Che la data del 24 giugno 2016, giorno in cui i cittadini britannici hanno scelto di uscire dall’Unione europea, sarebbe stato l’inizio di un percorso doloroso e tormentato, non era difficile prevederlo. Sarà un caso, ma intorno a questa data, quello che era un mito del dopoguerra, la tradizionale stabilità governativa britannica, sembra essersi sbriciolata; in un anno, si sono già succeduti due primi ministri e tre governi; in due anni si sono già svolte due elezioni politiche generali – nemmeno nella nostra Italia si è arrivati a tanto – tutte riguardanti, in un modo o nell’altro, il referendum, ed il guaio è che nessuna delle due, tanto meno l’ultima di poco tempo fa, ha migliorato le cose, anzi, ciascuna ha contribuito ad accrescere l’incertezza. Anche il primo ministro inglese oggi è costretto ad andare a cercare alleanze con partiti minori per assicurarsi maggioranze parlamentari, esattamente come si faceva – e si fa ancora – da noi.
Così, in questo giorno, che fin dalle primissime ore già manifesta la incipiente calura di un mese infuocato come non mai, sfogliando il giornale del mattino nel mio consueto viaggio da Genova a Roma, leggo che ieri, 19 giugno, dopo l’ennesimo attacco terroristico e dopo altri eventi luttuosi che hanno colpito Londra, sono iniziati i negoziati con l’Unione Europea per la gestione della cd. Brexit, un termine orrendo che già da solo mette una certa tristezza, perché dietro l’apparenza quasi leggera da scherzo linguistico adatto ad uno dei giochi della Settimana enigmistica, rivela però un contenuto drammatico per la definitività del concetto che esprime.
Allora è vero, la Gran Bretagna ci lascia, non farà più parte dell’Unione europea, di quella che, pur con tutti i suoi limiti e difetti, è stata in questi decenni e sarà la casa comune di noi europei.
Guardo per un attimo fuori dal finestrino del treno; la campagna toscana, tra Firenze e Siena, è quanto di più bello questo pianeta possa offrire; il Chiantishire, così chiamato per la pacifica colonizzazione britannica dei decenni passati, manifesta un legame con la terra d’Albione di cui, forse ingenuamente, mi chiedo quali saranno le sorti una volta che l’uscita sarà completata e tutto, nei rapporti tra loro e l’Unione, diventerà quasi certamente più difficile di oggi. Probabilmente sarà più complicato viaggiare, comprare casa, trasferirsi, fare affari. La deformazione professionale mi porta anche a pensare che, ugualmente, sarà più difficile condurre indagini con loro, ma anche sposarsi, lasciare beni in eredità, importare ed esportare merci, pagare una fattura con Iva, o semplicemente scambiare informazioni, ma questo, adesso, non è il momento in cui mi sento di soffermarmi su simili tecnicismi.
Mi viene in mente, piuttosto, la “mia” Inghilterra, del ragazzino che quando vi ha messo piede per la prima volta non aveva ancora compiuto 14 anni; l’estate del 1979, il college nella campagna di Woodford e Leytonstone, periferia est di Londra, la zona che, trentatré anni dopo, sarebbe divenuta quella dello stadio delle Olimpiadi del 2012. Ripenso a quelle estati di fine anni '70 e primi anni '80: per me, poco più che bambino del centro di Genova, ogni periodico soggiorno era un salto in un altro mondo: la Londra dei punk e degli skinhead, con le teste rasate o con enormi creste multicolore ed i giubbotti di pelle nera che mi facevano paura solo a guardarli da distante, gli echi ancora recenti della Swinging London e dei Beatles che si erano sciolti da appena nove anni, che convivevano con la nuova musica più arrabbiata di London Calling dei Clash, la maestosità di Trafalgar Square, le luci di Piccadilly Circus, l’euforia che trasmetteva Carnaby Street dove andavo a comprare le magliette delle squadre di calcio – quelle del Tottenham e dell’Aston Villa le conservo ancora oggi –, un giro ai grandi magazzini Selfridges o Harrods, dove anche solo le statue o le colonne all’ingresso del palazzo mi incutevano timore per le loro dimensioni, il fish and chips, avvolto nella carta che diventava subito unta, consumato sul prato di Hyde Park, il viaggio in underground per tornare a casa, da Oxford Circus lungo tutta la Central Line, la mitica linea rossa, verso est: Tottenham Court Road, Liverpool Street, e poi iniziava la periferia, Stratford, Leyton, Leytonstone, South Woodford, fino a Buckhurst Hill, ormai fuori anche dai confini della Grande Londra, in aperta campagna, fino alla foresta di Epping.
Loughton era il paese dove stavo in famiglia nelle estati successive alla prima, presso la signora Marion, a suo modo una vera working class hero, che odiava la Thatcher e cercava di tirare su, senza marito, il figlio Mark, ed anche per questo, per racimolare qualche soldo in più, ospitava i ragazzini europei che venivano a Londra ad imparare l’inglese. Loughton, Essex: un pub, un post office, la fermata della metropolitana e quattro vie ai margini della foresta ordinate e deserte, sui cui lati scorrevano tranquille le file delle classiche casette inglesi indipendenti, tutte con la finestra del salotto bombata (bow window), con giardinetto e posto auto sul davanti, e un altro giardinetto dalla porta della cucina, sul retro, per i barbecue di estate, in quelle rare giornate di sole e temperatura mite. L’arredamento semplicissimo ma decoroso, moquette per terra, su cui tutte le sere, immancabilmente, seduti sul divano, si appoggiava il mug, la tazza cilindrica col manico, del tè serale guardando la BBC o ITV prima di salire al piano di sopra e andare a dormire. Indimenticabile, se non altro anche perché in quel salotto si celebrò, per me e gli altri italiani compagni di quelle avventure estive, – ognuno dei quali stava in una casa del vicinato, ma con i quali per l’occasione ci eravamo radunati in violazione delle regole del programma di studio che volevano restassimo rigorosamente separati nelle “nostre” famiglie –, l’evento dell’11 luglio 1982, Italia campione del mondo in Spagna, e noi, a fine partita, a scorrere di notte per le vie deserte del paesino e urlare “I-ta-lia, I-ta-lia!” con una bandiera di carta fatta poco prima in casa colorando di tricolore un semplicissimo foglio bianco.
Quell’Inghilterra non solo ha segnato un pezzo della mia vita a quell’epoca, ma mi sento di dire che ha influenzato enormemente la mia vita per l’eredità che mi ha lasciato: l’avere imparato l’inglese, prima di tutto, che, molti anni dopo, ha rappresentato una svolta nella mia vita professionale, ma ancora di più, direi, l’avere assorbito l’atmosfera, i colori e le luci della metropoli londinese, un’autentica finestra sul mondo in anni in cui l’Italia era alle prese con il cupo periodo del terrorismo. Mi ha certamente insegnato l’apertura verso l’esterno e verso gli altri, ho appreso che la nostra società non era solo quella tra le mura di casa o della mia città, ma che vi era tanta, tantissima gente su questo pianeta, di fattezze fisiche e caratteri diversi, ma uguali in quanto figli tutti della stessa terra.
Quell’Inghilterra ha rappresentato la colonna sonora della mia vita: ancora oggi, quando sono giù, Octopus’s Garden, con la voce di Ringo Starr, mi strappa sempre un sorriso; Hey Jude, “prendi una canzone triste e rendila migliore”, resta sempre un inno universale e mi fa sentire davvero cittadino del mondo.
Quell’Inghilterra voleva dire lo sport come divertimento allo stato puro; il vecchio stadio dell’Arsenal di Highbury, non ancora Emirates, il torneo di Wimbledon di cui, in Tv, non perdevo una partita, i tentativi, nella scuola pubblica inglese dove avevo accesso per frequentare gli ultimi giorni di lezione, di giocare a cricket con i miei coetanei locali, su un prato così verde e tagliato così fine come non ne avevo mai visto prima.
Quell’Inghilterra, in una parola, ha contribuito a fare sì che anche una persona assolutamente comune, come me, potesse coltivare delle aspirazioni e, molti anni dopo, potesse farne diventare alcune realtà, e di questo gliene sarò eternamente grato.
Non mi ha chiuso, allora, le porte, non si è richiusa in sé stessa, ma accoglieva ed ospitava.
Certo, non voglio nascondermi oggi, diventato adulto e vedendo le cose senza l’allegra ingenuità del teenager, che, anche a quell’epoca, probabilmente la vera Inghilterra non era quella delle immagini un po’ stereotipate dei miei ricordi di bambino – o almeno non era solo quella – e che il “turismo linguistico”, come il mio e quello di milioni di altri giovani della mia generazione, ha rappresentato per gli inglesi un grande business.
Non voglio neppure ignorare la circostanza che i recenti episodi terroristici che hanno insanguinato il Regno di Elisabetta, che sono risultati essere stati commessi sempre da cittadini inglesi radicalizzati, hanno messo in luce come il tanto decantato modello di integrazione di persone provenienti da mezzo mondo, in buona parte come eredità dell’impero, il mitico melting pot – visione avanzata di società che anche, ma non solo, loro hanno coltivato fin da anni remoti, quando le nostre città erano tutt’al più alle prese con l’immigrazione dal Sud al Nord – evidentemente aveva dei lati oscuri che, poi, sono emersi in maniera drammatica.
Questo, però, non toglie il fatto che, se loro hanno preso qualcosa da me, hanno ugualmente offerto qualcosa di sé e del loro mondo, e da questo io, come molti altri, abbiamo imparato; è stata una lezione di vita che ci ha formato e di cui abbiamo fatto tesoro da adulti, e credo che molti della mia generazione che hanno compiuto la stessa esperienza si siano sempre sentiti, negli anni, anche un po’ inglesi.
Ora vi manco da qualche tempo, ma temo che quell’Inghilterra vista con gli occhi di ragazzino, oggi non esista più, e i fatti dell’ultimo anno potrebbero essere anche interpretati come la manifestazione esteriore di quello che, per me, rappresenta un passo falso di una nazione che si è sempre sentita molto, forse troppo, sicura di sé, e che solo oggi, probabilmente, si rende conto dell’errore e si rende conto di come non tutto abbia funzionato al suo interno.
Il mondo cambia ed è in evoluzione, ed in questo passaggio che porta l’Italia, anche suo malgrado, ad essere un traguardo per molti, mi viene da chiedermi se, nonostante la evidente diversità tra i miei viaggi di allora ed il contesto odierno, anche il nostro Paese non possa porgersi, di fronte a chi vi arriva, con lo stesso atteggiamento con cui l’Inghilterra mi accolse quasi quarant’anni fa: un luogo di cui qualcuno possa dire, un giorno, che ha contribuito alla realizzazione della propria personalità, della propria cultura e del proprio essere uomo e donna maturi per vivere e, perché no, gestire il mondo di domani.
L’Inghilterra con me lo ha fatto e se l’Italia potesse farlo oggi con qualcuno, potrebbe dire di avere lasciato un marchio indelebile nello sviluppo del mondo.
Forse, mi dico, sono discorsi un po’ da visionario, mentre la realtà è che oggi non posso nascondere il mio profondo dispiacere perché ormai percepiremo l’Inghilterra come più lontana; non dimentico, però, il passato e per questo ancora mi sento di dire: “Grazie Inghilterra”.
Il mio viaggio è finito, mi ritrovo immerso nel caos estivo di Termini. Mentre trascino il mio trolley già pensando agli affanni della giornata di lavoro, una ragazza mi ferma per una informazione. L’accento è inconfondibile, non è certamente americana né australiana, questo è inglese puro. Ma sono di corsa, non ho molto tempo per fermarmi e rispondo frettolosamente, allontanandomi a passo veloce.
La ragazza resta lì, un po’ perplessa, forse si aspettava più gentilezza da un uomo maturo in giacca e cravatta; me ne accorgo e mi dispiace; forse ho sbagliato, ma la vita continua, chiederà ad altri; in fondo, come dice una vecchia canzone italiana, ho mancato di etichetta, ma non era la regina Elisabetta.