1. La doppia anima del diritto
È un dato acquisito che negli ultimi decenni è venuta in primo piano quella che Gustavo Zagrebelsky [1] definisce “l’originaria e costitutiva doppia anima del diritto”, rappresentata dal comando delle leggi in senso formale e dalle valutazioni di giustizia materiale, che pera molto tempo è stata offuscata dalle interpretazioni positiviste per le quali nei Paesi di civil law il diritto si identificava nella legge e questa era concepita come strumento del potere legislativo.
Se quindi siamo tornati all’autentica struttura dualista del diritto ciò è stato determinato da quella che si è soliti chiamare “crisi della legge”, cui ha fatto da contraltare un sempre più incisivo ruolo da protagoniste assunto dalle valutazioni della giustizia materiale.
Questo processo, in Europa, è stato favorito dalla giurisprudenza in materia di diritti fondamentali due Corti europee centrali: la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di giustizia dell’Unione europea.
Infatti le decisioni di queste Corti sono state determinanti per consentire una più efficace tutela dei diritti umani in ambito europeo, grazie ad interpretazioni evolutive dei due testi normativi fondamentali in materia, cioè la Convenzione europea per i diritti dell’uomo e la cd. Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, “incorporata” nel diritto dell’Unione europea da parte del Trattato di Lisbona.
Ma esse hanno anche avuto notevole influenza sulle giurisprudenze dei giudici nazionali, spesso consentendo loro di “superare” in via di ermeneutica i testi normativi decidendo per “princìpi”, col rischio di interpretazioni “creative” che possono incidere sul basilare principio della certezza del diritto e anche su quello della prevedibilità delle decisioni, ma che di solito risultano finalizzate a sopperire alla suddetta “crisi della legge”.
A volte questo accade perché si attribuisce alle decisioni delle Corte europee centrali un valore che esse, in realtà, non hanno sulla base dei rispettivi ordinamenti, questo può succedere perché il giurista di civil law non sempre è preparato ad effettuare un corretto esame di tali decisioni proprio perché sono emanate sulla base di un procedimento valutativo molto diverso rispetto a quello normalmente applicato in ambito di civil law [2].
2. Common law e valore del precedente
Un procedimento nel quale i precedenti hanno un ruolo del tutto peculiare e diverso da quello che hanno, ad esempio, nel sistema italiano.
È noto che la Corte europea dei diritti dell’uomo (Grande Camera), Goodwin c. Regno Unito, sentenza dell’11 luglio 2002, ha affermato: «Sebbene la Corte non sia formalmente vincolata a seguire i propri precedenti, è nell’interesse della certezza giuridica, della prevedibilità e della uguaglianza di fronte al diritto che non deve discostarsi, in assenza di valida giustificazione, dai precedenti resi in casi già decisi» e questa statuizione è stata ripetuta in sentenze successive sempre della Grande Camera (vedi: Grande Camera, Mamatkulov e Askarov c. Turchia, sentenza del 4 febbraio 2005) sicché essa rappresenta una conferma significativa del fatto che la Corte si considera vincolata ai propri precedenti, salvo che non ritenga sussistente una «valida giustificazione» («good reason», «motif valable») per discostarsene.
D’altra parte, anche per la Corte di Lussemburgo, la propria decisione resa in sede di rinvio pregiudiziale non solo è vincolante per il giudice che ha sollevato la questione, ma spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto dell’Unione interpretata dalla Corte (giurisprudenza costante: vedi: Cgue 3 febbraio 1977, causa C-52/76, e 5 marzo 1986, causa 69/85).
Inoltre, sin dalla sentenza 6 ottobre 1982, causa C–283/81, Cilfit srl e Lanificio di Gavardo spa c. Ministero della sanità, la Corte di giustizia ha chiarito che il giudice nazionale non è tenuto al rinvio quando «la questione sollevata sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in analoga fattispecie, che sia già stata decisa in via pregiudiziale» oppure quando esiste una «giurisprudenza costante della Corte che […] risolva il punto di diritto litigioso, anche in mancanza di una stretta identità tra le materie del contendere». La Corte è dunque ben consapevole dell’importanza della stabilità dei propri precedenti, al fine di evitare «che si producano divergenze giurisprudenziali all’interno della Comunità», ma è altrettanto consapevole che ciò non si può tradurre in una adesione acritica e pedissequa.
Ne consegue che per entrambe la Corti europee centrali la stabilità dei rispettivi precedenti è un valore da salvaguardare, ma con la precisazione che ciò non si deve tradurre mai in una pedissequa adesione a quanto già deciso, tanto più che la individuazione della identità delle questioni va fatta sulla base di un esame delle rispettive sentenze non limitato all’abstract, più o meno ufficiale, ma esteso ad uno studio approfondito delle opinioni dissenzienti, per quanto riguarda la Corte di Strasburgo, e delle conclusioni dell’avvocato generale, per quanto riguarda la Corte di giustizia.
Ebbene, secondo alcuni esponenti della dottrina, i nostri giuristi e i nostri giudici nazionali non sempre tengono conto di questo tipo di approccio.
3. L’approccio interpretativo dei giuristi nazionali
Infatti, non sono mancati in passato casi in cui la nostra Corte costituzionale, nell’applicare il diritto dell’Unione così come interpretato dalla Corte di giustizia, si esprima in termini di «efficacia diretta» o di «immediata operatività» delle sentenze della Corte del Lussemburgo [3].
Dal canto suo, la nostra Corte di cassazione a volte ha riconosciuto «valore normativo» alle sentenze della Corte di giustizia [4].
Ebbene, questo tipo di terminologia, a ben vedere, è la stessa che la nostra giurisprudenza utilizza per riconoscere l’efficacia diretta e il primato alle fonti legislative dell’Unione (Trattati, regolamenti e direttive).
E questo, se da un lato dimostra che i giudici italiani riconoscono ormai alla giurisprudenza della Corte di giustizia un valore particolarmente stringente e vincolante, dall’altro lato rivela anche che il diritto legislativo e quello (di fonte) giurisprudenziale vengono sostanzialmente equiparati, senza coglierne la diversa natura.
In altri termini non si considera che una sentenza non può essere mai, come tale, direttamente e generalmente applicabile, in quanto costituisce una decisione resa rispetto ad un “caso concreto” e l’enucleazione di una regola o di un principio non possono mai prescindere dalla esatta individuazione del caso che ne è all’origine. Se è vero che le sentenze della Corte di giustizia “interpretano” il diritto dell’Unione, è altrettanto vero che l’interpretazione ha sempre alla sua base una fattispecie concreta, il cui esame è imprescindibile per coglierne l’esatta portata.
Gli stessi autori sostengono che “una simile confusione di piani” si riscontra nella nostra giurisprudenza anche rispetto alle sentenze della Corte Edu.
Si rileva al riguardo che la Corte costituzionale, pur respingendo ‒ a partire dalle note sentenze “gemelle” n. 348 e n. 349 del 2007 – l’orientamento secondo cui il giudice può disapplicare autonomamente (e cioè senza ricorrere alla Corte di Strasburgo) la normativa interna contrastante con la Convenzione, ha tuttavia affermato l’esistenza di un preciso obbligo di «interpretazione conforme» delle leggi nazionali rispetto alla Convenzione «come interpretata dalla Corte europea».
Questo indirizzo ha portato alcuni giudici di merito ad affermare chiaramente che, soprattutto dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la Cedu sarebbe divenuta direttamente applicabile nell’ordinamento interno, sicché al giudice sarebbe possibile disapplicare direttamente la normativa interna in contrasto con i diritti garantiti in sede europea (vedi, per tutti: Cons. Stato, 2 marzo 2010, n. 1220, nonché Tar Lazio, sez. II–bis, 18 maggio 2010, n. 11984, ove dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona si ritiene sostanzialmente superabile quanto statuito dalla Corte costituzionale nella propria giurisprudenza di cui alle sentenze n. 348 e 349 del 2007, nel senso di una «possibile disapplicazione, da parte di questo giudice nazionale, delle norme nazionali, statali o regionali, che evidenzino un contrasto con i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a maggior ragione quando … la Corte di Strasburgo si sia già pronunciata sulla questione». Vedi anche Corte Conti reg., Friuli Venezia Giulia, Sez. giurisd., in Riv. Corte Conti, 2010, p. 119).
4. Il metodo decisionale applicato dalle Corti europee centrali
Ma il punto su cui sembra opportuno attirare l’attenzione è – di nuovo – che l’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo è sempre e comunque riferita a casi concreti.
È illuminante, al riguardo, la testimonianza di Vladimiro Zagrebelsky, per molti anni giudice italiano della Corte di Strasburgo, circa il metodo seguito dalla Corte: «Il modo di ragionare della Corte, sia nella motivazione delle sentenze, sia nella discussione tra i giudici nella camera di consiglio, è fondamentalmente basato sui precedenti. Si parte dalla ricerca del precedente rilevante e, quando non esista un precedente specifico, la Corte si avventura negli interstizi lasciati aperti tra i precedenti giurisprudenziali pertinenti ma non specifici. Essa dunque procede distinguendo il caso da decidere da quello o quelli già decisi, per infine pervenire all’identificazione del precedente che indica la soluzione da adottare o alla conclusione che il caso da decidere non trova ancora riscontro nella giurisprudenza della Corte. In questo secondo caso si tiene conto di precedenti che esprimano una ratio decidendi comunque utile; infine, in mancanza anche di questo, si procede alla ricerca del senso da assegnare alle disposizioni della Convenzione con gli ordinari metodi interpretativi» [5].
Molto simile è il metodo utilizzato dalla Corte di giustizia UE.
Se questo è il modo di operare delle Corti europee centrali è evidente che il giudice interno non può seguire un metodo diverso nell’interpretarne le decisioni, attribuendo ad esse una portata che non possono avere.
In altre parole, se è indubbio che, in ambito europeo, la tutela dei diritti umani fondamentali fa perno sull’attività delle Corti di Strasburgo e del Lussemburgo, ciò comporta che si tratta di un sistema di diritto basato essenzialmente su una giurisprudenza formata con il metodo proprio dei sistemi di common law.
Questo ha un’immediata implicazione metodologica per l’interprete nel senso di partire da una adeguata conoscenza e consapevolezza del contesto in cui questo diritto si forma.
Un sistema europeo di tutela dei diritti umani non potrà che poggiare su un giudice autenticamente europeo, intendendo come tale ogni giudice nazionale e non solo quello che siede nelle Corti di Strasburgo e del Lussemburgo.
Il giudice nazionale, infatti, non è chiamato a limitarsi a recepire i dettami delle Corti europee centrali ma, acquisendo la competenza per padroneggiare gli strumenti e le dinamiche del diritto giurisprudenziale europeo, deve essere protagonista di un dialogo tra diverse esperienze e diverse percezioni dei diritti, che sono la conseguenza di tradizioni giuridiche e culturali profondamente radicate e che sovente, ultimamente, sfidano la sua coscienza.
Si riscontra, invece, una difficoltà culturale dei giuristi nazionali ‒ specialmente dei Paesi di civil law ‒ nel confrontarsi con l’uso del precedente: ciò che sembra contare è il “principio”, consacrato da una “giurisprudenza costante”, formulato in termini il più possibile avulsi dal caso concreto e, per tal via, applicabile anche ad altri casi.
È questo il contesto in cui, come affermato dalla nostra Corte costituzionale, il giudice interno può utilizzare l’interpretazione della Cedu risultante dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo al fine di ampliare la tutela dei diritti fondamentali senza tuttavia poter giungere alla disapplicazione come accade in ambito UE.
Ma è evidente che anche a tal fine il giudice nazionale deve intendere la giurisprudenza della Corte Edu in modo conforme al metodo utilizzato per la relativa decisione e quindi è chiamato a svolgere un paragone serrato tra il proprio caso concreto e la fattispecie decisa in sede europea, individuare la ratio decidendi della decisione, per poi confrontarla con altri casi e, distinguerla, se necessario, da essi.
In altri termini, nessuno chiede al giudice nazionale di considerare la giurisprudenza delle Corti europee come una fonte legislativa da applicare in modo pedissequo o come una sentenza di accoglimento della Corte costituzionale o una sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione.
In tal senso va ricordata la sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2011, laddove afferma che una pronuncia della Corte di Strasburgo, «ancorché tenda ad assumere un valore e generale di principio […], resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata: la circostanza che il giudizio della Corte europea abbia ad oggetto un caso concreto e, soprattutto, la peculiarità della singola vicenda su cui è intervenuta la pronuncia devono, infatti, essere adeguatamente valutate e prese in considerazione da questa Corte, nel momento in cui è chiamata a trasporre il principio affermato dalla Corte di Strasburgo nel diritto interno e a esaminare la legittimità costituzionale di una norma per presunta violazione di quello stesso principio».
Questo orientamento, più consapevole del ruolo da attribuire alla giurisprudenza della Corte Edu, si è consolidato nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo cui «[l]’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri» (sentenze n. 49 del 2015 e n. 349 del 2007). Il dovere di questi ultimi di evitare violazioni della Cedu li obbliga ad applicarne le norme, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte Edu, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti della giurisprudenza del giudice europeo (sentenze n. 68 del 2017; n. 276 e n. 36 del 2016), salvo restando che «è da respingere l’idea che l’interprete non possa applicare la CEDU, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo» (sentenze n. 68 del 2017 e n. 63 del 2019).
Tale evoluzione appare finalizzata a sottolineare il ruolo da protagonisti dei giudici nazionali in un dialogo che non ammette facili scorciatoie burocratiche, che possono determinare la crescita a dismisura di cataloghi di diritti, unita alla proliferazione di istanze giurisdizionali preposte alla loro tutela, con un conseguente indebolimento dei diritti umani.
5. L’apporto dei giudici britannici nei sistemi UE e Cedu
Certamente in questo l’esperienza dei giudici dei Paesi di common law, a partire da quella dei giuristi del Regno Unito, è stata ed è tuttora di grande rilievo.
Del resto ‒ secondo le acute osservazioni di Andrea Biondi [6] ‒ la Gran Bretagna, pur essendo da sempre un Paese famoso per saper difendere le proprie posizioni in tutti i campi del vivere sociale e civile e per non nutrire un “entusiasmo europeista”, è anche un Paese il cui sistema ha dato «numerose prove di profondo e radicato europeismo giuridico», dimostrando una spiccata capacità di metabolizzare principi del diritto europeo che altri Stati membri hanno avuto difficoltà ad accogliere nei rispettivi ordinamenti.
Questo è accaduto anche perché quello della Gran Bretagna è un sistema di common law molto simile a quello UE.
Questa similitudine ha anche consentito alla giurisprudenza inglese – dopo il Protocollo n. 30 del Trattato di Lisbona contenente le riserve del Regno Unito e della Polonia in ordine all’applicazione nei rispettivi confronti della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – di affermare che la Carta stessa deve «essere consultata nella misura in cui proclama, riafferma o chiarisce il contenuto di quei diritti umani che sono generalmente riconosciuti in tutta la famiglia delle nazioni europee», oltre a riconoscere il valore della Carta come canone interpretativo, nell’ambito del diritto europeo, in tal modo ridimensionando le prescrizioni contenute nel Protocollo n. 30.
6. L’europeismo giuridico dei giudici britannici alla prova del dopo Brexit
Ora, dopo Brexit – se Brexit si farà – si deve fare in modo che il «radicato europeismo giuridico» ‒ che ha consentito di superare, nel senso anzidetto, il pronunciato contrasto sulle questioni “europee” manifestatosi in Gran Bretagna a proposito dell’applicazione della Carta e del rispetto dei diritti fondamentali ‒ continui a manifestarsi nel senso che, nella giurisprudenza nazionale inglese, si perseveri sulla strada all’epoca tracciata e, pur con le debite differenze, si cerchi di “metabolizzare” e, se possibile, ridimensionare gli effetti di Brexit sul lavoro dei giudici.
È vero che se finora la tutela dei diritti fondamentali in Gran Bretagna è stata garantita dal concorso delle due Corti europee centrali (di Giustizia ed Edu) dopo Brexit rimarrà solo la possibilità di ricorrere alla Corte Edu ‒ peraltro governata da una disciplina molto diversa, anche dal punto di vista procedurale ‒ ma è evidente che questo non implica il venir meno della possibilità di tutelare i diritti fondamentali (anche quelli previsti dalla Carta UE) innanzi alla Corte Edu in base alla relativa Convenzione [7].
Né va omesso di considerare che molti di questi diritti sono riconosciuti anche da Convenzioni Onu o altre Convenzioni internazionali, sicché se ne può tenere conto anche in ambito nazionale (sempre per Convenzioni ratificate dalla Gran Bretagna).
Così, ad esempio, è da escludere che il giudice britannico sia lasciato da solo a tutelare il diritto all’equo processo oppure il divieto di discriminazione.
D’altra parte, nell’ambito della Corte di Strasburgo e del Consiglio d’Europa, in generale, sarà possibile per i giuristi e gli esponenti degli Stati membri UE continuare ad apprezzare l’apporto di giuristi britannici, che forse potrebbe diventare ancora più significativo!
Infatti, non si apprezza mai un bene, come quando lo si perde [8].
[*] The European Circuit - Annual Conference, Rome. “Mutual Influence of common and civil law post Brexit”, 13 settembre 2019.
[1] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia. Tre capitoli di giustizia costituzionale, il Mulino, 2008.
[2] Vds., per tutti: E. Calzolaio, Tutela dei diritti fondamentali e giudice europeo, relazione presentata in occasione del Convegno “Diritti fondamentali e diritti sociali” organizzato nell’Università di Macerata il 22 e 23 novembre 2011 e ivi ampi riferimenti in www.giurisprudenza.unimc.it.
[3] Ad esempio: nella sentenza della Corte costituzionale n. 284 del 2007 si afferma che «le statuizioni della Corte di giustizia delle Comunità europee hanno, al pari delle norme dell’Unione direttamente applicabili cui ineriscono, operatività immediata negli ordinamenti interni»; nella sentenza n. 227 del 2010 si ribadisce che: «le sentenze della Corte di giustizia vincolano il giudice nazionale all’interpretazione da essa fornita, sia in sede di rinvio pregiudiziale, che in sede di procedura d’infrazione».
[4] Vds., per tutte: Cass. 30 dicembre 2003, n. 19842.
[5] Così V. Zagrebelsky, La giurisprudenza casistica della Corte europea dei diritti dell’uomo; fatto e diritto alla luce dei precedenti, relazione del 20 novembre 2009 in www.giurisprudenza.unimib.it.
[6] A. Biondi, Corti Nazionali , Corte di Giustizia e Corte europea dei diritti dell’Uomo: tre livelli di protezione dei diritti fondamentali, www.europeanrights.eu, 6 maggio 2011.
[7] F. Francario, La tutela dei diritti post Brexit, www.federalismi.it, 9 agosto 2017.
[8] Parafrasando un pensiero di Johann Gottfried von Herder.