie già esistente.
Del resto, la soluzione raggiunta dalle Sezioni Unite si rinviene anche in alcuni precedenti delle sezioni semplici che hanno assegnato alla norma convenzionale richiamata l’ampio spazio che merita[8].
6. Conclusioni
La decisione commentata rappresenta un condivisibile approdo della evoluzione ermeneutica riguardante la protezione umanitaria perché lascia aperti ulteriori spazi interpretativi non ponendo rigidi confini nell’applicazione della norma : l’art. 8 CEDU è una disposizione a “compasso largo” che, fornendo tutela alla vita familiare, affettiva e relazionale della persona, consente di valorizzare in modo circolare l’importanza di un confronto fra l’esistenza passata e quella futura del richiedente asilo.
In tal modo, pensare che la questione sia stata definita sarebbe inopportuno perché la declinazione della fattispecie è destinata ad arricchirsi di nuove ipotesi, legate alle peculiarità dei casi concreti.
Rimane aperta, inoltre, la questione processuale riguardante gli oneri di allegazione del ricorrente in relazione agli aspetti che intende valorizzare, ed il confine esistente con il dovere di cooperazione istruttoria del giudice: la pronuncia esaminata, infatti, non affronta tale problema in quanto non era stato oggetto dell’ordinanza di rimessione, ma è prevedibile che esso tornerà alla ribalta in quanto è oggetto di un ricorrente dibattito fra gli interpreti.
Infatti, se è pacifico che i fatti sui quali si fonda la domanda debbano essere oggetto di allegazione da parte del ricorrente, non è ancora stato definito in che termini e con quale ampiezza la stessa regola debba valere per gli aspetti relazionali che egli intende far valere per l’applicazione dell’art. 8 CEDU: più precisamente, fino a che punto debba essere preteso un preciso onere di allegazione oltre il quale subentra comunque il dovere del giudice di cooperare nell’istruttoria a seguito di sussunzione dello spazio di applicazione della norma.
La strada per definire i contorni della fattispecie, dunque, è ancora lunga ma, certamente, la pronuncia delle Sezioni unite sembra aver imboccato la direzione giusta.
[1] Il Dl 113/20198 conv. nella L. 130/2018 ha abrogato la formula ampia prevista dall’art. 5 co 6 TUI riferita «ai seri motivi di carattere umanitario oppure risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» ed ha introdotto alcune ipotesi nominate di titoli di soggiorno, ossia: - il permesso di soggiorno per calamità naturale, regolato dal nuovo art. 20-bis del d.lgs. n. 286/98, a fronte di una situazione di «contingente ed eccezionale calamità naturale che non consente il rientro in condizione di sicurezza» nel Paese d'origine; - il permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile, previsto dal nuovo art. 42-bis del medesimo decreto; - il permesso di soggiorno per cure mediche, inserito con la lettera d-bis) dell'art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 286/98, relativo a «stranieri che versano in condizioni di salute di particolare gravità, accertate mediante idonea documentazione, tali da non consentire di eseguire il provvedimento di espulsione senza arrecare un irreparabile pregiudizio alla salute degli stessi».
Sono rimasti fermi altri titoli di soggiorno riconducibili a esigenze umanitarie, tra i quali quello in favore delle vittime di violenza domestica (art. 18-bis del d.lgs. n. 286/98) e di sfruttamento lavorativo (art. 22, comma 12-quater, del medesimo decreto), nonché quelli in favore dei minori (artt. art. 28, lettere a-b, del cl.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 e 31 del d.lgs. n. 286/98).
Accanto a questi permessi il legislatore ha introdotto una nuova forma di protezione, denominata speciale: il testo novellato dell'art. 32, comma 3, del digs. n. 25/08 prevede che le Commissioni territoriali trasmettano gli atti al questore per il rilascio di un permesso di soggiorno annuale che reca la dicitura "protezione speciale", qualora non sia accolta la domanda di protezione internazionale, ma comunque sussistano i presupposti previsti dall'art. 19, commi 1 e 1.1, del d.lgs. n. 286/98, salvo che possa disporsi l'allontanamento verso uno Stato che provvede ad accordare una protezione analoga. La protezione speciale è stata quindi configurata come norma di chiusura, in ideale contraltare all'apertura del catalogo dei seri motivi già contemplati dall'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286/98.
[2] Cfr. ex multis Cass. 4 febbraio 2019, n. 4890, seguita da Cass. 2 aprile 2019, n. 9090; Cass. 5 aprile 2019, n. 9650; Cass. 10 aprile 2019, n. 10107; Cass. 18 aprile 2019, n. 10922; Cass. 2 maggio 2019, nn. 11558, 11559, 11560, 11561; 3 maggio 2019, n. 11593; 8 maggio 2019, n. 12182.
[3] Su questa Rivista, v. M.L. Lepore, F. Fanizzi, La protezione umanitaria ancora al vaglio delle Sezioni Unite, https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-protezione-umanitaria-ancora-al-vaglio-delle-sezioni-unite
[4] Cfr. R. Russo, Le Sezioni Unite si pronunciano nuovamente sulla protezione umanitaria: il giudizio di comparazione attenuata tra presente e futuro, in Giustizia Insieme, https://www.giustiziainsieme.it/it/news/130-main/diritti-umani/1951-le-sezioni-unite-si-pronunciano-nuovamente-sulla-protezione-umanitaria-il-giudizio-di-comparazione-attenuata-tra-presente-e-futuro-di-rita-russo
[5] «In base alla normativa del T.U. Imm. anteriore alle modifiche introdotte dal d.l. 113 del 2018, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d'integrazione raggiunta in Italia. Tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano. Situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese di origine possono fondare il diritto dei richiedenti alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia. Per contro, quando si accerti che tale livello sia stato raggiunto, se il ritorno in Paesi d'origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall'art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell'art. 5 T.U. cit., per riconoscere il permesso di soggiorno». (Cass. SU n. 24413/2021, principio di diritto).
[6] In termini, cfr. Cass. SU n.24414/2021 in materia di diritti fondamentali e libertà religiosa, con particolare riferimento ai cpv 20 e segg. della motivazione che valorizzano soluzioni di bilanciamento fondate sulla ragionevolezza.
[7] Cfr. Cass. 1104/2020 secondo cui «Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, ove sia ritenuta credibile la situazione di particolare o eccezionale vulnerabilità esposta dalla richiedente, il confronto tra il grado di integrazione effettiva raggiunto nel nostro paese e la situazione oggettiva del paese di origine deve essere effettuato secondo il principio di "comparazione attenuata", nel senso che quanto più intensa è la vulnerabilità accertata in giudizio, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il "secundum comparationis", non potendo, in particolare, escludersi il rilievo preminente della gravità della condizione accertata solo perché determinatasi durante la permanenza nel paese di transito».
[8] Cfr. Cass. 15961/2021 secondo cui «Ai fini del riconoscimento, o del diniego, della protezione umanitaria prevista dall'art. 19, commi 1 e 1.1, del d.lgs. n. 286 del 1998, il concetto di "nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale", costituente il limite minimo essenziale al di sotto del quale non è rispettato il diritto individuale alla vita e all'esistenza dignitosa, dev'essere apprezzato dal giudice di merito non solo con specifico riferimento all'esistenza di una situazione di conflitto armato, ma anche con riguardo a qualsiasi contesto che sia, in concreto, idoneo ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all'autodeterminazione dell'individuo al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto della predetta soglia minima; ne consegue che può assumere rilievo anche la condizione di povertà estrema - nella quale non si dispone, o si dispone con grande difficoltà o intermittenza, delle primarie risorse per il sostentamento umano come l'acqua, il cibo, il vestiario e l'abitazione - del paese di provenienza, ove considerata unitamente a quella di insuperabile indigenza alla quale, per ragioni individuali, il ricorrente sarebbe esposto in caso di rimpatrio, nel caso in cui la combinazione di tali elementi crei il pericolo di esporlo a condizioni incompatibili con il rispetto dei diritti umani fondamentali».