Magistratura democratica

I campi di raccolta libici:
un’istituzione concentrazionaria

di Giuseppe Battarino

La condanna di un cittadino somalo per i delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione aggravato dalla morte dei sequestrati, violenza sessuale, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, rivela la natura dei campi di raccolta dei migranti in Libia, gestiti da organizzazioni criminali.

La sentenza della Corte di assise di Milano affronta, tra le altre, le questioni dell’attendibilità delle testimonianze dei migranti vittime di violenze, identificati in Italia, delle modalità illecite con cui sono stati gestiti gli spostamenti di centinaia di migranti somali fino all’Europa, delle forme di privazione di libertà nei campi, associate a violenze sistematiche; nonché dell’identificazione solo parziale della pluralità di persone offese, rilevante ai fini della determinatezza dell’accusa, della correlazione tra accusa e sentenza e del divieto di bis in idem.

La descrizione dei fatti e la loro contestualizzazione sono una forma di rottura dell’istituzione concentrazionaria che i campi oggetto di esame nella sentenza rappresentano; e cristallizzano in sede giudiziaria, nella sua interezza, il contenuto spesso disumano dei viaggi dei migranti.

1. La descrizione del fatto: i “campi di raccolta”

I delitti consumati ai danni di migranti nei campi di raccolta libici sono divenuti oggetto di una pronuncia giurisdizionale del giudice italiano a seguito di un’indagine condotta dalla Procura della Repubblica di Milano, della richiesta del Ministro della giustizia ai sensi dell’art. 10 cp e del lavoro della Corte di assise di Milano, che, con sentenza 10 ottobre – 1° dicembre 2017 (pres. Ichino, est. Simi)[1], ha condannato un cittadino somalo all’ergastolo con isolamento diurno per tre anni, oltre alle sanzioni accessorie, nonché al risarcimento dei danni nei confronti di alcune vittime costituitesi parte civile e dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, per i delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione aggravato dalla morte dei sequestrati (con assorbimento dei contestati omicidi), violenza sessuale pluriaggravata, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina pluriaggravato.

La formulazione delle imputazioni ruota intorno alla condotta di cui all’art. 630 cp connotata dalla privazione illecita di libertà in danno dei migranti concentrati nei campi di Bani Walid e Sabratha, in territorio libico, ad esito dei percorsi subsahariani e sahariani delle migrazioni gestite da organizzazioni di trafficanti di esseri umani.

Nel caso della sentenza della Corte di assise di Milano le vittime del traffico erano cittadini somali.

L’organizzazione criminale a carattere transnazionale gestiva l’emigrazione dalla Somalia verso l’Europa in più fasi:

  • contatto degli appartenenti all’organizzazione con i cittadini somali obbligati a lasciare il loro Paese, a causa dell’insostenibilità di una situazione locale in cui di fatto non esiste più un’organizzazione statuale, le carenze igieniche sono mortali, le bande armate seminano quotidiana violenza;
  • conclusione di un accordo per il viaggio che rimaneva parzialmente indefinito quanto a misura e modalità del pagamento;
  • trasferimento sino alla Libia, attraverso l’Etiopia e il Sudan, su veicoli scortati da uomini armati dell’organizzazione;
  • concentrazione dei migranti in campi di raccolta dove venivano sequestrati fino al pagamento della somma a quel punto determinata generalmente in settemila dollari, richiesti, sotto il controllo degli appartenenti all’organizzazione, ai familiari o altri garanti del pagamento;
  • a pagamento avvenuto[2], istradamento dei migranti verso la costa per il tragitto finale attraverso il Mediterraneo.

Le condotte contestate e accertate nel processo sono state consumate nei campi di raccolta dei migranti di Bani Walid e Sabratha, in Libia, nei quali l’imputato, anch’egli migrante dalla Somalia, e dunque potenziale vittima, aveva invece scelto di collaborare attivamente con i locali gestori nel privare della libertà i migranti, sottoponendoli a violenze esemplari, finalizzate a ottenere dalle famiglie, rese edotte delle condizioni in cui si trovavano i congiunti, il pagamento della somma richiesta per liberarli e avviarli all’emigrazione in Europa.

La sentenza si muove sulla linea della ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti e contestati (con modifiche e integrazioni delle imputazioni intervenute in corso di dibattimento) contestualizzandone la descrizione nelle concrete e drammatiche condizioni dei campi libici.

I migranti erano stati privati della libertà e reclusi nei campi, organizzati per concentrarli in molte centinaia e in condizioni di deprivazione estrema; lì, per rendere più convincente la richiesta di denaro ma anche come metodo strutturale dell’istituzione concentrazionaria, l’imputato e i gestori li sottoponevano a privazioni di cibo e cure, a ripetute percosse con bastoni, spranghe e cavi, a torture con plastica fusa o scariche elettriche o a deliberata disidratazione; e le donne, comprese ragazze giovanissime, a ripetute violenze sessuali, legandole e percuotendole, e in diversi casi provocando loro gravi lesioni a causa della pregressa infibulazione.

I racconti di morte costellano le testimonianze delle persone offese che descrivono le fasi del viaggio migratorio governato dall’organizzazione criminale: le morti nel deserto dei migranti abbandonati o gettati fuori dai camion e dai pick-up; le morti contestate all’imputato nei periodi di sequestro nei campi libici: i testimoni riferiscono di protratte agonie di migranti percossi, lasciati senza cure fino alla morte, la morte per dissanguamento di una madre dopo il parto, le morti per denutrizione, gli strangolamenti; infine, dopo la liberazione dai campi e nella parte finale della migrazione, gli annegamenti in mare.

2. Alcune questioni giuridiche

La qualità delle indagini e della loro resa dibattimentale, insieme alla ritenuta credibilità delle dichiarazioni delle persone offese, hanno confermato, secondo i giudici dell’assise, un quadro della concentrazione dei migranti e di violenze di ogni tipo tale da scolpire una realtà che costituisce il contesto di riscontro della corretta formulazione delle accuse.

Il contributo probatorio fornito dalle persone offese, la natura della privazione della libertà nei campi libici e le conseguenze delle condotte dell’imputato nel contesto di essa, sono state oggetto di testimonianze che la Corte ha ritenuto attendibili, sulla base di indici consolidati in giurisprudenza[3].

Secondo la Corte di assise le modalità di ingresso nel territorio nazionale dei migranti – soccorsi in mare - escludono altresì che il regime delle loro deposizioni sia quello degli imputati del reato connesso di ingresso illegale nel territorio dello Stato, di cui all’art. 10-bis, d.lgs n. 286/1998[4].

La motivazione della sentenza esamina distintamente la tenuta probatoria delle fonti dichiarative per quanto riguarda il viaggio, il sequestro, le condotte ulteriormente lesive, l’individuazione soggettiva dell’imputato.

A tale proposito la sentenza ricostruisce l’esordio delle indagini, che appare di per sé omologabile a vicende storiche di individuazione di coloro che avevano agito come Kapò nei campi di concentramento, con le vittime che, giunte in Europa, a distanza di tempo e casualmente, incontrano l’imputato in un centro di accoglienza di Milano: il tumulto che ne segue attira l’attenzione della Polizia locale che avvia le indagini sfociate nel processo in assise.

Al giudizio di attendibilità delle testimonianze di diciassette persone offese, acquisite in incidente probatorio, si perviene dunque attraverso il metodo indicato, corrispondente alle esigenze di cui all’art. 192 cpp[5], che inevitabilmente, attesa la formulazione delle imputazioni, corrisponde all’esigenza di una ricostruzione ampia del contesto di gestione criminale delle migrazioni in cui le singole condotte delittuose sono state poste in essere.

Sotto questo profilo l’effetto del compendio probatorio formato dalle singole narrazioni di storie di migrazione[6] è altresì quello di delineare la sussistenza degli elementi costitutivi del contestato delitto di cui all’art. 12, commi 3, 3-bis e 3-ter del decreto legislativo 286/1998: «le modalità con cui sono stati gestiti gli spostamenti di varie centinaia di migranti dall’Etiopia o dal Sudan alla Libia e poi all’Europa mostrano un grado di programmazione e di organizzazione tale da palesare la sussistenza di un gruppo di persone che agiva in modo stabile e coordinato per provvedere al traffico illecito dei profughi in una pluralità di Stati. L’organizzazione era dotata evidentemente di numerose persone e cospicui mezzi per realizzare il suo programma delittuoso (aveva propagandato in diversi Paesi la sua attività, aveva appartamenti separati dove raccoglieva i viaggiatori in Etiopia o in Sudan, aveva veicoli atti al trasporto di numerose persone, centri dove le tratteneva sino al pagamento, che contenevano sino a cinquecento migranti, grandi barconi per trasferire centinaia di persone alla volta, guardie che controllavano tutti i trasferimenti ed i campi di raccolta, numerose armi di cui dotare i sorveglianti)».

L’imputato, anch’egli migrante dalla Somalia, partecipava alla gestione dei campi con compiti di sorvegliante dei suoi connazionali sequestrati.

La Corte di assise ha ritenuto di escludere la configurabilità a favore dell’imputato dell’esimente di cui all’art. 54 cp, con un’argomentazione di duplice portata.

Non solo, infatti, manca, per la sussistenza dello stato di necessità invocato alla difesa, la necessità di sottrarsi a morte certa, che asseritamente sarebbe derivata dall’impossibilità di pagare il viaggio: ma la natura delle condotte dell’imputato eccede largamente quanto eventualmente il suo ruolo di gestore dei connazionali gli avrebbe imposto: le condotte tenute nei confronti delle persone offese «risultano così gravi, così arbitrarie, così diversificate e reiterate da rivelare che l’imputato le aveva poste in essere esorbitando volutamente dal compito di mantenere l’ordine nel campo e di assicurare il pagamento della somma richiesta dall’organizzazione».

Arbitrarietà, imprevedibilità e atipicità delle condotte sanzionate e delle sanzioni inflitte costituiscono elementi che caratterizzano gli universi concentrazionari: in questo contesto le azioni dei singoli detentori di un potere coercitivo interno finiscono con l’eccedere il contenuto di eventuali singoli ordini dettati dai “capi”: nel caso di specie, come pure chiarisce la Corte di assise, le condotte dell’imputato risultavano caratterizzate da crudeltà gratuita e neppure erano cessate dopo il pagamento delle somme[7].

La natura della privazione di libertà che integra il sequestro di persona non è quella monopersonale ricorrente nella giurisprudenza in materia, bensì quella derivante dalla strutturazione dei campi di raccolta come strutture detentive particolarmente afflittive: il campo di Bani Walid «era dotato di un grandissimo hangar all’interno nel quale venivano tenute recluse circa 500 persone. Intorno a questo capannone c’era un cortile sorvegliato da uomini libici armati di fucili, rinchiuso a sua volta da mura di cinta. I migranti dormivano tutti insieme, uomini e donne, nel capannone ed erano così ammassati che non c’era neanche lo spazio per muoversi […] L’hangar non era areato, le condizioni igieniche erano del tutto scadenti, c’erano pidocchi ovunque, molti migranti soffrivano di malattie della pelle. Non potevano lavarsi, il cibo fornito era scarso. La notte il capannone veniva chiuso dall’esterno con un lucchetto e da quel momento veniva negato anche l’accesso ai due bagni che si trovavano subito fuori dal capannone ma sempre all’interno delle mura».

Quanto all’elemento estorsivo, non solo la prestazione di denaro era illecitamente imposta come corrispettivo per la liberazione ma essa era anche condizione per la cessazione - comunque arbitrariamente deliberata dall’imputato – delle violenze.

Del resto le testimonianze danno conto di un attenuazione delle restrizioni e delle vessazioni nel campo di Sabratha, dove le persone venivano trasferite dopo avere pagato le somme richieste.

La Corte ha ritenuto che i tredici omicidi contestati e accertati rappresentino elementi costitutivi della fattispecie aggravata di cui all’art. 630, terzo comma, cp («se il colpevole cagiona la morte del sequestrato si applica la pena dell’ergastolo») ascrivibili all’imputato in alcuni casi a titolo di dolo diretto, in altri a titolo di dolo eventuale: ciò su una base non meramente deduttiva ma sostenuta invece da quello che viene definito, in sintesi, come il suo «generale comportamento» nei confronti dei prigioneri, il suo «abituale atteggiamento di spregio […] per la vita dei migranti»: in un contesto di funzionalità delle morti effettivamente verificatesi al sistema di governo dei campi.

3. In particolare: l’identificazione delle persone offese

Si collocano dunque in questo contesto l’accertamento della pluralità di violenze sessuali e di morti cagionate, e la circostanza della identificazione solo parziale della pluralità di persone offese.

In ambito processuale penale essa rileva ai fini della determinatezza dell’accusa, della correlazione tra accusa e sentenza ed eventualmente del divieto di bis in idem.

La sentenza affronta il tema della specificità della formulazione dei capi di imputazione al fine di sviluppare la motivazione sull’insieme delle questioni poste dalla non specifica identificazione di tutte le persone offese.

È richiamato l’art. 417, lettera a), cpp che prevede espressamente che la richiesta di rinvio a giudizio contenga le generalità della persona offesa dal reato «qualora ne sia possibile l’identificazione»; analogamente, per il decreto che dispone il giudizio, l’art. 429, primo comma, lettera b), cpp prevede «l’indicazione della persona offesa dal reato qualora risulti identificata».

È contenuto nella sentenza un interessante riferimento all’art. 7 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale[8] che in talune delle fattispecie di crimini contro l’umanità fa riferimento a gruppi, collettività, popolazioni e dunque a vittime anche non singolarmente individuate.

Il tema della pluralità di persone offese non singolarmente individuate si pone con evidenza non solo sul fronte della violazione dei diritti umani in situazioni di conflitto o di attacco a popolazioni civili ma anche per quanto riguarda i corporate crimes che comportano talora forme di vittimizzazione di natura collettiva e anche transnazionale[9]; ed è destinato a diventare centrale nel diritto penale e processuale penale contemporaneo.

Sulla seconda questione, la correlazione tra accusa e sentenza, a fronte dell’articolazione delle imputazioni non si evidenziano in questo caso criticità[10]: si deve infatti considerare l’accurata “misura” della formulazione delle imputazioni – come detto utilmente modificate in corso di dibattimento – che traducono la distruzione di integrità e identità tipica dell’istituzione concentrazionaria in termini coerenti rispetto ai delitti di omicidio, in cui le vittime sono rimaste non singolarmente identificate («numerosi cittadini somali non identificati sequestrati nel campo di Bani Walid») e ai delitti di violenza sessuale («alcune decine di cittadine somale sequestrate all’interno del campo di Bani Walid e tra queste» le vittime identificate e presenti nel processo) in cui alcune delle vittime non sono state singolarmente identificate.

In un passaggio della sentenza la questione della mancata individuazione dell’identità dei profughi su cui ha inciso l’azione dell’imputato viene riportata al rispetto del diritto di difesa osservando che le condotte «sono state illustrate e specificate dai testi nei loro estremi oggettivi in modo tanto chiaro e circostanziato da permettere all’imputato di poterle efficacemente smentire» e quindi di difendersi.

Si tratta di una visione tradizionale della valenza del principio di correlazione tra accusa e sentenza, che una recente e significativa elaborazione dottrinale tende invece a ricondurre alla corretta distinzione tra funzioni di accusa e di giudizio, essendo impedito al giudice di pronunciarsi su un oggetto che il pubblico ministero non abbia posto formalmente come tale mediante l’atto di esercizio dell’azione penale o un’eventuale modifica dell’accusa in corso di dibattimento[11].

Nel caso di specie il riferimento alla pluralità di persone offese non identificate delinea correttamente l’oggetto del processo anche in questa prospettiva laddove si consideri che le morti di migranti rimasti senza nome e le violenze sessuali in danno di migranti rimaste senza nome sono circostanziate in termini di tempo, luogo e modalità e in questo perimetro hanno trovato il riscontro probatorio di cui s’è detto.

La terza questione risulta traslata agli effetti del passaggio in giudicato della sentenza: dovendosi in prospettiva valutare quale sarà il grado di copertura del passaggio in giudicato della sentenza rispetto ad un eventuale bis in idem.

Un passo motivazionale è dedicato a questo tema, laddove si afferma che «l’indicazione generica delle vittime non risulta pregiudizievole per l’imputato neppure sotto il profilo del ne bis in idem» e si cita Cass., VI, n. 5092 del 30-31 gennaio 2014.

La pronuncia di legittimità aveva ad oggetto un mandato di arresto europeo e ha dovuto porre a confronto una sentenza rumena ed una italiana, annullando la sentenza con la quale era stata disposta la consegna alle autorità rumene dell’imputato: ha ritenuto configurabile il motivo ostativo basato sull'ipotesi disciplinata dall'art. 18, lett. m), della L. n. 69/2005, poiché «occorre avere riguardo al criterio della identità sostanziale dei fatti oggetto dei relativi procedimenti»; in particolare, per quanto può rilevare anche per i fatti giudicati dalla Corte di assise di Milano, afferma la Cassazione che non è necessario «per l'operatività del divieto di doppio giudizio che anche la vittima sia la stessa, come, a mero titolo esemplificativo, può accadere nell'ipotesi in cui il reo, con la propria condotta, arrechi danno ad una pluralità di persone e venga per ciò condannato: pur non interferendo in alcun modo, tale evenienza, con la possibilità del danneggiato che non abbia preso parte al processo penale di promuovere l'azione per chiedere il risarcimento del danno dinanzi al giudice civile, deve ritenersi che il divieto di un nuovo processo sul medesimo fatto resta fermo, quand'anche il nominativo di una delle vittime non sia stato mai menzionato nel giudizio».

La condivisibile posizione di maggior tutela per il condannato, fondata su un richiamo esteso a norme e principi nazionali e sovranazionali, fatta propria, sia pure in sintesi e in prospettiva, dalla Corte di assise, porta a ritenere che a fronte di nuove acquisizioni investigative che svelino altri fatti illeciti della medesima natura attribuibili al condannato – in particolare: morti o violenze sessuali – si potrà procedere solo individuando quale elemento positivo la novità delle persone offese, non riconducibili in alcun modo al perimetro del primo giudizio, e dunque soggetti diversi da quelli, sia pure non identificati, la cui vicenda è stata esaminata in tale giudizio.

Ciò detto a proposito degli effetti della mancata identificazione di una serie di vittime, deve essere, in positivo, evidenziata la particolare qualità delle indagini svolte per l’identificazione delle numerose vittime entrate nominativamente nel processo con le proprie identità e testimonianze, di cui la sentenza dà conto.

Può accadere, nella prassi, che la difficile individuazione di persone offese o testimoni stranieri presenti in maniera irregolare sul territorio nazionale scoraggi la prosecuzione di indagini. Non così in questo caso: come si legge nella motivazione, sono state superate le difficoltà oggettive prodotte dalle imprecisioni nelle registrazioni iniziali dei migranti e sono stati sottoposti alle prime vittime identificate gli elenchi dei profughi sbarcati insieme a loro (circa novecento), ricostruendo progressivamente e analiticamente le affinità e i percorsi utili a identificare numerose altre persone che nei campi libici avevano assistito ai fatti oggetto di indagine e li avevano subiti.

4. Giurisdizione e rottura dell’istituzione concentrazionaria

L’avere affrontato e risolto le questioni giuridiche di cui sopra si è dato sintetico conto non solo rileva per la compiutezza argomentativa della motivazione ma, insieme alla descrizione dei fatti e alla loro efficace contestualizzazione, rappresenta una forma di rottura dell’istituzione concentrazionaria che ciascuno dei campi di raccolta libici oggetto di esame nella sentenza rappresenta.

L’idea di universo concentrazionario, che talora viene fatta coincidere con i sistemi concentrazionari, designa forme organizzate ed estese di detenzione non giudiziaria per categorie, generalmente frutto di scelte statuali; la situazione libica e, in particolare, quella dei campi di raccolta oggetto della sentenza della Corte di assise, non rientra in una pianificazione di questo tipo: peraltro la modalità concentrazionaria può essere declinata anche in relazione a una singola istituzione – entità o struttura – caratterizzata dalla mancanza di visibilità e possibilità di controllo dall’esterno delle condizioni dei detenuti e, all’interno, da forme di dominio fisico o psicologico su di essi eccedenti la semplice privazione della libertà[12].

È «il laboratorio in cui si vuole inverare l’affermazione secondo cui “tutto è possibile” […] l’universo concentrazionario serve a dimostrare che l’essere umano può essere ridotto ad un fascio di reazioni e la sua volontà, personalità e libertà possono venire completamente annullate»[13].

La modalità concentrazionaria esige per il proprio mantenimento la persistente estraneità di ogni possibilità di verifica esterna delle condizioni in cui si svolge la vita all’interno, ad eccezione di quelle funzionali al suo stesso mantenimento.

La sentenza della Corte di assise di Milano, senza esorbitare dall’oggetto del processo, ci restituisce elementi di consapevolezza dell’esistenza di forme di destrutturazione dell’integrità della persona il cui contenuto lesivo va al di là della tipicità penale delle singole condotte accertate.

Quell’istituzione concentrazionaria è esplorata (e per ciò stesso rotta) dalla giurisdizione.

I fatti accertati arrivano all’agosto del 2016. Non era evidentemente oggetto della sentenza il quesito – centrale, invece, per la sorte dei diritti umani – di quale sia stata l’evoluzione successiva nel rapporto tra «campi di raccolta privati» (i campi di concentramento di cui si occupa la sentenza) e «campi statali» in Libia; ci limitiamo in questa sede al rinvio ad un recente documento dell’Onu[14] che evidenzia la persistente criticità della situazione.

Peraltro la stessa sentenza della Corte di assise, in un passaggio relativo alle vicende di una delle vittime ha occasione di esprimersi a proposito dell’”approccio” ai migranti da parte di pubblici ufficiali libici: «in un altro campo […] era rimasta per circa un mese, fino a quando era intervenuta la Polizia libica che aveva arrestato tutti, sia i migranti, sia i guardiani. Era rimasta in prigione per tre mesi e qui era stata picchiata e violentata da una decina di poliziotti»[15].

La rottura dell’istituzione concentrazionaria mediante l’intervento di una giurisdizione nazionale diversa da quella del luogo in cui le vicende si verificano è certamente significativa ma non può avere effetti persistenti: il passaggio dalla rottura al superamento può avvenire per il tramite di una recuperata capacità delle strutture statuali libiche ovvero di un intervento delle istanze di legalità internazionale.

La sentenza della Corte d’assise di Milano, peraltro, oltre a quanto si è sin qui detto, ha cristallizzato in sede giudiziaria il contenuto spesso disumano dei viaggi dei migranti nella loro interezza, a fronte di uno squilibrio, nell’informazione sul fenomeno delle migrazioni dall’Africa, verso la sola frazione finale, pur drammatica, della navigazione nel Mediterraneo.

Non può essere dimenticato un modo d’essere dell’immigrazione gestita da organizzazioni criminali irriducibile alle sole fattispecie di cui all’art. 12 del d.lgs n. 286/1998 – pure accertate nelle loro forme di manifestazione più gravi – ma che, ancora nel nostro tempo, alimenta mondi di “sommersi e salvati”: i Kapò, i Blockältester «individui particolarmente spietati, vigorosi, inumani», che Primo Levi colloca tra i «salvati»: e dall’altra parte, in quei mondi, i «sommersi che non hanno storia».

[1] La sentenza è stata pubblicata su questa Rivista online: www.questionegiustizia.it/articolo/campi-libici-l-inferno-nel-deserto-la-sentenza-della-corte-di-assise-di-milano_03-04-2018.php.

[2] La quasi totalità dei migranti non aveva avuto richieste precise di denaro in partenza, limitandosi talvolta a corrispondere alcune anticipazioni: il “conto” era stato presentato nei campi libici, dove i migranti erano stati messi in contatto con le famiglie affinché fosse versata una consistente somma ai trafficanti. Il versamento avveniva mediante il sistema fiduciario della hawala. Il sistema, assai risalente, dovrebbe esser rispettoso della legge coranica che vieta le transazioni che richiedono interesse (riba; M. Okenwa Udugbor, Il diritto musulmano, Lateran University Press, 2010, p. 111; nel Corano: 2, 275 e 3, 130); generalmente esso prevede che il denaro venga trasferito attraverso una rete di mediatori, non prevede titoli di credito ma si regge su un impegno d’onore.

[3] Su temi rilevanti per la ricostruzione operata dalla sentenza in esame, tra le più recenti: Cass., II, n. 46100 del 27 ottobre – 20 novembre 2015 (sullo stato di vulnerabilità della persona offesa); Cass. IV, n. 47262 del 13 settembre – 13 ottobre 2017 (sull’efficacia probatoria delle individuazioni fotografiche).

[4] Viene a tal fine richiamata la pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione, n. 40517 del 28 aprile – 29 settembre 2016, che ha ritenuto di natura testimoniale le dichiarazioni rese spontaneamente alla Polizia giudiziaria da parte di migranti nei confronti di membri dell'equipaggio che aveva effettuato il trasporto illecito, non essendo configurabile nei loro confronti il reato di cui all'art. 10-bis, d.lgs n. 286 del 1998 laddove l'ingresso nel territorio dello Stato sia avvenuto nell'ambito di un'attività di soccorso.

[5] Nell’ampia giurisprudenza di legittimità sul punto si richiamano, su temi costituenti possibile corollario delle ampie argomentazioni contenute nella sentenza della Corte di assise: Cass. II, n. 43278 del 24 settembre – 27 ottobre 2015 (in ordine alle testimonianze delle persone offese, con citazione della pregressa giurisprudenza); Cass. I, n. 34473 del 27 maggio – 6 agosto 2015 (nella quale si afferma che, in tema di valutazione di una pluralità di prove testimoniali concernenti un medesimo fatto, la valenza probatoria delle dichiarazioni non è compromessa dal fatto che una o più circostanze siano riferite da alcuni testimoni e non da altri: nel caso di specie, peraltro, con riferimento a unico evento).

[6] Nella motivazione si considera la portata delle narrazioni, che, nel perimetro degli artt. 194 e 499, primo comma, cpp, risultano necessariamente più espressive rispetto al canone dei “fatti specifici” senza peraltro contraddirlo, precisando dunque che «la particolarità e drammaticità della vicenda che si è delineata attraverso le testimonianze di tutte le parti lese ha fatto ritenere necessario non limitarsi a presentare una sintesi delle stesse, ma procedere a riportare sugli argomenti più importanti le loro diverse esperienze e conoscenze».

[7] La sindrome del Kapò si coglie nelle parole riferite nelle testimonianze: «ripeteva spesso: “posso uccidere quando voglio e come voglio, posso fare quello che voglio”»; «io non sono somalo, non sono musulmano, io sono il vostro padrone».

[8] Approvato nel 1998 ed entrato in vigore nel 2002, dopo la sessantesima ratifica; l’art. 7, primo comma, recita: «Ai fini del presente Statuto, per crimine contro l'umanità s'intende uno degli atti di seguito elencati, se commesso nell'ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, e con la consapevolezza dell'attacco: a) omicidio; b) sterminio; c) riduzione in schiavitù; d) deportazione o trasferimento forzato della popolazione; e) imprigionamento o altre gravi forme di privazione della libertà personale in violazione di norme fondamentali di diritto internazionale; f) tortura; g) stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità; h) persecuzione contro un gruppo o una collettività dotati di propria identità, inspirata da ragioni di ordine politico, razziale, nazionale, etnico, culturale, religioso o di genere sessuale ai sensi del paragrafo 3, o da altre ragioni universalmente riconosciute come non permissibili ai sensi del diritto internazionale, collegate ad atti preveduti dalle disposizioni del presente paragrafo o a crimini di competenza della Corte; i) sparizione forzata delle persone; j) apartheid; k) altri atti inumani di analogo carattere diretti a provocare intenzionalmente grandi sofferenze o gravi danni all'integrità fisica o alla salute fisica o mentale».

[9] La questione rileva anche per l’attuazione della Direttiva europea 2012/29/Ue (che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato); è affrontata nell’ambito del progetto europeo Victims and Corporations. Implementation of Directive 2012/29/Ue for victims of corporate crimes and corporate crimes and corporate violence, coordinato dal “Centro studi Federico Stella sulla giustizia penale e la politica criminale” (http://centridiricerca.unicatt.it/csgp-centro-studi-federico-stella-sulla-giustizia-penale-e-la-politica-victims-and-corporations) ed è stata oggetto del corso straordinario della Ssm – partner del progetto europeo - svoltosi a Scandicci dal 25 al 27 ottobre 2017 (www.scuolamagistratura.it/component/phocadownload/category/753-fpfp17003.html).

[10] Peraltro la giurisprudenza di legittimità si è spinta a ritenere che non violi il principio di correlazione tra contestazione e sentenza la mancata identificazione della persona offesa in quella indicata nel capo di imputazione, ove restino immutati tutti gli altri elementi essenziali e circostanziali del fatto contestato (Cass. I, n. 48421 del 19 giugno – 4 dicembre 2013).

[11] Stefano Marcolini, Il principio di correlazione tra accusa e sentenza, Pacini Giuridica, 2018; da questo inquadramento deriva, tra l’altro, la valorizzazione della «fattispecie di correlazione tra accusa e sentenza» che colloca la verifica del rispetto del principio tra i presupposti del decidere: dunque «qualora la verifica – avente per oggetto […] il rapporto identitario che deve portare l’imputazione contestata dall’accusa a coincidere con quella che il giudice ritiene effettivamente emergere dal compendio probatorio frutto dell’istruzione dibattimentale – dia esito negativo, in luogo della fattispecie costitutiva del dovere di pronunciarsi sull’oggetto sostanziale del processo, se ne realizza una speculare, consistente nel divieto di provvedere su di esso e nel collegato obbligo di definire il procedimento con una pronuncia in rito che accerti l’ostacolo” (op. cit., p. 17): precisamente l’ordinanza di cui all’art. 521, secondo comma, cpp.

[12] Un elemento solo eventuale è il lavoro forzato, che nei campi di concentramento nazionalsocialisti rappresentava anche una forma di “annientamento attraverso il lavoro” e che quantomeno nel campo di Bani Walid, nel passaggio della sentenza che se ne occupa, appare invece come una forma di utilizzo produttivo dei prigionieri per l’ampliamento delle strutture di detenzione («in genere lavoravano alla costruzione di altri capannoni nel perimetro del campo»).

[13] Così Simona Forti, esaminando il pensiero di Hannah Arendt (Hannah Arendt tra filosofia e politica, Bruno Mondadori, 2006, p. 7)

[14] United Nations, Security Council, Report of the Secretary-General on the United Nations Support Mission in Libya, 12 February 2018:

«Migrants were subjected to arbitrary detention and torture, including rape and other forms of sexual violence, abduction for ransom, extortion, forced labour and unlawful killings. Perpetrators included State officials, armed groups, smugglers, traffickers and criminal gangs […] UNSMIL [United Nations Support Mission in Libya] visited four detention centres overseen by the Department for Combating Illegal Migration, and observed severe overcrowding and appalling hygiene conditions. Detainees were malnourished and had limited or no access to medical care» (p. 14).

[15] «Migrant women and girls were subjected to rape, forced prostitution and other forms of sexual violence at the hands of State officials, members of armed groups, smugglers and traffickers» (United Nations, Security Council, Reportcit., p. 9).